Con il cambiamento climatico le locuste arrivano anche in inverno. Ed è una tragedia
Nell'Africa sudorientale la stagione secca è diventata lunghissima. Gli insetti divorano i raccolti e poi arrivano devastanti cicloni. I contadini non sanno più come fare, ma una Ong italiana, l’Avsi, sta insegnando le tecniche di adattamento climatico. E non solo
Il maestro elementare Manuel ride alla mia domanda, che in effetti era sciocca. Gli avevo chiesto se in tutta la sua vita avesse mai visto un suo ex alunno arrivare all’università. Zero, su migliaia di ragazzini passati tra suoi banchi. Un 5 per cento circa, dice, tenta il ciclo secondario: tutti gli altri vanno subito nei campi, a lavorare. Anche perché le femmine a 13-14 anni vengono fatte sposare, quindi l’ipotesi di proseguire gli studi, per loro, è proprio lunare. Anche da mogli, peraltro, continueranno a chinarsi in campagna per il resto della vita.
Il Mozambico, secondo le classifiche internazionali, è il settimo paese più povero del mondo. È la miseria di una nazione rimasta quasi del tutto agricola, è un medioevo europeo trascinato nel XXI secolo prima dal colonialismo portoghese poi dalla lunga guerra civile tra i “marxisti” del Frelimo e i “liberisti” della Renamo: entrambi fra virgolette perché dopo la fine dell’Urss (che appoggiava una parte) e del regime razzista in Sudafrica (che sosteneva quella opposta) nel 1992 i due schieramenti hanno firmato la pace e oggi anche i loro confini ideologici si sono sfarinati: tanto che anche il Frelimo, sempre vittorioso alle elezioni, esegue fedelmente economie di mercato e ordini del Fmi. [[ge:rep-locali:espresso:285339255]] Nonostante questo, di industria in giro se ne vede pochissima: l’83 per cento dei mozambicani lavora in campagna e la loro vita dipende da quella. È sempre stato così, s’intende, e durante il colonialismo si stava anche peggio: gli anziani ricordano quando erano schiavi dei latifondisti portoghesi per i quali bisognava lavorare sette giorni su sette dall’alba al tramonto, e tutto il raccolto poi andava al padrone che arbitrariamente decideva quanto lasciarne ai contadini per sopravvivere.
Dopo la cacciata dei portoghesi le terre sono state redistribuite, oggi ciascuno campa di quel che coltiva. Ma in quelle stesse terre, intanto, un altro problema è scoppiato, nuovo, imprevisto, pauroso: la stagione delle piogge che ogni anno arriva un po’ più tardi. Fino a una ventina d’anni fa l’acqua iniziava a cadere dal cielo a ottobre, quieta e tiepida, per poi bagnare i campi fino a primavera; adesso la terra resta secca fino a dicembre, quando il diluvio scroscia d’improvviso e «tudo de uma vez», tutto insieme. In pratica, a lunghe carestie succedono devastanti cicloni, e ciò che non viene seccato dalle prime, è marcito dai secondi.
Nel 2019 di cicloni ne sono arrivati due, uno dopo l’altro: il primo, a marzo, ha fatto centinaia di morti e sommerso migliaia di villaggi, con 700 mila ettari di campi da buttare; un mese dopo ecco il secondo a finire il lavoro di devastazione. E “ciclone”, qui non vuol dire solo decine di migliaia di profughi e raccolti da buttare: significa anche che le strade non asfaltate (cioè quasi tutte, in campagna) si riempiono di voragini che le rendono impercorribili per mesi, con l’effetto di azzerare i commerci, quindi rinchiudendo ancora di più ogni villaggio nel suo feudalesimo.
Poi ricomincia il sole feroce e a picco che prosciuga i fiumi in cui pescare e nei villaggi i tetti di lamiera - un lusso, quando bisogna difendersi dalle piogge torrenziali - trasformano le capanne in prigioni a cinquanta gradi. Finché non arrivano i “gafanhotos”, spaventose locuste verdastre che divorano tutto quello che cresce e che i contadini combattono avvelenando la terra con enormi quantità di pesticidi, quando hanno abbastanza soldi per procurarseli.
Altri invece abbandonano i campi sterili per trasformarsi in minatori fai-da-te: una vanga e via, sulle colline di Capo Delgado, a nord del Paese, per ammazzarsi sotto il sole cercando polvere d’oro dentro rudimentali buche e cunicoli. Ne consegue ampio uso di mercurio (che purifica i frammenti d’oro dal terreno molto più velocemente del vecchio setacciamento), con danni enormi per chi vi espone e per tutti le coltivazioni dell’area, dato che il mercurio poi finisce nei rigagnoli che i contadini usano per irrigare. Il tutto per un reddito calcolato dai minatori stessi attorno ai trenta-quarantamila meticais all’anno, insomma un paio di euro al giorno.
Di questo “day after” climatico quotidiano i contadini sono tutti consapevoli: dicono che tutto è iniziato a cambiare nei primi anni Novanta - proprio mentre stava finendo la guerra che aveva fatto un milione di morti - ma pochissimi sanno a cosa è dovuto. Paradossalmente, i concetti di “climate change” e di “riscaldamento globale” sono vissuti sulla pelle ma ignorati nelle loro cause: anzi, molti sperano che questo caos di torridezze e uragani presto finisca così come era arrivato, per incantesimo o per grazia - «estamos nas mãos de Deus», come dicono i più anziani.
Molti giovani, invece, si sono rimboccati le maniche per reagire, in qualche modo, alla catastrofe meteorologica. Si parla quindi di “adattamento climatico”, cioè di coltivare di specie diverse, sconfinando a volte nei discussi Ogm: ad esempio, i vecchi anacardi portati dai portoghesi sono stati sostituiti da nuovi, geneticamente modificati per resistere a siccità e tempeste. Prima della guerra civile, il Mozambico era il primo esportatore di anacardi al mondo e ora il governo di Maputo punta molto sul rilancio di questa coltura.
Ma la lotta agli effetti del “climate change” avviene anche in modo più sociale e collettivo, in particolare grazie all’idea di una Ngo italiana, l’Avsi, presente nel Paese dal 2011. Da qualche mese infatti quelli di Avsi hanno affiancato ai loro tradizionali programmi di cooperazione (perlopiù educativi e di sostegno diretto) anche un progetto partecipato di mappatura e identificazione delle aree climaticamente più vulnerabili, una cosa semplice a cui però nessun aveva pensato. In pratica, attraverso una rete di volontari nei villaggi l’Avsi raccoglie informazioni e identifica i problemi, intrecciando poi questi dati trasmessi oralmente con le fotografie satellitari.
Questo lavoro consente quindi di definire le priorità d’intervento: dove c’è una buca da sistemare per riaprire una strada sterrata, dove i pozzi si sono seccati, dove bisogna scavare un canale di drenaggio per consentire alle acque di defluire quando arrivano le piogge, dove l’acqua da bere non è più potabile e occorre quindi un’azione immediata per prevenire epidemie - e così via. Nella regione interna di Namuno, a nord del Paese, il progetto-pioniere è stato implementato su nove diverse aree dove questi “gruppi di accompagnamento” locali riportano poi le informazioni al coordinamento di Avsi che si trova a Pemba, città costiera capoluogo della provincia. Ed è proprio qui, a Pemba, col suo mare corallino e le sue isole tropicali, che potrebbe giocarsi tutto il futuro di questo disgraziato Paese. Al largo della città è stato infatti trovato un colossale giacimento di gas naturale che una volta sfruttato potrebbe fare del Mozambico, fino a ieri fuori dalla mappa degli idrocarburi, il secondo produttore di Gnl al mondo, superato soltanto dal Qatar. È una cosa che vale attorno ai 150 miliardi di euro e su cui naturalmente si sono subito buttati i giganti del settore, da Anadarko a Exxon fino alla nostra Eni.
Per il Paese africano potrebbe essere una mano santa, dal punto di vista economico, oppure una tragedia: le esperienze del passato dimostrano che questi ritrovamenti sono spesso detonatori di spaventosi conflitti d’accaparramento, come per esempio è accaduto in Sud Sudan dopo che è stato trovato il petrolio.
Già qualche segnale in questo senso arriva: appena scoperto il gas, sono iniziati misteriosi attacchi armati ai villaggi del nord, vere e proprie mattanze di contadini innocenti - comprese decapitazioni di donne e bambini - da parte di uomini incappucciati e con i mitragliatori al collo. La versione ufficiale è che si tratti di estremisti islamici legati ai somali di Al-Shabaab, quella ufficiosa è che si tratti invece di stragi legate in qualche modo alla gigantesca trasformazione che vivrà tutta l’area, da spiaggia sonnacchiosa a Eldorado del gas liquefatto. E c’è addirittura chi pensa che dietro alle stragi ci sia il business della sicurezza, cioè le società di contractors che garantiscono l’incolumità degli stranieri e creando terrore vedrebbero decollare il loro business. Solo voci, naturalmente, ma intanto l’impennata della violenza brutale nel nord del Paese è un fatto assodato. E di tutto avrebbe bisogno il Mozambico, oggi, tranne che di una nuova guerra civile.