Primavalle, Torre Maura, Casal Bruciato. Il delitto del carabiniere. Ritornare sui luoghi simbolo del degrado significa viaggiare nella capitale di scarto, una periferia enorme, assediata dalla droga. In cui sopravvivere sembra l'unica opzione possibile (Foto di Alessandro Serranò per L'Espresso)

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In via Codirossoni, a Torre Maura, in fondo alla Casilina, per ore e per ore non passa nessuno. Ci sono solo due macchine parcheggiate ai lati, una con le gomme sfondate e quasi completamente coperta di aghi di pino che hanno rilasciato la resina che si è seccata sui vetri. La fama di questa strada è durata poco più di una settimana. Agli inizi di aprile 2019 si sono piantate qui le troupe televisive 24h, a raccontare, come in un documentario su una civiltà poco nota, la periferia romana; ovvero la presunta storia di un quartiere che non voleva che un gruppo di famiglie rom e sinti potesse trovare ospitalità nel centro al civico 24. Militanti di CasaPound e Forza Nuova e alcuni (pochi) abitanti del posto hanno creato (inscenato) un presidio per diversi giorni, che alla fine, effettivamente, ha avuto come esito la cacciata delle famiglie.

Parlare di periferia non vuol dire nulla. Ma andare a Torre Maura serve, se si vuole capire cos’è Roma oggi. Torre Maura è un posto per il quale l’unico aggettivo spendibile è brutto, si permette di dire Valerio Mattioli in Remoria, il libro più importante su Roma scritto negli ultimi anni, in uscita a settembre per minimum fax. Mattioli è nato e cresciuto a Torre Maura, e la periferia che lui racconta è molto diversa dalla landa evocata dagli approfondimenti televisivi pomeridiani: è piuttosto una borgatasfera, che sembra generarsi da sé, come un’ombra della città eterna ma autonoma. Ha ragione Mattioli: se si passeggia per Torre Maura, si deve ammettere che è di una bruttezza mediocre, scadente, nel migliore dei casi ordinaria. Di uno squallore che nemmeno concede nulla alla potenza distopica della grande periferia metropolitana, «ché quella, a Roma, appartiene a poche e isolate astronavi atterrate tra i pratoni lasciati abbandonati dalla rendita fondiaria, e che portano gli evocativi nomi della scenografia da cronaca nera: Corviale, Laurentino 38, Serpentara».

La forza di questa bruttezza è l’inerzia, il tempo immobile, la controra interminabile, la politica assente. Anche la resistenza delle istituzioni all’atto squadristico di aprile scorso è molto debole; il gesto più potente è la contrapposizione, diventata un simbolo, di un ragazzino quindicenne, Simone, a alcuni militanti neofascisti. I suoi Non me sta bene che no, Io so de Tore Maura, E che è colpa dei rom? tentano di supplire alla mancata mobilitazione a favore dei legittimi assegnatari. Simone è riconosciuto come un eroe. Ma quelle settanta famiglie oggi che fine hanno fatto? Non si sa, mi dice Carlo Stasolla dell’associazione 21 luglio: qualcuna si è sistemata in un appartamento singolo da amici o in affitto, molte sono tornate nei campi o negli insediamenti informali, la maggior parte si è dispersa per Roma. Il centro di via Codirossoni è lasciato in condizioni fatiscenti, ospita come può diversi rifugiati in un regime di prima accoglienza che è davvero molto fragile. Del resto, senza le telecamere a cui urlare la rabbia, a nessuno interessa.
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Quando ero stato a aprile a seguire l’agguato neofascista, avevo fatto insieme a Daniele Leppe, avvocato e volontario di Nonna Roma (un’associazione che si occupa di sostegno ai poveri romani), un giro nelle strade accanto. A cento metri, in via delle Cincie, le palazzine di case popolari dell’Isveur (Istituto per lo sviluppo edilizio e urbanistico; oggi sono del comune, vicino ce ne sono altre dell’Ater) ospitano più di 400 nuclei famigliari, alcuni da quaranta anni e passa – da quando, cioè, queste case vennero costruite e assegnate per ospitare i baraccati delle borgate di tutta Roma.

Per diversi mesi invernali hanno sopportato le caldaie rotte, e non c’è stato verso che il comune agisse; lamentare il deficit di manutenzione o di semplice ascolto da parte del comune è diventata una specie di nenia. Infiltrazioni ai piani più alti, esondamenti fognari a quelli più bassi sono normali come il susseguirsi delle stagioni; gli inquilini si sono rassegnati («Me tajo er prato da solo, er servizio giardini e chi l’ha mai visto»), a sentirsi rimandare di mese in mese le richieste di intervento («È un anno e mezzo che aspetto, l’ascensore riparato lo vede mi nipote quando moro»). Il paradosso è quello di vivere in una casa che non è di proprietà, che non si può curare né riscattare. È come se un bene pubblico venisse lasciato andare in malora, a dispetto della stessa volontà di chi vorrebbe occuparsene. Tra dieci anni queste palazzine saranno in rovina.

A raccontare le periferie romane fuori dalla retorica dell’emergenza si scopre facilmente che i temi reali non sono il terrorismo, i rom, la droga, la criminalità, e nemmeno l’immigrazione, la sicurezza o il degrado. L’agenda politica è più semplice: casa, mobilità, lavoro, scuola. La questione romana non ha bisogno di interventi di emergenza, ha bisogno di programmazione e manutenzione. Ma questo vorrebbe dire posare un occhio laico su una città che invece è abituata al fatalismo. Che siano vent’anni di fascismo, settanta di speculazione edilizia, dieci di mafia capitale o quaranta di crisi dei rifiuti, cosa conta per una città eterna? Sono calamità naturali. Vivere a Roma è complicato, sopravvivere è l’unica opzione possibile. Pasoliniana, coatta, suburra: è come se questa città mostrasse una irrimediabilità genetica. Gli urbanisti ne sono respinti come giardinieri di fronte alla savana. Così le borgate non sono più uno sprawl, ma l’area più vasta e abitata di una città diventata un po’ una postmetropoli, un po’ rimasta un grande ammasso di paesoni, che va da Guidonia a Tor Bella Monaca, da Ostia a Setteville.
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Sono utili un paio di studi collettivi per inquadrare quello che è successo, se non si vuole dire solo amen. Fuori raccordo a cura di Carlo Cellamare e Roma in transizione a cura di Alessandro Coppola e Gabriella Punziano fotografano una Roma ingovernata, una città in cui all’assenza di politiche urbanistiche si è aggiunta - spesso - la distruzione delle comunità locali. D’altronde se alla piazza o alla parrocchia o al centro anziani si sostituisce il centro commerciale, come è accaduto per le nuove centralità, non è difficile capirne le ragioni.
A Casal Bruciato a inizio maggio va in scena un’altra puntata della serie neofascisti contro famiglie rom legittime assegnatarie di casa; rituale come una festa del patrono. In questo caso lo squadrismo è ancora più violento, diretto contro un singolo nucleo famigliare, che - dopo essere regolarmente entrato nell’appartamento - viene minacciato per giorni da una frotta di militanti con un appostamento sotto casa, addirittura un gazebo. Alla fine, diversamente da Torre Maura, la famiglia non è stata cacciata, oggi può vivere ancora a Casal Bruciato. La mobilitazione contro i neofascisti è risultata più consistente e efficace, da parte dei movimenti per la casa, dei sindacati di base, da parte dei militanti di Potere al popolo che a febbraio scorso hanno messo su una Casa del popolo, e alla fine anche del Partito democratico, che, parzialmente contestato quando si presenta alla manifestazione antifascista, poi resta in piazza. Il 21 maggio Nicola Zingaretti inaugura anche una nuova sezione a Casal Bruciato, in via Diego Angeli: il giorno dell’apertura dichiara che il Pd torna e non se ne va mai più da questi quartieri. La realtà a nemmeno due mesi dal brindisi ha già smorzato quell’entusiasmo. La sezione è aperta solo due volte a settimana per pochissime ore, uno sportello per il cittadino si dice nella bacheca sulla porta chiusa, per discutere di: sicurezza, illuminazione, decoro, offerta culturale. È un po’ triste, sembra un Caf. La palestra a pochi metri a confronto è una comune parigina.
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I conflitti sociali possono essere teatrali, epici in un certo senso perché senza soluzioni; ma i fatti del 2019 di Torre Maura e Casal Bruciato ci obbligano a una discussione seria sulla politica romana. Perché la marginalità sociale viene strumentalizzata dalla destra per diffondere il razzismo su larga scala? Come si contrasta questo disegno politico? Roma è davvero una città razzista come dicono i media oppure ci sono anticorpi vitali nell’associazionismo e nel buon senso popolare? Quali politiche sociali sono praticabili per aiutare la trasformazione multiculturale della città? Sono le questioni che si pone Federico Bonadonna, antropologo e ex dirigente comunale negli anni zero ai servizi sociali: «Per quasi trent’anni i rom, i sinti, i camminanti, sono stati oggetto della segregazione amichevole dei campi. Creati per salvaguardare una cultura diversa, i campi si sono trasformati in ghetti». Ormai ci sono bambini diventati adulti che hanno vissuto la loro intera vita in questi ghetti; l’Italia è l’unico paese europeo a compiere questa segregazione istituzionale, i campi rom sono il modello stesso della città escludente. Bonadonna si spinge a parlare di banlieue romane: «La politica ha segregato di fatto i reietti della città, per dirla con Löic Wacquant. Intorno e negli spazi di risulta dei grandi blocchi di case popolari in condizioni di degrado perché senza manutenzione da molti anni infatti, sono stati infatti collocati o si sono aggregati spontaneamente, baraccopoli pubbliche denominate campi rom, centri di accoglienza per stranieri, per minori stranieri non accompagnati, residence per l’”emergenza abitativa”, occupazioni di movimenti di lotta per la casa». Una periferia dentro la periferia.

L’esclusione è elevata a potenza. C’è il campo rom e poi la parte dove è meglio non andare del campo rom. Un quartiere off limits e poi c’è la zona off limits del quartiere off limits. I proletari e i poveri. I poveri e i poverissimi. Anche a Tor Sapienza, per esempio. Qui bisogna tornare al 2014 per la settimana di celebrità: le solite telecamere h24, editoriali sul degrado delle periferie, leggende metropolitane. Tra i lotti di via Giorgio Morandi la battaglia fu abbastanza memorabile per chi si ricorda la cronaca romana; e invisibile se oggi se ne cercano le tracce tra le transenne divelte, l’immondizia non raccolta da mesi. Il 10 novembre del 2014 scattano i pogrom degli abitanti del quartiere esasperati contro il centro rifugiati dove sono ospitate un’ottantina di persone. La polvere pirica è stata sparsa con cura per molto tempo: le case popolari sono completamente abbandonate, zero manutenzione, zero servizi pubblici. La scintilla la fa scoppiare un’aggressione a un anziano. Il giorno successivo un corteo sedicente spontaneo (in realtà guidato e organizzato da neofascisti; c’è un’ottima ricostruzione di Leonardo Bianchi) riesce a sfilare contro il centro. Se possiamo discutere se definire Tor Sapienza una banlieue, quella settimana di proteste e scontri assomiglia certo a un riot. L’amministrazione comunale - in quel momento c’è Ignazio Marino sindaco - non riesce a governare la situazione; lo stesso Partito democratico gli va contro. Quando Marino arriva a Tor Sapienza, è costretto a rifugiarsi nell’unico bar aperto dell’intera area. Tutti gettano altra benzina sul fuoco, da Giorgia Meloni a Paola Taverna, al suo stesso partito; il meccanismo innescato dai neofascisti ha funzionato alla perfezione. Il centro rifugiati viene sgomberato. Persino i ragazzini che vogliono restare sono costretti alla fine a andare via. I fascisti nelle periferie diventa un format.
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Oggi di quella battaglia non resta niente; da allora però la condizione dei lotti è peggiorata. Il bar dove si rifugiò Marino è una delle poche saracinesche aperte. Manca l’illuminazione stradale. C’è solo un piccolo supermercato di Ipercarni e la farmacia comunale (nessun privato verrebbe qui), dove le medicine che vanno di più sono gli antidiabetici (il tasso di anziani tra gli abitanti è alto, al contrario di quello che si pensa) e gli psicofarmaci e dove i prodotti di parafarmacia (creme, shampoo, integratori…) non sono nemmeno esposti sugli scaffali; sembra una farmacia da campo. Tor Sapienza era e è un ghetto dove le telecamere non tornano nemmeno più se non c’è un morto o un riot. Nei lotti la presenza delle istituzioni è nulla: un centro anziani e uno studio medico per 6 mila persone.

Persino il parroco di San Cirillo e Metodio, la chiesa davanti, si è quasi arreso e dice che la via crucis per il quartiere non si fa più perché le strade sono al buio e sarebbe pericoloso. L’incuria nella manutenzione delle palazzine dell’Ater è tale che gran parte del complesso è transennato per impedire che un pezzo di cornicione possa crollare addosso a qualcuno. I segni non sono quelli di una battaglia ma di una guerra pluridecennale che nessuno ha raccontato: la ghettizzazione degli abitanti delle case popolari. Oggi a Roma vivono nelle case di edilizia residenziale pubblica 170 mila persone; non è nemmeno facile reperire questi dati da statistiche pubbliche. I riferimenti che si citano sempre sono le ricerche che continua a fare Enrico Puccini. Mancano studi che descrivano come si è evoluta la composizione dei residenti: come è possibile per esempio che oggi abbiamo contemporaneamente una crisi demografica e una crisi abitativa? Un’eccedenza di case sfitte, di quartieri disabitati, e infinite graduatorie per le case popolari?

La frammentazione e la non conoscenza del patrimonio immobiliare dato in edilizia pubblica è uno dei problemi; Regione e Comune - stanca persino dirlo - non si parlano. Ci sono circa 28500 alloggi gestiti da Roma Capitale, e circa 46 mila gestiti dalla Regione attraverso l’Ater che è regionale; ognuno, ovviamente, basato su banche dati diverse e non collegate fra loro. Più i fitti passivi, ossia i 3.300 e passa alloggi di enti o privati affittati dal pubblico, per il quale il comune spende circa 25 milioni l’anno.
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Uno degli errori politici più gravi è stato trasformare l’Ater in un ente economico (nel 2002, giunta regionale Storace), e quindi obbligarlo al pareggio di bilancio e al contempo imporgli i canoni d’affitto. «È come dare una concessione per una cartoleria e poi dirgli che i quaderni li deve vendere a dieci centesimi. È un meccanismo satanico», alza le mani Puccini. L’Ater incassa poco, ha morosità insostenibili; perché una parte sempre più consistente di inquilini delle case popolari non ce la fa a pagare. È strano che i poveri non trovino all’improvviso un tesoro nascosto nella casa che gli è stata assegnata? Qualcuno si è preso la briga di incrociare i dati sul reddito di cittadinanza e quelli sulle case popolari? Perché non ci ispira al modello francese e tedesco che integrano i canoni concordati con i sussidi? In più l’Ater è in debito - per la vecchia Ici - per centinaia di milioni di euro con il comune di Roma. Essendo un ente economico, paga tariffe standard, creando il paradosso di un ente pubblico affamato da un altro ente pubblico a sua volta affamato. Come fare a fare cassa? Con una delibera del 25 giugno scorso, per esempio, l’Ater ha messo in vendita le case popolari del centro; e il risultato forse sarà che i nuovi assegnatari finiranno oltre il raccordo, alimentando ancora di più il processo di ghettizzazione, di una città classista. A questo si aggiunge il paradosso degli appartamenti edificati e invenduti dagli immobiliaristi romani che non pagano l’Imu, e quello delle dismissioni di massa del patrimonio abitativo pubblico. Parlare di emergenza abitativa o elencare gli sgomberi in città (le dichiarazioni del ministro dell’interno) come i territori di conquista di un Risiko vuol dire unire alla malafede o alla stupidaggine la ferocia. La battaglia politica per Roma è una rissa a chi la fa più sporca, alle volte.

A meno di seicento metri in linea d’aria dai lotti di Tor Sapienza, c’è il campo rom di via Salviati. L’intera area è uno slum a un quarto d’ora di macchina dal centro di Roma. L’abbiamo visto, la sperimentazione dei campi rom ha dato questo come risultato. L’acqua putrida ha inondato l’asfalto: i rifiuti sono ammucchiati in montagnole ai lati, i ragazzini girano con le ciabatte cercando di non infangarsi. Gli chiedo che fanno, che classe frequentano. La maggior parte è stata bocciata, non pochi due volte, qualcuno perché non ci vede da un occhio dice, qualcun altro perché non sa bene l’italiano. E quest’estate? Come la passeranno, mentre aspettano uno sgombero minacciato tutti i giorni, o il censimento su base etnica (ancora meno sensato a agosto perché moltissime famiglie vanno in Romania o in Bosnia)? Che faranno nelle baracche spellate dal sole, senza libri, senza quaderni, senza volontari, senza nemmeno un prete per chiacchierare, o una pattuglia dell’esercito che a aprile scorso la sindaca aveva inviato e oggi è sparita? A Roma i minori rom iscritti alla scuola dell’obbligo sono circa mille, nel 2016 erano il doppio. Invece di finanziare il sostegno scolastico, gli sportelli legali e sociali, la presenza di operatori negli insediamenti, i soldi vengono spesi per le operazioni militari estemporanee. Come lo sgombero di Primavalle, o le retate rituali che avvengono a San Basilio. Le sirene spiegate, e poi torna tutto identico. A Primavalle due settimane fa lo sgombero di via Cardinal Capranica - centinaia di poliziotti e carabinieri, più di cinquanta blindate, gli elicotteri - è stata un’operazione di polizia degna di una puntata di Narcos. I bambini con i libri sotto braccio scortati via dagli agenti antisommossa sono entrati anche loro nelle immagini simboliche come le donne eritree a piazza Indipendenza nel 2017 o Simone di Torre Maura.
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La domanda più importante è: che cosa accade dopo? Dopo gli sgomberi, le promesse? Dopo una settimana o due mesi; a telecamere spente? Le famiglie di Primavalle sono state ospitate temporaneamente in centri d’accoglienza. Leppe e Alberto Campailla di Nonnaroma ne visitano uno dopo qualche giorno e lo descrivono così: «Letti pieni di cimici, serrande rotte, caldo soffocante in tutte le stanze, porte prive di serratura, finestre basse e prive di grate, estremamente pericolose per bambini piccoli, mancanza di luoghi dove cucinare. Insomma, un dormitorio. Tra l’altro questa struttura che abbiamo visitato ospita, nel contempo, dai barboni agli sgomberati di Carlo Felice e Torre Maura, e oltre 30 bambini provenienti da Primavalle».
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A San Basilio a inizio luglio sequestrano una partita di cocaina dentro una casa dell’Ater che era diventato un centro di spaccio. Di questo genere di retate lì ne avviene ormai almeno una al mese. A cicli di ore le volanti arrivano con i lampeggianti a via Corinaldo, le vedette urlano agli spacciatori di far sparire le sostanze. La piazza di San Basilio è conosciuta come quella di Tor Bella Monaca; anche su Google, si possono contare gli articoli che si rimbalzano il nomignolo, A San Basilio come Scampia, a Tor Bella Monaca come Secondigliano, un ghetto vale l’altro. Senza negozi aperti, il primo bar a quasi un chilometro, un solo camioncino che d’estate arriva con i gelati, ci sono soltanto i pusher che fanno servizio anche la notte, seduti agli angoli delle strade come vecchi di paese, domenica e festivi compresi, diversificano la merce con prodotti a prezzo variabile (grandi ordinazioni, ma anche minidosi da 20 o 50 euro); somigliano - lo sanno - più a dei travet che a dei criminali da rispettare. Per un numero consistente (il dieci per cento almeno) delle famiglie di San Basilio l’indotto della droga costituisce una specie di reddito di cittadinanza, un welfare sociale che arriva fino a paradossali pratiche di mutualismo, con gli spacciatori che pagano ragazzini per pulire in terra, con gli anziani che cercano di migliorare la pensione sociale con le rette, la custodia di qualche chilo di roba per fare un favore al pusher.

Non serviva l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega per sapere che tutta Roma pippa, anzi che tutta Roma fa uso di sostanze. «La coca è sdoganata. Non ha più nemmeno lo stigma sociale che avevano le pere. Prendi Ferrero, il patron della Sampdoria, fa la battuta su di sé che pippa, e viene considerato un simpatico burlone», mi dice Federico Giglio dell’Asia Usb di San Basilio. In più lo spaccio garantisce una criminalità poco violenta, un regime di repressione a basso voltaggio: «I soldi che ti puoi fare con uno scippo grosso o con una rapina, te li fai con due serate a spingere». La cocaina è interclassista, una presenza costante: «C’è del muratore cottimista», mi dice Claudio Cippitelli della cooperativa Parsec, «quella dei ragazzini, quella dell’imprenditore, o dell’impiegato Findomestic o Tecnocasa».

Poi c’è l’enorme panorama delle sostanze da weekend, come le metamfetamine. E ancora poi c’è quello che viene chiamato il ritorno dell’eroina, che in realtà è l’aumento del consumo di oppioidi sintetici (fuori dalle discoteche trovi ormai i blister di Fentanil) o dell’eroina gialla, che viene dall’Afghanistan dove due anni fa si è avuto un raccolto generosissimo. Le overdosi sono aumentate, si è moltiplicato l’uso, e il sistema di smercio è ormai ramificato e rodatissimo. Mutuato dai napoletani, comprende una serie di ammortizzatori sociali compresi nei rischi lavorativi: il pagamento degli avvocati vuol dire fidelizzarti all’attività di pusher, un passaggio ogni tanto in galera è preventivato, e nel frattempo che stai dentro la tua famiglia viene mantenuta. Se la dipendenza pandemica da eroina negli anni settanta è stato uno dei modi in cui venne repressa la lotta di classe; oggi, mi dice Federico Giglio del sindacato delle case Asia Usb, «il fiume di cocaina aiuta a travasare la rabbia sociale nel bacino del consenso per le destra; bisognerebbe organizzarsi politicamente e questa rabbia indirizzarla verso il vero nemico». Ossia? «I ricchi». Ci è cresciuto qui, è il figlio della storia delle occupazioni anni Settanta, quelle in cui perse la vita Fabrizio Ceruso, e che oggi vengono ricordate con il grande murale di Blu a piazza Recanati. Ragiona in termini marxisti, sa quanto solo la militanza può cambiare qualcosa, liquida qualunque discorso non politico sulle periferie come una strumentalizzazione o una perdita di tempo.
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Fare e capire. Non va persa di vista la psicologia della borgatasfera, le periferie sono luoghi che sono spesso come circondati da muri invisibili da cui non si entra e da cui non si vede, lo mostra benissimo Selfie di Agostino Ferrente sul Rione Traiano a Napoli: dalla borgata come dal rione si fa fatica a uscire come a entrare. «La borgata è schizoparanoide», mi prova a spiegare Federico Tonioni, psichiatra del Gemelli che si occupa di dipendenze e abuso. «Quello che è dentro è buono, quello che è fuori viene letto in senso persecutorio, dal vigile che ti fa una multa all’operatore sociale nuovo al giornalista che viene a fare un servizio tv. La borgata ha le sue regole, e questo le serve per contenere il livello di rabbia. Per anni, ti racconto un episodio vero ma emblematico, è stata sedata, con una somministrazione un po’ sopra le righe da parte dei Sert. Io ho conosciuto vecchietti che hanno cominciato a fare il pieno di metadone a 70 anni, perché poi dormivano meglio».

Oggi la merceologia infinita delle sostanze permette di farne degli usi combinati: una canna o una striscia serve al ragazzino, che non può permettersi altri piaceri, per passare un sabato sera; l’eroina serve a smorzare la cocaina, la cocaina serve a ripigliarsi dall’eroina o dall’alcol o persino da una cena abbondante. «Qualcuno ti può dire: ho visto che c’era il controllo dei carabinieri e ho dato una botta di per non far vedere che ero ubriaco». Il popolo dei tossicomani non è più diviso in cocainomani e eroinomani; c’è un poliabuso, che fa sì che non ci sia uno stigma sociale se sui tossici, sui rimastini. «Gli unici che vengono considerati inaffidabili sono quelli che fumano la cocaina nella bottiglia», mi dice sempre Tonioni. «Se stai così, ti mettono a riposo pure tra i criminali».

Ma questa non sono notazione utili a una serie tv sulla suburra di Roma nordest; la questione appunto è politica. A San Basilio come a Torre Maura i tassi di disoccupazione sono tre volte quelli dei quartieri del centro; i tassi di dispersione scolastica arrivano al 30 per cento. Le persone che lavorano alla scuola popolare di via Gigliotti sono chiaramente un farmaco contro questo disastro: «È difficilissimo lavorare sul piano pratico e su quello dei cliché», mi dice Davide Angelilli della scuola, davanti alla piazza di spaccio. San Basilio sembra il sinonimo della criminalità e della delinquenza.
Analisi
Torre Maura, in scena il Social Fascismo Show
4/4/2019

«Dare credito a questa narrazione, alla caccia al rom, alla retata, allo sgombero, finisce proprio per generare un meccanismo perverso per cui se si vuol far parlare delle proprie condizioni, bisogna rispettare uno di questi format: rabbia sociale, guerra tra poveri, esasperazione contro le minoranze, caccia ai rom. Oggi il lavoro da fare nei quartieri popolari deve proprio smontare questo cliché. C’è un sacco di gente che s’impegna per la solidarietà, per migliorare le relazioni, etc…». Ma come fare perché tutto questo non sia solo un palliativo? E una vera politica strutturale di intervento sociale, quando arriverà?