«Io, israeliana, difendo i terroristi palestinesi. Per questo mi chiamano l'avvocato del diavolo»
«Non posso giudicare i giovani di Gaza che compiono gli attentati perché io non sono cresciuta sotto occupazione. Loro usano metodi non tradizionali perché non hanno alle proprie spalle uno Stato. E Israele soffoca qualsiasi tentativo di protesta pacifica». Colloquio con Lea Tsemel, la legale che gli israeliani considerano una traditrice
Quando arriva di buon mattino al suo ufficio di “Via Saladino,” non lontano dalla città vecchia a Gerusalemme est, l’avvocata israeliana Lea Tsemel sente il bisogno di giustificarsi. «Abito nella parte ebraica della città e in linea di principio eviterei di mettere il mio ufficio in una zona palestinese, mi fa sentire come un’occupante», spiega a L’Espresso la settantaquattrenne legale israeliana che, nel corso della sua carriera è divenuta nota per aver difeso centinaia di terroristi palestinesi. «Ma quando il mio studio era nella parte ovest della città venivo continuamente bersagliata da cittadini israeliani. Mi hanno bollato “avvocato del diavolo”, mi considerano una traditrice perché difendo quelli che loro chiamano terroristi», spiega.
La giornata di Lea Tsemel è fitta d’impegni: in mattinata deve recarsi alla corte marziale di Ofer, annessa all’omonima prigione militare che incombe sulla strada 433 fra Tel Aviv e Gerusalemme, nel cuore della Cisgiordania. Lì vengono processati tanta parte dei palestinesi che in gergo israeliano sono noti come “prigionieri di sicurezza.” Fra un’udienza e l’altra deve gestire il polverone sollevato dal nuovo documentario “The advocate” (L’avvocata) sulla sua vita professionale, diretto da Rachel Leah Jones e Philippe Bellaiche. Dopo la vittoria della pellicola al Docaviv Film Festival di Tel Aviv niente meno che la ministra della Cultura, Miri Regev, ha detto di trovarla «vergognosa», aggiungendo che «qualsiasi film metta in buona luce il lavoro di Tsemel merita di essere condannato» . Perché «nessun effetto cinematografico può nascondere che Tsemel lavora contro lo Stato di Israele e la sua gente», ha sentenziato Regev.
Con il successo del film è arrivato anche l’attacco frontale del “Choosing Life forum,” un’associazione di familiari di vittime di attacchi terroristici. «Per più di cinquant’anni Tsemel ha rappresentato terroristi che hanno assassinato i nostri figli, le nostre mogli, i nostri mariti, fratelli, sorelle, parenti», ha denunciato l’organizzazione. Ma Tsemel, tarchiata e dal piglio molto deciso, difficilmente si lascia intimidire, e una chiamata dopo l’altra ribatte duramente alle domande dei giornalisti mentre riceve le famiglie dei clienti nel suo studio. «Negli ultimi anni mi sento meno sola: la società israeliana si sposta sempre più a destra, e quelli che vengono considerati traditori, come me, sono sempre più numerosi», dice. «Ma gli attacchi mi lasciano sempre più indifferente».
Alexander Langer ragionava soprattutto dei conflitti in Sud Tirolo e in Jugoslavia quando scriveva che, per risolverli o almeno attenuarli, «servono traditori della compattezza etnica». Essi però, aggiungeva Langer, «non si devono mai trasformare in transfughi se vogliono mantenere le radici e restare credibili».
Lea Tsemel, nel contesto dell’ormai centenario conflitto israelo-palestinese, sarebbe forse un caso limite anche per Langer. «Non posso giudicare i palestinesi che compiono attacchi terroristici, dire se hanno agito bene o male e dare le pagelle, perché io non sono cresciuta sotto occupazione», dice, se le si chiede un giudizio morale delle azioni dei suoi assistiti. «Chi sono io per dire: se ti sparano a una protesta, sei bravo, se ti sparano e avevi in mano un coltello, allora sei cattivo», continua. «È una guerra asimmetrica in cui i palestinesi usano metodi non tradizionali perché non hanno alle proprie spalle uno Stato», spiega, «Israele soffoca qualsiasi tentativo di protesta pacifica, non la si può considerare una vera opzione».
Tsemel tiene i documenti dei suoi processi in raccoglitori ordinatamente contrassegnati secondo la natura dei casi. «Possesso di arma da fuoco, lancio di pietre, attentati suicidi, oggetti con finalità di uccidere, minori, possesso di un coltello», recitano le etichette. Uno degli ultimi casi presi in mano da Tsemel è legato allo stupro e omicidio della diciannovenne israeliana Ori Ansbacher, nei pressi di Gerusalemme, lo scorso febbraio. Di regola, l’esercito israeliano reagisce distruggendo la casa del responsabile dell’attacco, per ottenere un effetto di deterrenza. Ma in questo caso il giovane palestinese Arafat Irfaiya viveva in una palazzina composta da diversi appartamenti, in cui abitavano i familiari. Tsemel li ha assistiti nel tentativo di rivolgersi alla Corte Suprema argomentando che Irfaiya abitava soltanto in uno degli appartamenti, e che comunque si era isolato dalla famiglia da molto tempo. «Ovviamente ho perso, come mi succede quasi sempre, e gli appartamenti sono stati distrutti», racconta Tsemel. Alla domanda se ci siano clienti che non si sentirebbe di rappresentare, risponde proprio citando l’ultimo caso. «Mi avessero chiesto di rappresentare Irfaiya direttamente, non l’avrei fatto, farei fatica a difendere con il massimo impegno uno stupratore», dice.
Tsemel racconta con sicurezza di essere stata la prima donna ad arrivare al muro del pianto dopo la conquista israeliana della città vecchia nel 1967. «Ai tempi ero un’israeliana normale», racconta, «anche io mi ero lasciata travolgere dall’euforia collettiva della vittoria nella guerra dei sei giorni». Ma il suo entusiasmo comincia a vacillare quando l’esercito israeliano abbatte il quartiere marocchino per creare quello che tutt’oggi è lo spiazzo di fronte al muro occidentale. «Mi sono chiesta: e le persone che ci abitavano dove sono andate? Poi ho capito che gli israeliani sognavano di replicare la cacciata di massa dei profughi palestinesi del 1948, e che la nostra era una guerra di conquista. Troppe cose mi ricordavano le tragedie della storia ebraica. Poco dopo ho cominciato le mie attività di legale contro l’occupazione».
Da allora la sua attività di legale si svolge su due piani. Da una parte le corti marziali della Cisgiordania, dall’altra quelle civili dove vengono processati i palestinesi che compiano attacchi dalla parte israeliana della linea verde. «Al contrario di quanto uno potrebbe pensare, capita che le corti marziali siano meno severe con i miei assistiti», racconta. «Una pietra lanciata a Gerusalemme, per esempio, può costare molto più cara di una pietra lanciata in West Bank», continua. «Dovessi azzardare una spiegazione, forse direi che i militari conoscono più da vicino il contesto dove è stato compiuto il reato», conclude. Secondo Tsemel gli attacchi terroristici perpetrati negli insediamenti andrebbero trattati diversamente da quelli compiuti dentro Israele. «La legge internazionale è molto chiara nel distinguere Israele dai territori», dice, «e prevede una chiara separazione fra obiettivi civili e militari. A mio modo di vedere, dal momento che la presenza israeliana nei territori viene spesso giustificata sulla base di ragioni di sicurezza, i coloni possono essere visti come obiettivi militari», spiega.
Se Tsemel si definisce una donna «molto ottimista e molto incazzata», la sua prospettiva sul futuro dei palestinesi tradisce pessimismo. «La conferenza americana in Bahrein mi è parsa una messinscena», dice del vertice lanciato dagli Usa nel regno del Golfo per promuovere investimenti nei territori palestinesi. Quanto a Gaza, identifica il problema di fondo con la questione del ritorno dei rifugiati. «La maggioranza dei palestinesi della striscia sono figli o nipoti di profughi delle zone vicine, come le cittadine di Ashdod e di Ashkelon», dice, «fino a quando non si trova una soluzione ragionevole alla questione del ritorno continueranno ad esserci proteste e rivendicazioni».
A chi le chiede cosa porti i giovani di Gaza a spingersi verso la frontiera quando sanno che gli israeliani apriranno il fuoco, nelle cosiddette “marce del ritorno,” o a compiere attacchi avendo la certezza che alla fine rimarranno uccisi, Tsemel risponde senza esitare: «la disperazione». «Nell’Islam il suicidio è proibito categoricamente, mentre uccidersi attraverso un atto eroico permette di diventare martiri. In questo modo giovani palestinesi mettono fine all’agonia di vite senza speranza nell’illusione di andare in paradiso», racconta, ricordando di aver anche assistito palestinesi miracolosamente sopravvissuti ad attacchi suicidi. Ecco un altro motivo per cui non deve stupire se gli strali della ministra della cultura Regev, fedelissima di Netanyahu, si sono abbattuti sulla pellicola “The advocate,” che sembra celebrare la legale più controversa d’Israele.
Il documentario, che i critici liquidano come puramente agiografico, racconta in realtà un caso in cui Tsemel ha finito per combinare un guaio a uno dei suoi assistiti. Ahmad Manasra, del quartiere arabo di Gerusalemme Beit Hanina, a soli 13 anni nel 2015 si mise a pugnalare passanti insieme al cugino nel quartiere ebraico di Pisgat Ze’ev. Al contrario del cugino, rimasto ucciso dalle forze di sicurezza, Manasra andò a processo, assistito ovviamente dall’immancabile Tsemel. Una confessione e patteggiamento immediato avrebbero forse permesso a Manasra di chiudere il processo prima del compimento del quattordicesimo anno, finendo così in un istituto minorile. Ma Tsemel pretese di andare a giudizio per provare che il tredicenne, malgrado pugnalasse, non aveva reale intenzione di uccidere. Risultato: una condanna a 12 anni di prigione per il suo assistito.
Persino il collaborare palestinese di Tsemel, l’avvocato palestinese Tarek Barghout, avrebbe consigliato al giovane Manasra di riconoscere le lampanti intenzioni omicide e patteggiare. Ora lo stesso Barghout è accusato di coinvolgimento in attività terroristiche, ed è diventato cliente dell’avvocata Tsemel. Secondo il quotidiano Haaretz, Barghout avrebbe detto durante un interrogatorio di essersi «stufato di combattere l’occupazione per vie legali». Un ennesimo segnale che forse qualche linea rossa Tsemel l’ha superata.