Il leader ungherese sabota il Recovery Fund e va avanti con la sua partita a scacchi con la Ue. In cui, finora, il vincitore è sempre stato lui
Era il 22 maggio 2015 quando l’allora presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker durante un summit europeo a Riga, in Lituania, lo salutò sorridendo con un «Ciao dittatore!». Che Viktor Orbán fosse diventato l’uomo forte dell’Ungheria e una grana a Bruxelles era ben chiaro a tutti già allora.
Anche alla sua famiglia politica europea, i Popolari, da cui Juncker proveniva ieri e Ursula von Der Leyen proviene oggi. Eppure nessun capo di Stato, tantomeno la cancelliera tedesca Angela Merkel - indirettamente sua protettrice in nome di un implicito compromesso politico volto a garantire stabilità in Europa e vantaggi economici alle aziende tedesche - gli ha mai fatto capire coi fatti che il rispetto dei valori democratici non è un elemento accessorio dell’identità europea.
Lui, politico intelligente, dalle idee chiare e con un fiuto infallibile per le debolezze umane, ne ha approfittato, cedendo nei momenti critici ma solo per recuperare più tardi il terreno perduto. Un passo indietro e due avanti. Come nel caso della legge ungherese sui media. Bruxelles l’ha bloccata nel 2011. Orbán l’ha aggirata chiedendo ai suoi oligarchi di comprare sul non-tanto-libero-mercato i siti e le testate dell’opposizione. Una alla volta. Ultima vittima, il sito indipendente Index, passato nei giorni scorsi saldamente nelle mani degli uomini del premier, con i giornalisti fuoriusciti a fondare piccole start-up locali ma senza più voce a livello nazionale. Oppure come quando nel 2019 il partito da lui fondato, Fidezs, è stato sospeso (ma non espulso) dal gruppo dei Popolari europei a causa delle violazioni dello stato di diritto: i suoi europarlamentari hanno comunque continuato a votare con il gruppo, seguendo le indicazioni tedesche, quindi svuotando di significato il provvedimento.
A partire dal secondo mandato conquistato nel 2010 (dopo quello ottenuto nel 1998 su una piattaforma liberale e progressista poi abiurata), anno dopo anno Orbán ha abbracciato riti e valori tipici dei partiti populisti di destra e ha cementato in Patria un sistema politico basato sia sul controllo di settori critici dell’economia come media e infrastrutture da parte di una manciata di oligarchi fedeli sia sul monopolio delle leve dell’amministrazione e della giustizia, ottenuto con la maggioranza parlamentare dei due terzi che gli consente di cambiare permanentemente anche la Costituzione. ««Sta attuando un lento ma inesorabile profondo processo di riforma dello stato che sembra non finire mai», spiega il giornalista Gergo Saling, cacciato da Origo nel 2015 quando il sito indipendente fu venduto ai sodali di Orbán.
A Bruxelles, Orbán si è sempre rifiutato di accettare qualsiasi limite riguardasse il suo operato nazionale, perfino quando era legato a risorse comuni. L’ultimo show down è stato il veto che ha posto insieme all’amico polacco Mateusz Morawiecki sul budget pluriennale e sul Recovery Fund, colpevoli di essere (pur labilmente) legati al rispetto dello stato di diritto per ciò che riguarda la loro gestione. Una condizione al limite della banalità in qualsiasi democrazia. A leggere la bozza di accordo trovata tra Commissione, Consiglio e Parlamento, i commissari possono proporre al Consiglio la sospensione dei fondi a uno Stato solo nel caso in cui la violazione dello stato di diritto «incide o rischia di incidere sul funzionamento corretto del bilancio europeo o sugli interessi finanziari dell’Unione» e non per altre infrazioni gravi come la limitazione della libertà di stampa o l’abolizione dei diritti della comunità Lgbt e nemmeno per il rifiuto di una quota di immigrati. «Per Orbán l’Europa è un’area di libero scambio che sovvenziona i suoi oligarchi con i soldi dei cittadini europei», dice da Budapest Gabor Gyori, analista politico presso Policy Solutions, think tank ungherese progressista: «Nient’altro».
L’Ungheria è il primo ricettore di fondi europei in rapporto al Pil. Una buona parte dei 25 miliardi ricevuti nel settennato che si sta concludendo sono stati spesi per progetti non necessari o dal costo gonfiato. Unico obiettivo: ottenere i fondi comuni, principale motore della crescita economica ungherese. Secondo il Centro di ricerca sulla corruzione, nei primi sei anni di monopolio del potere, quattro uomini di fiducia di Orbán, tra cui l’amico d’infanzia Lajos Simicska, poi allontanato per paura che diventasse troppo potente e sostituito con uno spettro più ampio e più debole di oligarchi, e il genero Istvan Tiborcz, hanno ottenuto il 5 per cento dei contratti pubblici, con valori complessivi pari a 13 volte quello degli altri contratti. «Orbán è intelligente, usa i fondi europei per costruire il suo regime nepotista», ha detto al Financial Times Istvan Janos Toth, direttore dell’Istituto di ricerca economica della Camera del commercio e dell’industria ungherese.
Secondo Transparency International l’Ungheria è tra i tre Paesi più corrotti dell’Unione insieme a Bulgaria e Grecia mentre secondo Olaf, l’Agenzia europea contro le frodi, oltre il 4 per cento dei fondi europei dati all’Ungheria dovrebbe essere restituito a causa delle irregolarità. Si tratta non solo del dato più alto dell’Unione ma anche di una percentuale otto volte superiore a quella della Slovacchia, il secondo Paese più fraudolento. Ovviamente Orbán fa anche parte di quei cinque capi di stato che l’anno scorso si sono rifiutati di accettare l’autorità del nuovo Ufficio del pubblico ministero europeo incaricato di investigare e perseguire le frodi contro il budget europeo. «L’avergliela data vinta per dieci anni non ha funzionato», dice Gyori. «L’Unione non ha previsto un meccanismo automatico per espellere un suo membro e di certo Orbán non ha nessuna intenzione di lasciarla».
Da anni si adopera invece per trarre da Bruxelles il massimo vantaggio nella costruzione del suo progetto di lungo periodo, così come lo descrisse ancora giovane politico pro-Ue, criticando il governo di József Antall, il primo premier ungherese eletto democraticamente nel 1990: «Avrebbe dovuto identificare 8-10 uomini d’affari e trasformarli in oligarchi tramite i giusti contatti con le banche, e poi avrebbe dovuto dare loro un vantaggio competitivo sul mercato tenendoli molto vicini a sé e al suo gabinetto. Ovviamente in certi settori il Paese si sarebbe piegato agli interessi di queste persone. Ma sarebbe comunque accaduto col tempo e dunque avrebbe dovuto controllare il processo, stando attento a non trasgredire il senso pubblico della decenza».
Vent’anni dopo, l’Ungheria odierna assomiglia sempre più ad una miniatura della Russia di Vladimir Putin, con l’eccezione che la maggioranza dei fondi per la sua realizzazione non provengono dal petrolio ma dalle tasche dei cittadini europei. Come per il presidente americano Donald Trump, anche «per Orbán, la costruzione ideologica di destra è solo una facciata utile al consenso popolare», dice Gyori. «Di fondo per lui la politica è una guerra costante. Essere distrutto o distruggere. Non esistono avversari ma solo nemici. Non opinioni diverse ma alto tradimento. Non media o ong indipendenti: a favore o contro. E se deve distrarre il popolo dai problemi reali, come un sistema sanitario a pezzi o una scuola che non funziona, inventa nemici».
Nel 2015 ha spaccato l’Unione con la tolleranza zero verso profughi di guerra e migranti di religione islamica. Ora che la questione dei migranti sta diventando retorica stantia perché in Ungheria quasi non ce ne sono, ha identificato il nuovo nemico nella comunità Lgbt, accusata di minacciare “l’identità cristiana” del popolo ungherese, non solo ancora profondamente conservatore ma emotivamente ansioso di un riscatto dalla sconfitta subita nella Prima guerra mondiale. Come disse lo stesso Orbán in un discorso del 26 luglio 2014 durante un evento nella cittadina di Baile Tusnad: «Dobbiamo capire che esistono sistemi non occidentali, non liberali, perfino non democratici che portano le nazioni al successo. Oggi le stelle della politica internazionale sono Singapore, Cina, India, Turchia e Russia. Noi l’abbiamo capito per tempo e stiamo costruendo una struttura organizzativa che ci renderà forti».