Nuove frontiere mediche, innovazioni agricole, risposte a bisogni. I risultati della ricerca devono essere accessibili a ogni latitudine. Il manifesto degli esperti riuniti nel movimento mondiale “Science for Democracy”

Laboratorio di antropologia molecolare

Uno dei video più visti su YouTube alla voce “scienza”, in italiano, è un elenco di «misteri che gli scienziati non sanno spiegare»: sfere di pietra, impatti segreti di meteoriti, luci telluriche e cerchi fatati. I misteri attraggono clic sicuri. Ma online hanno successo anche le lezioni di scienze prese dal reality show “Il collegio”. La sfida fra educazione e misteri è alta, e non è confinata alla Rete.

Si tratta piuttosto di una questione cruciale per il dibattito pubblico internazionale. «La conoscenza scientifica ha perso valore negli ultimi decenni agli occhi della società», riflette Andrea Boggio, professore di legge alla Bryant University, dove si occupa del legame fra diritti umani e scienza: «La visibilità del sapere si è ridotta, così come gli spazi “sociali” di libertà disponibili agli studiosi. Gli attacchi alla scienza hanno diminuito la libertà di ricerca. Tom Nichols, autore de “La conoscenza e i suoi nemici”, la chiama “morte della expertise”».

Boggio elenca altri ostacoli alla ricerca: gli scarsi investimenti, il personale universitario insufficiente, la mancata riforma degli studi superiori, l’inerzia legislativa. Su questi temi interviene anche Richard J. Roberts, premio Nobel per la medicina. L’occasione è il Congresso mondiale per la libertà di ricerca che si terrà a Addis Abeba, in Etiopia, il 25 e il 26 febbraio.

Organizzato dall’associazione Luca Coscioni, e promosso dall’Unione Africana insieme a “Science for Democracy”, sarà un’occasione per ribadire premesse e contenuti di un diritto sancito da un trattato ratificato da 170 Paesi fra le Nazioni Unite, attivo da più di 40 anni, ma raramente ricordato: il diritto alla scienza. Un’occasione non retorica, orientata a ribadire le azioni concrete necessarie per rendere la ricerca e i suoi risultati accessibili e condivisi a tutti. Perché, come scriveva Salvatore Satta nel De Profundis, «le libertà formali senza la libertà sostanziale non sono che una fonte di privilegio».

Come rendere allora questo diritto al sapere una libertà sostanziale? La prima spinta sta nel luogo scelto per il congresso, l’Etiopia. «Quando siamo arrivati per il sopralluogo, abbiamo scoperto che in questo paese da 100 milioni di abitanti c’è un solo centro per la radioterapia. Uno solo. Curarsi è praticamente impossibile», racconta Marco Perduca, ex senatore radicale e coordinatore di “Science for Democracy”: «Non possiamo accettare che i fondi per la cooperazione e lo sviluppo siano ancora legati solo all’impilare sacchi di riso nei magazzini, distribuire antibiotici o costruire strade. Bisogna iniziare a sostenere sul serio anche l’innovazione e la formazione superiore. Abbiamo scelto Addis Abeba per dare spazio allora ai politecnici africani che stanno lavorando bene, ma che raramente entrano nel racconto sull’Africa, schiacciato dalla rappresentazione dei migranti o del terrorismo. Mentre è necessario far fare un salto di qualità alle relazioni di scambio. Superare l’immediata risposta al bisogno e puntare alle competenze e all’università».

Quanto servano competenze e ricerca lo ricorda la piaga continentale per eccellenza: la malaria. Un’infezione che ancora nel 2018 ha causato, stima l’Organizzazione mondiale della Sanità, 405 mila morti e milioni di malati. Il 94 per cento dei decessi per malaria sono in Africa. Nonostante la devastante gravità dell’infezione, non esiste ancora un coordinamento internazionale capace di aumentare e mettere a sistema gli sforzi per la ricerca di un vaccino. «Perché i paesi colpiti sono poveri, e interessano poco», commenta Perduca. C’è un’altra disuguaglianza che schiaccia la possibilità di innovazione nei paesi africani: l’accesso ai risultati dei migliori dipartimenti internazionali.

Gli abbonamenti alle grandi riviste sono spesso troppo costosi per facoltà e biblioteche, così come gli investimenti necessari a pubblicare articoli e vedersi riconosciuti i risultati dei propri studi, attraendo magari partner finanziatori. Non a caso negli ultimi dieci anni il successo di testate open source come Plos, o di banche date come Pubmed, è stato enorme, e rivoluzionario. Anche l’Italia dà il suo contributo a questo nuovo panorama, con testate come il “Journal of Infection in Developing countries”, una rivista online, mensile e open source, nata per aiutare ricercatori, medici, e studenti dei paesi in via di sviluppo a pubblicare lavori a livello internazionale, appoggiandosi a un sistema di tutorato pensato per aiutarli a crescere.

C’è un altro tema che riguarda da vicino i rapporti fra Europa, scienza, e continente africano: le novità in campo agronomico. Le istituzioni europee, per proteggere l’agricoltura diversificata dei paesi Ue, e permettere agli agricoltori di non legarsi in piena dipendenza ai colossi dell’agrochimica, hanno da sempre tenuto posizioni molto nette contro gli Ogm. Negli ultimi anni le selezioni dei semi migliori sono però cambiate, e ora le tecnologie raggruppate nella dicitura “Crispr” - che indica metodi di selezione interni al Dna di ogni pianta, e non di creazione ex novo di una genetica posticcia - promettono di fornire una risposta alla necessità di efficienza e resilienza nella produzione agricola (un riso che abbia bisogno di meno acqua, un frumento senza glutine), senza modificare per sempre le catene dell’alimentazione.

Nell’Africa del cambiamento climatico, trovare soluzioni percorribili per la produzione è sempre più urgente. La legislazione europea oggi equipara Ogm e Crispr. Altri sistemi legali stanno sperimentando invece l’applicazione di queste tecniche, considerate in modo positivo per l’impatto che possono avere nei sistemi di produzione alimentare. Il dibattito sui Crispr, in Italia e a Bruxelles, è molto acceso. Gli attivisti di “Science for democracy” sono favorevoli alla sua introduzione. «Non perché vogliamo diventare crociati di un prodotto o di una tecnica, ma semplicemente perché sosteniamo che una scoperta non vada bloccata per principio», commenta Perduca. Se l’applicazione in agricoltura delle metodologie Crispr è discussa, in campo medico è già all’opera sulla manipolazione delle cellule somatiche, dove la prospettiva del cosiddetto “editing genetico” continua ad attrarre forti aspettative per la lotta contro il cancro.

Qualunque sia il campo di applicazione dei Crispr, insieme alla scoperta di questa tecnica, è arrivata la profonda scossa etica e bioetica che la manipolazione del Dna comporta. Jennifer Doudna, biochimica americana, che insieme al microbiologo Emmanuelle Charpentier ha guidato la scoperta dello strumento rivoluzionario che permette il “taglia e cuci” dei geni, ha chiesto presto «uno stop globale a qualsiasi utilizzo della tecnologia Crispr sugli embrioni umani, affinché possano essere valutate tutte le implicazioni».

Andrea Boggio insiste sull’importanza di questa posizione: «Lo scienziato He Jiankui, da poco condannato penalmente da un tribunale cinese, ha condotto esperimenti su embrioni che hanno portato alla nascita delle gemelle Lulu e Nana», spiega: «Questa sperimentazione non è accettabile e ha ribadito la necessità di avere delle conversazioni estese e permanenti, che coinvolgono sia la comunità scientifica che la società civile, relative a questo tipo di tecnologia. La sua storia ha dimostrato che, nel momento in cui questi esperimenti sono stati resi pubblici, nel novembre del 2018, la comunità internazionale, che aveva riflettuto su questi temi, non aveva sviluppato un approccio sufficientemente preciso per potere gestire questa tecnologia. L’unico consenso stava nel fatto che questi esperimenti erano prematuri. Ma non è ancora dibattuto se possano essere fatti in linea di principio. È quindi necessario discuterne in modo stabile così che, nel momento in cui il progresso scientifico avanza, si sono anticipate parte delle conseguenze negative del progresso che così possono essere gestite meglio. L’espressione che viene usata dagli studiosi è quella di “anticipatory governance”».

Per comprendere e governare scoperte così complesse, bisogna innanzitutto volerle conoscere. E sapere di avere un diritto da esercitare. Il diritto alla scienza.