Elezioni Emilia-Romagna, una partita tra palco e realtà e il rischio di votare "ad minchiam"
Le prossime regionali si decideranno ancora una volta sulle emozioni. E anche se 4 leghisti su 10 giudicano positivamente la giunta uscente, voteranno comunque per Salvini
Lo cantava Guccini: Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli, col seno sul piano padano e il culo sui colli. I portici le fanno da cosce. E ce n’è uno, quello di San Luca, 666 archi, che unisce il diavolo e il cielo, la città all’empireo, il mio bar di riferimento alla mia pizzeria d’affezione. Il primo è rimasto agli anni Cinquanta, con i banconi in acciaio e le luisone di Benni nella vetrina delle brioche. La seconda, se hai avuto la forza e la voglia di inerpicarti fino al Colle della Guardia, ti accoglie con la bonomia interessata, eppure onesta, del vero oste emiliano. Sincero ma guardingo. Consapevole, ecco. E lì siamo un paio di decenni dopo. Piombo e vin rosso. Lucio Dalla e lo studente Lorusso ammazzato dalla polizia di Cossiga. L’isola felice e le bombe sui treni, e nelle stazioni. Comunque: casa.
Cosa c’entra, questo, con le elezioni in Regione?
Tutto e niente. Ché l’Emilia-Romagna, col trattino, dacché nel 1970 si scannarono se metterlo o no, non è solo il suo capoluogo. Ma la rappresenta, crocevia com’è di un modello trascinato verso il rischio della dissoluzione dal partito che sopravvive al proprio declino qui e in rari altri luoghi. Milano, direi. Poco più. E siccome a Bologna vivo, e là spesso lavoro, sovente mi sento l’allegro ostaggio di un corridoio dell’efficienza. Ciò che potevamo essere e non siamo quasi mai.
Non fosse perché per percorrerlo, quel corridoio, viaggio su treni perennemente in ritardo, sembrerebbe quasi di stare in Giappone. Senza nemmeno i manga tra le balle.
Giorni fa un avannotto salviniano ha dimenticato in un hotel della prima periferia il foglio con le quattro frescacce - mi scuso per il numero cardinale - che il Caporale aveva affidato agli adepti durante un summit sulla propaganda. Li invitava a picchiare “con la clava” su Bibbiano, a rivangare la vicenda di Banca Etruria, a scovare un terremotato ancora non ricollocato, a non buttarla mai e poi mai sul buongoverno. Traduco: a non entrare nel merito. Che stavolta, come ormai tutte le volte, si vince o si perde sulle emozioni. [[ge:rep-locali:espresso:285339419]] Non si fa campagna elettorale, si fa Pomeriggio Cinque. Solo che il famoso caso Bibbiano si sta rivelando per quel che è: storture portate dall’esterno in un sistema scintillante. I terremotati del 2012 un tetto ce l’hanno. Di più: basta percorrere la Bassa e le case ricostruite si riconoscono, ché sono belle abitazioni coloniche, fiammanti, nella loro architettura da Novecento. E Banca Etruria, con tutto che gli Etruschi stanziavano pure qui… beh, pare sia in Toscana.
Sarebbe sin troppo facile celiare sulla ragazza immagine scelta da Salvini per fargli da valletta in campagna elettorale. Sarebbe troppo semplice ricordarla in radio, mentre sostiene che la sua regione confina col Trentino, magari con qualche bello ski-lift che parte direttamente da Ferrara Nord. Sarebbe un gioco da ragazzi, quindi perché evitarselo. Ma la palmare inadeguatezza di Lucia Borgonzoni, la superficialità con cui Salvini è venuto a prometterci che avrebbe aperto gli ospedali anche al sabato alla domenica, è il punto cardinale dell’intera vicenda: i fatti separati dalle suggestioni. Quelle che hanno portato il leghista Alan Fabbri a governare Ferrara perché la sera intorno alla stazione ferroviaria c’era qualche africano così poco scenografico, signora mia, o il podestà Zattini a guidare Forlì con vista Predappio.
Che poi certo, settant’anni di governo ininterrotto consumerebbero le menti migliori, figurarsi il Pd, che in zona predilige da decenni una classe dirigente ossequiente, da promuovere per anzianità e ubbidienza. I salti della quaglia da questo a schieramento a quello - almeno finché c’era Renzi a rendere il tutto parossistico - ricordano i Politburo dei bei tempi andati. Lo stesso Bonaccini, il presidente, un buon presidente, ha cambiato più casacche interne che paia di Rayban, almeno da quando ha cancellato il look da ottavo fratello Cervi, si è fatto crescere un barbone hipster, e sembra un modello di Dolce e Lasagna. Pure lui ha tolto dall’agenda temi divisivi come l’immigrazione, senza la quale le Pmi locali chiuderebbero domani pomeriggio. Temeva di spaventare il Centro. Come se esistesse ancora.
Però qui più che altrove la partita si gioca tra palco e realtà. Il 45 per cento dei leghisti esprime un buon giudizio sulla Giunta ma voterà la Borgonzoni. Come allo stadio. Come un tempo si faceva alle Europee, che si pensava non contassero un tubo. E come da un po’ si fa alle Politiche. Ad minchiam, poi tutti a vedersi Mario Giordano e a lamentarsi che sono tutti uguali.
Se l’Emilia-Romagna riuscisse a invertire la tendenza, se a chi riceve la sedia a rotelle e la fisioterapista gratis per nonna riuscisse il miracolo di soppesare quale vigorosa botta di culo sia abitare qui, ma anche che certi diritti acquisiti non lo sono per sempre, ecco, ancora una volta saremmo l’avanguardia silenziosa del Paese. Che senza menarsela come la Lombardia, o senza bestemmiare lamentosa come il Veneto, si carica una piccola diversità sulle spalle. Resiste. E prova a farne paradigma.