Dopo il lungo dominio di Al-Bashir, è arrivata la rivoluzione soffocata nel sangue un anno fa dalla giunta militare che ha preso il potere. Ma un popolo fiero continua a chiedere libertà (Foto di Alessandro Grassani)

A man praying on the tomb of one of the Martyr of the Sudan's revolution at the Sheikh Hamed al-Nil cemetery where every Friday afternoon the Sufi meet to perform their dances and prayers near their leaders' tombs.
«Come ogni sera di Ramadan, abbiamo preparato i piatti per l’Iftar, il pasto che interrompe il digiuno al tramonto», racconta Tawdia, guardando allo spazio dove un anno prima si trovava la cucina auto-organizzata del sit-in della rivoluzione sudanese. «E alla fine dei festeggiamenti, sono tornata a casa. Ho goduto ogni istante di quella sera. Ma non sapevo che sarebbe stata l’ultima». I suoi occhi sono sempre sorridenti, ma ricordando quell’ultimo giorno al sit-in, vicino alla Nile Street nella capitale del Sudan, Khartoum, per un momento le si riempiono di lacrime.

Era la notte tra il 2 e il 3 giugno di un anno fa. Tawdia ha 25 anni ed è un medico di laboratorio: la sua pagina Facebook ha migliaia di follower grazie alle dirette che ha postato sul suo profilo durante la rivoluzione. La sua amica Fatima, nome fittizio usato per proteggerne l’identità, di anni ne ha 22 e quella sera, come tante altre compagne, studentesse partecipanti al sit-in, non era invece tornata a casa. Ed è diventata testimone e vittima di uno dei massacri più brutali della storia recente del Sudan a opera di quei militari che ancora oggi sono al potere.
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2/1/2020

Nel dicembre 2018, centinaia, poi migliaia, di sudanesi come Tawdia e Fatima, sono scesi in piazza a protestare. È il momento di inizio di una rivoluzione che non si è più fermata. L’ex dittatore Omar al-Bashir, al potere da trent’anni, aveva imposto l’aumento del prezzo del pane e della benzina, e la reazione del popolo, stremato già allora da una crisi economica solo peggiorata dalla pandemia in corso, non si era fatta attendere. Un’ondata di manifestazioni ha riempito le strade di diverse cittadine, ben oltre la capitale Khartoum. Sudanesi di tutte le classi e generazioni ma soprattutto studenti e giovani professionisti.
People enjoying sunset time in Tuti Island, Blue Nile, Khartoum.

La Sudanese Professional Association (Spa), associazione sudanese comprendente specialmente medici, operatori sanitari e avvocati, prende in mano la leadership dell’organizzazione delle proteste. E allo scontento per l’aumento dei prezzi si è accompagnata una richiesta chiara, un unico grido: la caduta del regime. Gli slogan della piazza hanno riportato alla memoria le manifestazioni immense che dalla Tunisia all’Egitto hanno cambiato il corso della storia nel 2011. Bisognerà aspettare l’11 aprile del 2019 perché Omar al-Bashir venga deposto dalla giunta militare. Ma i giovani rivoluzionari nel frattempo avevano dato il via a un sit-in permanente a partire dal 6 aprile e la caduta e poi l’arresto del dittatore non erano bastati a farli andare via: volevano - vogliono - la fine del potere dei militari in Sudan. E così sono rimaste piantate le tende della protesta, e lo sono state per due mesi, proprio di fronte al quartier generale delle forze armate, per chiedere un governo guidato da civili. Un sit-in pacifico, fatto di voci di canto e di poesia, di un Sudan dal futuro democratico, sognato e abbozzato tra una tenda e l’altra.

Fino a quella sera di fine Ramadan. La piazza pacifica si preparava già per la festa dell’Aid, che conclude il mese sacro di digiuno per i musulmani. Fatima studia alla Facoltà di Arte dell’Università di Khartoum. Il sit-in di fronte al quartier generale delle forze armate includeva alcune strade nei pressi dell’Università. Ma l’alba di quel 3 giugno ha cancellato l’innocenza dei ricordi universitari. «L’incubo è iniziato quando ho cominciato a sentire le urla dei compagni del sit-in che scappavano», racconta Fatima, che ha voluto scrivere la sua testimonianza per intero, per iscritto. «Come per istinto, ho preso la mano della mia amica, ci siamo guardate, e abbiamo capito che qualcosa non andava. Abbiamo cominciato a scappare». Degli uomini armati, con le divise delle Rapid Support Forces, irrompono violentemente nel sit-in pacifico, cominciano a picchiare i ragazzi, a sparare con diversi tipi di armi, a bruciare le tende. A radunare le ragazze nelle tende. Come Fatima e la sua amica, a cui ancora tiene stretta la mano.

Le Rapid Support Forces (Rsf) sono note nel Paese come la milizia dei Janjaweed, tragicamente celebre per aver messo in atto, per conto di al-Bashir, il genocidio contro la popolazione non araba nella regione occidentale del Darfur. Sull’ex-dittatore pendono dal 2009 e 2010 due mandati di arresto della Corte internazionale dell’Aia per genocidio e crimini di guerra nel conflitto in Darfur.
Local guide inside the National Museum of Sudan or Sudan National Museum, a double storied building constructed in 1955 and established as a museum in 1971. The building and its surrounding gardens house the largest and most comprehensive Nubian archaeological collection in the world. The museum is located on the El Neel (Nile) Avenue in Khartoum in Al-Mugran area near the spot where the White and the Blue Niles meet.

Ma a trasformare i Janjaweed nel gruppo paramilitare Rapid Support Forces è stato il generale Mohammed Hamdan, conosciuto come Hemeti. Nel giugno del 2019 così come oggi è lui a capo delle Rsf: ma allora era anche il vicepresidente del Consiglio militare di transizione al potere, quello stesso formatosi con la cacciata di al-Bashir. Se Omar al-Bashir è oggi in carcere a Khartoum, dove si vocifera che sia stato contagiato anche dal Covid, uomini di potere come Hemeti continuano ad avere posti di rilievo, anche dopo il massacro del 3 giugno, ovvero nel governo di transizione civile-militare attuale, nato dopo l’accordo in agosto delle due parti. I rivoluzionari accusano Hemeti di essere il mandante del massacro. Le indagini che potrebbero individuarlo come responsabile sono in corso e giustizia non è stata ancora fatta. Si teme quel giorno siano state uccise fino a duecento persone, per lo più giovani.

Mentre tutti corrono verso il Nilo provando a mettersi in salvo, gli spari delle milizie e altri uomini armati dell’apparato poliziesco e militare cominciano a uccidere: i corpi inermi dei manifestanti si aggiungono a quelli dei feriti, che medici volontari e compagni provano a trasportare via. Ma chi cerca di mettere in salvo i feriti deve passare sul corpo dei militari che sparano senza sosta. E che bloccheranno l’accesso ad almeno due ospedali della zona. Molti dei manifestanti invece sono stati gettati nel fiume Nilo. Dopo un anno, sono decine ancora i dispersi.

Fatima, spinta a forza in una tenda insieme alla sua amica, non smette di sentire le urla dei suoi compagni in fuga. Ma nel frattempo ha capito cosa l’aspetta. Un nuovo terrore l’attraversa. Delle urla diverse, di voci femminili, provengono dalla tenda accanto. Otto uomini armati la circondano e solo allora è costretta a lasciare la mano alla sua amica, che la guarda impaurita, mentre un militare le punta una pistola sul naso, costringendola a guardare la sua amica, a vedere cosa le fanno. «Ho provato a resistere, abbiamo provato a dimenarci e a scappare. Ma quando ci hanno separato e avevo un’arma puntata in faccia non avevo più fiato per urlare. Quando è toccato a me, non ho gridato, non ho pianto, non ho capito niente. Ero un corpo morto, come quelli già per strada, e non ho parlato per settimane».

Fatima e la sua amica sono tra le decine e decine di vittime di violenza sessuale durante il massacro del 3 giugno 2019, un triste punto di svolta nella storia della rivoluzione sudanese. Sono 96 le testimonianze ufficiali raccolte delle donne che hanno subito violenza, ma si pensa siano molte di più: tante infatti non hanno avuto la forza per parlarne. Neanche Fatima dopo un anno intero, è riuscita a raccontarlo alla sua famiglia. Questa è la ragione per cui l’amica Tawdia ascolta le loro storie, invitandole a parlare con giornaliste e associazioni, a farsi testimoni. «Questo pezzo atroce della nostra storia non deve essere dimenticato né bisogna permettere che si ripeta», dice con la sua voce dolce e decisa al contempo. «Capisco il dolore e il non voler parlare, almeno non tutte; per questo sono io che ne trasmetto la testimonianza di dolore, perché le ascolti il mondo intero».

Come testimone del massacro, un altro giovane studente di 22 anni, Abbas, ha parlato con la Commissione d’inchiesta sui crimini e le violazioni compiute. «Ho corso avanti e indietro fuggendo ai colpi di arma da fuoco delle Rsf, dopo la preghiera dell’alba del 3 giugno 2019», dice in occasione dell’anniversario in questo giugno. «Nonostante il Covid, ci siamo riuniti per ricordare i martiri della rivoluzione in un sit-in pacifico come pacifica è stata la nostra ribellione per cambiare il Paese». E, non trovando invece pace dalle scene di orrore che ha vissuto, si è rivolto alla Commissione, sperando venga fatta luce sugli eventi. «Si tratta di una commissione indipendente sudanese», dice l’avvocato Mohammed Mamoun, «ma a mio parere, è necessaria una commissione internazionale per indagare sulle violenze dell’esercito durante lo scorso Ramadan, per assicurare l’integrità delle procedure e la trasparenza della Commissione». Mohammed si considera un avvocato della rivoluzione.

Se i militari rispetteranno l’accordo di agosto scorso, nel febbraio del 2021 il governo dovrebbe passare ai civili della Coalizione delle Forze di Libertà e Cambiamento, di cui fa parte la Sudanese Professional Association, per un passaggio verso libere elezioni nel 2022. Il Primo ministro del Sudan in questa fase di transizione, Abdalla Hamdok, in occasione dell’anniversario del massacro si è rivolto alla nazione, impegnandosi per la giustizia e per promuovere la riconciliazione e la pace in tutto il Paese.

Nonostante le incertezze legate allo strapotere dei militari, coi suoi alleati esterni (Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto), ognuno prova a fare la sua parte, come appunto l’avvocato Mamoun. «Appartengo al Comitato per la Resistenza e il Cambiamento e in particolare a un comitato chiamato Comitato Legale, che ha lo scopo di proteggere i membri del Comitato stesso - gli avvocati che rischiano qualsiasi tipo di attacco». Una delle sfide del futuro del Sudan è quella di portare avanti una campagna e una rivoluzione culturale per eliminare i casi di corruzione e fa parte anche del lavoro di questi avvocati del Comitato Legale. «Ma senza giustizia per i martiri della rivoluzione, non andremo da nessuna parte».

Dopo quell’episodio, Fatima e la sua amica sono state ricoverate in ospedale per due settimane sotto shock. Il 30 giugno di un anno fa, quando il ricordo del sit-in era sovrastato dal trauma del massacro, i sudanesi hanno organizzato la “millions march”, una marcia nella capitale per ribadire che la rivoluzione non sarebbe stata spezzata dalla violenza dei militari. Una speranza di giustizia che continuerà ad accomunare il cammino di Fatima.