I palazzi simbolo di Scampia sono vuoti. Ora occorre finire abbattimenti e nuove costruzioni. Ma il pregiudizio su quest’area di Napoli resta e la gente non crede alle promesse dello Stato

Quei mostri di cemento sono finalmente disabitati, ma la battaglia non finisce qui. Vogliamo che siano abbattuti quanto prima, vogliamo un lavoro dignitoso per la nostra gente e la costruzione di nuovi alloggi. Soltanto allora avremo vinto davvero». Omero Benfenati è il portavoce storico del Comitato Vele di Scampia, che da quarant’anni si batte tutti i giorni per il diritto alla casa e per la riqualificazione del quartiere napoletano, inchiodato per troppo tempo alle immagini di “Gomorra”. Il 2 gennaio scorso, le ultime undici famiglie hanno lasciato le loro abitazioni, segnando l’avvio di “ReStart Scampia”: il progetto di rigenerazione urbana prevede l’abbattimento della Vela gialla e di quella rossa, la riqualificazione della Vela celeste, destinata ad accogliere servizi pubblici, e la costruzione di circa 433 appartamenti, che ospiteranno i vecchi abitanti sulla base di una graduatoria che tiene conto degli anni di residenza. Il piano impiegherà circa 150 milioni di euro, che arrivano in buona parte da Pnrr, Pon Metro Plus e programma Periferie.

 

Per capire il fallimento delle Vele bisogna tornare ai primi anni Settanta, quando nacquero come parte del quartiere ribattezzato “167” dal numero della legge che permetteva l’esproprio delle proprietà private per uso collettivo. Secondo Mirella La Magna, attivista storica di Scampia e presidente dell’associazione Gridas, le Vele erano state progettate dall’architetto Franz Di Salvo come un nuovo modello abitativo incentrato sull’idea di comunità. Ma il progetto venne tradito: «Di Salvo aveva immaginato spazi aperti e condivisi, dove la comunità potesse vivere e crescere insieme. Invece, le Vele furono costruite troppo vicine, con materiali scadenti, senza spazi vivibili, diventando simbolo di isolamento, degrado e abbandono». La struttura si è presto rivelata inadatta. «Le pareti sottili, la muffa, l’umidità, la poca luce: le Vele sembrano più un carcere che un condominio», afferma La Magna. Come se non bastasse, l’assenza delle istituzioni ha reso il quartiere un terreno fertile per la criminalità. «Lo Stato ci ha lasciati soli per decenni. E quando, con i morti a terra, era impossibile fare finta di niente, era già troppo tardi: la camorra aveva preso piede, i giovani erano intrappolati in scelte di vita sbagliate».

 

Oggi con il progetto “ReStart Scampia” si vuole finalmente cambiare pagina. «Non sarà soltanto l’abbattimento delle Vele a fare la differenza, ma anche ciò che costruiremo al loro posto», spiega Benfenati. I primi 179 alloggi dovrebbero essere consegnati nel 2026. Il progetto non si limita, però, solo alla creazione di nuove case. Sono previsti, infatti, pure spazi dedicati all’agricoltura urbana, un parco pubblico, una fattoria con scopi ludici e didattici, uffici pubblici e un complesso scolastico composto da una scuola dell’infanzia e un asilo, in un quartiere come quello di Scampia che ha la più alta percentuale di dispersione scolastica e di Neet (giovani che non studiano e non lavorano) in Italia.

 

Se è vero che il progetto potrebbe – usando le parole di Benfenati – «davvero trasformare Scampia in un quartiere metropolitano, riscattando gli abitanti da decenni di emarginazione e solitudine», nel frattempo per molti di questi la ricerca di una nuova sistemazione ha significato scontrarsi con un pregiudizio radicato. Nonostante il Comune abbia messo a disposizione contributi mensili che vanno da 500 a 1.500 euro per aiutare 219 nuclei familiari a trovare un alloggio momentaneo, diverse persone vivono ancora da amici o parenti. Come Francesco Vinci, 46 anni, nato a Colonia da genitori napoletani e giunto a Scampia nel 2008, quando ha occupato la sua vecchia abitazione alle Vele. «Abito da mia sorella, fra poco finalmente mi sposterò in una casa tutta mia. Ma è stato difficile trovarla. Per mesi uscivo alle otto del mattino e tornavo a tarda sera: con il motorino facevo il giro di tutto l’hinterland napoletano, da Pianura a Soccavo, Gricignano d’Aversa… Appena dicevo che ero di Scampia, i proprietari inventavano scuse». Vinci non ha uno stipendio fisso, lavora a giornata come imbianchino. Sua moglie è casalinga, suo figlio studente. Ma ad agenzie e proprietari di case ha «sempre detto che c’erano gli aiuti del Comune e che mia suocera, che ha un contratto statale, avrebbe fatto da garante». Anche Enzo Fiorillo, 53 anni, non riesce a trovare un alloggio. Muratore, nel 2020 ha lavorato con il movimento dei disoccupati di Scampia all’abbattimento della Vela verde. «Sui miei documenti c’è scritto che sono del quartiere… Questo è un marchio, quasi una condanna, perché chi abita qui per molti è un delinquente per forza di cose».

 

Ma il pregiudizio non riguarda soltanto le persone. Come spiega Giuseppe Mancini, vicepresidente del Coordinamento territoriale Scampia, «c’è anche quello nei confronti delle istituzioni. I proprietari delle case, infatti, hanno paura che a un certo punto i sussidi possano essere bloccati. Lo Stato qui è stato assente per trent’anni. Sappiamo tutti quante promesse siano state tradite. E, allora, come si può dare torto a chi non si fida più?». Anche per questo la battaglia non si è affatto conclusa. «La gente di Scampia ha perso troppo tempo aspettando promesse mai mantenute», afferma La Magna. «Se dicono che i lavori saranno conclusi in due anni, noi saremo lì ogni giorno a verificare. Non possiamo accettare altri ritardi, non possiamo accettare che la nostra dignità sia ancora una volta calpestata». La comunità, rappresentata da comitati e associazioni, continuerà a esercitare pressione sulle istituzioni, pronta a scendere in piazza e a fare rete, se necessario. «La nostra lotta non finisce con i cantieri: finirà solo quando ogni famiglia di Scampia avrà una casa dignitosa e un lavoro stabile», conclude Benfenati.