Perché i ragazzi italiani vanno a fare la vendemmia in Francia
Dormono in tenda, hanno un casolare con le docce, una cucina e una sala comune. Vanno lì per poche settimane, attirati da un contratto regolare che in patria non riuscirebbero ad avere. E sono sempre più numerosi
AGF-EDITORIAL-GFD2600734-jpgBraccia prestate all’agricoltura francese. Giovani italiani che valicano le Alpi per lavorare durante la stagione della vendemmia. Ogni anno le strade della Penisola portano nei vitigni della Borgogna o di Bordeaux: il “deserto francese” - come è definita la desolazione urbanistica della provincia, in contrapposizione al mattone parigino – vergato dai filari che sconfinano sulla linea dell’orizzonte.
Coltivazioni intensive e grappoli d’uva. E giovani che non avrebbero mai immaginato di ritrovarsi mani e piedi immersi nella fanga, i cui cervelli non sono in fuga, ma scalpitano sul terriccio della precarietà economica. Lì, invece, in molti hanno visto che lo stipendio è messo nero su bianco con tanto di firme, tutele e diritti siglati con il linguaggio criptico della burocrazia. Così le frontiere si aprono a centinaia di “vendangeurs”, vendemmiatori improvvisati: laureandi e laureati, dottori di ricerca e professionisti in erba.
«Questo è stato il mio primo contratto in 25 anni di vita», dice Andrea, iscritto alla Facoltà di Lettere della Sapienza di Roma. Si arrabatta sui libri, lavora per mantenersi agli studi e il 2020 è stato l’anno della traversata, rigorosamente in macchina, fino a Lione. Ad attendere lui e i suoi compagni di viaggio, un’azienda agricola mastodontica e otto ore di lavoro al giorno nei campi. Il sole accecante e 10 euro e 40 centesimi per sessanta minuti di fatica. AGF-EDITORIAL-GFD2122974-jpg L’assicurazione sanitaria e la pausa pranzo, il gel igienizzante e le mascherine di stoffa per proteggersi dal Covid. «Siamo venticinque persone a squadra, ogni giorno lavoriamo su un appezzamento di terra diverso. Un caposquadra organizza le nostre giornate e gli eventuali spostamenti nelle vigne», racconta. Nel suo gruppo, oltre agli italiani, ci sono spagnoli – girovaghi in Europa, in base alla fioritura delle colture, e quindi abbastanza scaltri con le cesoie – e polacchi. In tutto, circa 250 raccoglitori irregimentati in dieci battaglioni che pattugliano la tenuta vinicola senza mai incontrarsi. Un connubio di nazioni e lingue saldato dalla comune appartenenza ai territori al di sotto del 46° parallelo nord: le zone meridionali e orientali del continente e l’area del nord Africa.
I connazionali dormono nei campi con le tende, hanno a disposizione un casolare con delle docce, una cucina e una sala comune. «Gli accordi variano in base all’azienda e si definiscono i dettagli del rapporto di lavoro. Ad esempio gli spagnoli hanno un alloggio e lo pagano 4 euro al giorno. Noi abbiamo scelto la natura perché il padrone, inizialmente, aveva ipotizzato di pagare in parte l’affitto di un appartamento, ma poi si è rifiutato poco prima della partenza. E abbiamo accettato», dice lo studente, che verserà il denaro guadagnato per estinguere la retta universitaria.
Le trafile per cimentarsi nelle vendemmia sono variegate. Esiste il passaparola dei veterani che da anni si consumano le suole delle scarpe oppure, sul sito dell’Anefa, l’Associazione Nazionale francese per l’impiego e la formazione in agricoltura, e sul portale di pôle emploi – il corrispettivo francese dei nostri centri per l’impiego – è possibile consultare le disponibilità offerte dalle aziende. L’incrocio della domanda e dell’offerta di lavoro in agricoltura. IMG-20201001-WA0002-jpg Le testimonianze raccolte esprimono pareri positivi sul sistema di collocamento d’Oltralpe: secondo i dati grezzi forniti da pôle emploi, nei primi sei mesi del 2020, nel macro-settore della viticoltura, sono state oltre 16mila le proposte di impiego registrate sul portale. Il terzo trimestre è sempre il periodo d’oro per le piante arboree rampicanti: nel 2019, in novanta giorni, i numeri avevano raggiunto le 17mila offerte.
Il baratro italiano in fatto di intermediazione di manodopera ha generato mostri, come quello del caporalato in agricoltura. Stando alle elaborazioni del V Rapporto Agromafie e Caporalato, curato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, sono 180mila i lavoratori vulnerabili e aggiogati allo sfruttamento e alle direttive intimidatorie dei caporali. «Un problema annoso, quello del collocamento in agricoltura, perché fortemente influenzato dall’informalità dei rapporti di lavoro e dall’illegalità», afferma Fabio Ciconte, direttore di Terra!, associazione ambientalista che ha scoperchiato le falle della filiera agroalimentare, nonché autore del libro “Fragole d’inverno. Perché saper scegliere cosa mangiamo salverà il pianeta (e il clima)”, pubblicato da Laterza.
«Lavorare in agricoltura in Italia è un pensiero che non aveva mai sfiorato la mia mente», dice Elisa, laureata in Scienze della Formazione. L’asilo privato dove sfacchinava è fallito. La remunerazione era in nero e il Covid ha annullato le ultime possibilità di avere un reddito dignitoso. Lo sfruttamento a cui era costretta non le ha garantito le tutele adeguate per affrontare il periodo del lockdown. «Sono partita per i soldi. Il lavoro è stato estenuante, ma avevo un contratto e la paga era buona. L’anno prossimo? Vado sicuramente se non ho una valida alternativa», dice.
Elisa sgobba tra le distese di foglie palminervie e la sera si presenta, insieme ai suoi “colleghi”, davanti al supermercato della zona a recuperare il cibo scaduto in giornata, che nessuno mangerà. L’obiettivo è risparmiare su tutto per ammonticchiare la grana con cui vivere in Italia.
Vendemmiatori improvvisati. La Commissione europea rivela che più di 13,7 milioni di cittadini dell’Unione vivono o lavorano in uno Stato membro diverso da quello di cui hanno la cittadinanza. E secondo le sue stime, la media annuale dei lavoratori stagionali attivi nel continente è «compresa tra diverse centinaia di migliaia e un milione» di dipendenti. Il turismo e il mondo dell’agroalimentare raccolgono questo bacino di forza lavoro.
Dopo tanti sacrifici, a Elisa, come ad altri, spetta “l’indennità di disoccupazione lavoratori rimpatriati”. Regolamentata da una legge del 1975, la prestazione economica è calcolata «sulla base delle retribuzioni convenzionali stabilite con decreti ministeriali annui» e dura sei mesi. Per i lavoratori stagionali assunti per brevi periodi è possibile richiedere il sussidio soltanto una volta tornati in Italia.
Uno dei pilastri del welfare che ha tenuto conto degli imponenti flussi migratori di manodopera tricolore oggi è anche un conforto per coloro che inaugurano la nuova professione. «Con questi soldi riesco a sopravvivere e a prefigurare il prossimo futuro. Posso pagare l’affitto della stanza in cui abito e cercare nel frattempo un lavoro senza il peso opprimente della disoccupazione e della crisi economica», afferma Luca, una laurea triennale in Biologia e nottate trascorse dietro il bancone di un locale a servire piatti caldi e sorrisi smaglianti.
In nero, invisibile alla contabilità dello stato sociale italiano, ad agosto è stato lasciato a casa senza preavviso. Dopo due settimane si è imbarcato con Caterina – tre anni di esperienza nelle vallate francesi e una media universitaria del 27.5 in Cooperazione internazionale – alla volta della campagne transalpine. Un salario orario di 11 euro, vino e salamella a metà mattinata.
«Mi hanno proposto di andare a vendemmiare in Italia. Alcuni mi avrebbero pagato con il vino, altri mi avrebbero assunto con un contratto irregolare e avrei lavorato di più con molti meno soldi in tasca», racconta Luca riferendosi al sistema del lavoro grigio. Ovvero: le giornate segnate su carta non corrispondono alle giornate effettivamente sudate. «Il grigio è il grande segreto di pulcinella. Il 95 per cento dell’agricoltura italiana è fondato su questo tipo di contraddizioni. Il problema è la cultura imprenditoriale di molti agricoltori che mirano al profitto e basta», commenta Ciconte: «Questo è uno dei motivi per cui il settore non riesce ad attirare i giovani».
B. preferisce mantenere l’assoluto anonimato. Racconta che prima di partire ha rimpinzato l’automobile di cibo: era impaurito dal costo elevato della vita in Francia. Erano in quattro, schiacciati dalle scatolette di tonno. Un’overdose di titoli accademici nell’abitacolo della macchina. Quando pensa ai 600 chilometri macinati con la sua utilitaria non si capacita: la strada percorsa e il lavoro che sarebbe andato a fare. «La vendemmia ti spacca e vai avanti perché il mercato del lavoro fa schifo», dice senza mezzi termini.
B. ricorda le serate trascorse con i suoi compagni di viaggio. Il tremore delle braccia e gli spasmi della stanchezza che di giorno in giorno fanno posto alla curiosità. Il sole che cala sui filari e le bocche serrate per lo sforzo mattutino. «È capitato di discutere delle condizioni di lavoro e del proprio vissuto nei rispettivi Paesi di provenienza. Ci si scambia idee e pareri su come va il mondo e si capisce che così non può andare», racconta. A parlare, tra le vigne appesantite dalla nebbia, è una generazione espropriata, che si riconosce in ambizioni e desideri collettivi costantemente negati. E nel conflitto si specchia, guardando al suo interno, esule e sfruttata, cittadina del mondo.
B. racconta di scioperi e di braccia incrociate per rivendicare maggiori tutele. «Non è tutto rose e fiori», aggiunge. Marta ne è consapevole. Antropologa e cuoca, non si è mai rassegnata alla precarietà. Soffre di una disabilità uditiva e rischia di non percepire il sussidio di disoccupazione perché l’indennità cozzerebbe con la sua pensione di invalidità. Il condizionale è d’obbligo: nessuna istituzione è stata in grado di darle una risposta. Marta ha costruito mattone dopo mattone la trasvolata, si è interfacciata con le aziende agricole e i centri per l’impiego, ha scritto mail in francese e ha estorto le condizioni migliori di lavoro. «Ora sono tornata in Italia, mi aspetta un impiego sottopagato e in nero», dice. Ma lei, come i suoi compagni, vuole il pane e le rose.