Morante, Moravia e gli altri: il Novecento che resterà
A vent'anni dalla fine del secolo scorso, cosa resta degli scrittori più amati? La parola ai critici. Per costruire un canone che va ben oltre i soliti noti
«Indica il 1920 come l’anno della grande metamorfosi». La frase è firmata da Eugenio Montale; il soggetto è uno dei maggiori critici letterari del secolo scorso: Giacomo Debenedetti, autore dell’imprescindibile “Il romanzo del Novecento”, appena tornato in libreria per La Nave di Teseo. La «grande metamorfosi» a cui si riferisce Debenedetti compie dunque cent’anni: ed è quella che uccide il vecchio romanzo naturalista ottocentesco, pressato dalle intuizioni dagli araldi delle avanguardie - espressionisti, simbolisti; dall’«irruzione della psicoanalisi nella tecnica o nel cuore stesso dell’arte narrativa».
Debenedetti, nato insieme al Ventesimo secolo, ne coglie precocemente azzardi e novità intellettuali, legge - fra i primi in Italia - Proust e Joyce, segue l’itinerario di Svevo e, da vicino, i passi di Moravia. Nelle pagine de “Il romanzo del Novecento”, che raccoglie i quaderni di appunti per le sue lezioni universitarie degli anni Sessanta, va al cuore delle esperienze letterarie ai suoi occhi decisive; non intende imporre un canone, tutt’al più lascia che sia dedotto. C’è il mondo narrativo di Federigo Tozzi, popolato di animali, «personaggi come insetti, come bestie». C’è Pirandello, la sua «rivoluzione espressionista». C’è la «grazia ironica» di Svevo, «il suo candido, arguto scetticismo di gentiluomo alieno da atteggiamenti fanatici». C’è il primo grande romanzo di Moravia (“Gli indifferenti”, 1929); vengono evocati «produttori di narrativa» come Morante e Gadda, Pavese e Soldati. A Debenedetti preme mostrare ai suoi studenti il segno della rivoluzione novecentesca, e - come spiega Massimo Onofri nel saggio introduttivo alla riedizione - tiene insieme «in strettissima connessione la letteratura, la fisica delle particelle, la psicologia del profondo e la psichiatria, l’antropologia e la sociologia».
Rileggere nel 2020 questo straordinario «romanzo critico» sul romanzo è una buona occasione per approfittare della distanza come di una lente speciale. Il Novecento è finito da due decenni, hanno dunque vent’anni i nati nel Duemila. Come appare, vista da qui, l’esperienza letteraria del ventesimo secolo? Vado a chiederlo allo scrittore Antonio Debenedetti, figlio di quel Giacomo a cui dedicò nel ’94 un bellissimo libro di memoria, “Giacomino”. «Un libro dove mio padre non appare quasi mai», dice. Il geniale e misterioso genitore «reclama pagina dopo pagina la sua assenza. La fa sentire». Era severo? «Non me lo sono mai chiesto. Era il padre in tutta la sua insindacabilità e basta».
In casa Debenedetti capitava di avere a cena Moravia e Sartre; Antonio è cresciuto sulle ginocchia di Umberto Saba e con Giorgio Caproni per maestro elementare. Un «piccolo grande Novecento» in versione domestica e insieme, dice Debenedetti, anche «la prova dell’esistenza di una società letteraria»: «Resta una cascata di grandi e bellissimi ricordi. Abbiamo tutti in mente almeno venti nomi importanti - da Moravia a Berto, da Bassani a Pasolini, dalla Morante alla Ginzburg, da Parise a Eco, da Montale a Saba a Caproni. Come si pensa al Novecento, si pensa a una vitalità culturale straordinaria. Il mondo dei salotti, confinante con quello dei premi, ha avuto un potere suggestivo notevole. E oggi? Il traghettamento fra secolo vecchio e nuovo è stato difficile. I talk show prima e i social poi sembrano aver tolto la sedia da sotto il sedere agli scrittori. Ormai, una pattuglia di grandi nomi, resi popolari dai media, ha sostituito la critica letteraria e addirittura il gusto dei lettori. Nessuno degli autori odierni, vecchi e giovani, sembra avere un passato. Tutti hanno solo un presente».
E gli scrittori del Novecento? «La vita di alcuni fra loro risiede per paradosso proprio nella convinzione che siano superati. Moravia è pronto per la resurrezione? Pasolini piace troppo? E se fosse proprio questo a renderlo vulnerabile?». Debenedetti immagina un esperimento. Un sondaggio particolare proposto a un drappello di studiosi, critici “puri” e giornalisti culturali, i cui risultati integrali sono reperibili sulle colonne della rivista letteraria “Passaporto Nansen” (www.passaportonansen.it). La domanda è questa: siamo ormai fuori dal Novecento da vent’anni; è possibile nominare cinque narratori che si consegnano senza dubbio al futuro? «Non un gioco della torre, ma una scommessa a ragion veduta». Diamo per scontati D’Annunzio, Pirandello e Svevo. L’unico paletto è che abbiano esordito nel corso del ’900 e che siano defunti. Vediamo che succede.
La prima sorpresa viene da un saggista come Alfonso Berardinelli, che inserisce nel suo “canone” aggiornato agli anni Venti del Duemila proprio il nome di Giacomo Debenedetti: «Perché ha scritto la prosa di pensiero più perfetta, elegante e insieme drammatica del secolo, nel tentativo di far diventare il Novecento italiano più narrativamente consapevole di quanto riusciva a essere». Poi aggiunge Nicola Chiaromonte: «Fra Gobetti e Fortini-Pasolini: il saggista etico e politico più lucido, desolato e dimenticato che abbiamo avuto: il meno italiano». Fra i narratori sceglie Elsa Morante, «un genio narrativo senza eguali», e Goffredo Parise, «un narratore misterioso che poteva entrare e uscire dal romanzo senza neppure accorgersene, senza smettere di raccontare che tutta la vita può essere racchiusa in un giorno o in un’ora».
Nei borsini di fine secolo, a trionfare era quasi sempre Gadda. E ora? «Il mio scarso entusiasmo nei suoi confronti non mi esime dall’includerlo», dice Renato Barilli. Simone Casini, docente all’università di Perugia, parla di quella gaddiana come di un’opera «già postuma, che nasce sotto il segno del fallimento e dell’incompiutezza per calcoli sbagliati o per strutturale inattualità». «È insieme necessario e non necessario», osserva Ranieri Polese. «Anche perché dubito che oggi chi si accosti ai suoi testi senza apparati di note, retroscena cultural-editoriali possa capire qualcosa…». A Barilli stanno più a cuore Curzio Malaparte e Ignazio Silone. Casini accosta a quelli di Alberto Moravia, Elsa Morante e Italo Calvino il nome di Giorgio Bassani: «La nostalgia di una normalità o di un’anormalità quotidiana, l’immagine di una provincia italiana che è stata ed è forse ancora e auspicabilmente sarà la parte maggiore del nostro Paese, miracolosamente evocata secondo la sua misura, a bassa voce».
Gli ingombrantissimi Pasolini e Calvino, spesso contrapposti, lasciano spazio a narratori come Beppe Fenoglio. Spiega Filippo La Porta: «“Una questione privata” è davvero il grande romanzo della Resistenza, ancora più di quelli di Calvino e Meneghello: mai retorico né trionfalistico. Evita la mitologia più convenzionale per reinventare un mito potente».
Evoca subito Fenoglio anche Niccolò Scaffai, docente a Siena: «Amo la sua capacità di costruire i caratteri dei personaggi senza dare l’impressione di controllarli, tanto nell’azione quanto nell’espressione. Il suo multilinguismo non sembra mai autoreferenziale e i suoi movimenti intellettuali non imbrigliano mai il racconto dell’esperienza». Ma a Calvino e a Pasolini si può rinunciare. La Porta ha la certezza che tra cento o duecento anni l’autore di “Ragazzi di vita” «resterà il personaggio più vitale, memorabile, trasparente, appassionato, torbido, commovente, a volte insopportabile che lui stesso ha creato».
E Calvino? «Lo sento come uno scrittore fraterno. Nel suo stesso temperamento - acume, incertezza cronica, prudenza difensiva, quieto scetticismo, passioni dissimulate, finti balbettii, aspirazione alla leggerezza pur essendo cerebrale (dunque fatalmente un po’ pesante) - vedo rispecchiato lo spirito del nostro tempo». Ecco, forse il punto sta nell’evitare di leggerlo solo come «il neorealista che a un certo punto diventa combinatorio e postmoderno», propone Emanuele Zinato, docente a Padova. «I suoi cristallini binarismi narrativi celano una rimozione irriducibile e sulfurea che emerge prepotente in un libro come “La giornata di uno scrutatore” ma che serpeggia clandestina in tutta l’opera, rendendo profondamente tragica la sua superficiale “leggerezza”». «Ha sondato il vario svolgersi e modificarsi delle possibilità di conoscenza della realtà, dalla percezione di un razionale sviluppo del mondo al suo ridursi a sfuggente imprendibile simulacro», aggiunge Giulio Ferroni.
«Novecento: vent’anni dopo»: rubando un titolo a Dumas padre, vale la pena chiedere ai critici se nel corso di questi due decenni si sia modificata in loro qualche preferenza; se qualche rilettura o ripensamento abbia modificato le carte in tavola. Raffaele Manica propone Gadda, Landolfi, Moravia, Soldati e Tomasi di Lampedusa, ma subito aggiunge: «E Palazzeschi? E Bontempelli? E Savinio? E Pavese? E Comisso? E Bilenchi? Potrei dire: non mi piacciono le classifiche e i canoni, ma bisogna stare al gioco. La lettura è per me anche arte di perdersi e di incontrare a ogni svolta».
Laura Fortini (Università di Roma Tre) smonta giustamente l’interrogativo di partenza: perché narratori e non narratrici? Non si può fare a meno della «aspra virilità» di Fenoglio, né «dell’ordine morale e del sorriso triste» di Primo Levi. «Ma ben tante e anche di più sono le narratrici italiane che vorrei inviare quale cartolina al futuro». Fa i nomi di Anna Banti, Alba de Céspedes, Grazia Deledda, Gianna Manzini, Natalia Ginzburg; di Paola Masino, per il «trasalire visionario dei suoi romanzi e dei suoi racconti» e di Fausta Cialente. Evocata anche da Daniela Marcheschi, per «la sua finezza, il suo sguardo acuto a tutto tondo, per la sua visione netta, critica di tanti nodi della nostra storia e cultura».
Troneggia Elsa Morante, forse uno dei nomi che mette d’accordo quasi tutti. «La più tradizionale dei narratori novecenteschi» la definisce Chiara Fenoglio: «I suoi romanzi contraddicono l’ideologia del postmoderno, mostrano una fiducia ancora indefessa nella forma romanzo, nella sua valenza classica, nella sua forza architettonica oltre che rappresentativa. Ma Morante non ignora la discontinuità: anzi proprio perché ne è cosciente insegue il sogno del romanzo».
Già, il sogno del romanzo. Da quello, in fondo, non ci siamo mai svegliati. E dal Novecento? «Si staglia alle nostre spalle come un avo brontolone e astioso con cui fare i conti a scuola (e poi mai più)», riflette Simonetta Sciandivasci. «Sono certa che sia nostro compito sfidare il paternalismo che ha finito con il trasformare il canone in un mezzo che impedisse al futuro di stravolgere il passato». Fa i nomi di Dolores Prato, di Morante e di Primo Levi. Poi aggiunge Gianni Rodari: «Resterà per aver colto che le favole bisogna scriverle guardando dentro il mondo, non fuori. È stato la Pixar prima della Pixar; ha fregato il tempo e resiste».