Una piccola azienda hi-tech di Mirandola, risorta dopo il terremoto del 2012, produce i “caschi Cpap”. Che distribuiscono ossigeno a chi non riesce a respirare da solo. Come i contagiati di Covid19

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Due porte sigillano l’ingresso alla camera bianca, l’ambiente isolato dove è concentrata la produzione. All’interno l’aria è controllata, pulita. E si parla poco. C’è troppo da fare, troppo più del solito. I gesti allenati dal tempo hanno dovuto accelerare d’improvviso. Lilia prende una pellicola di plastica, l’aggancia a una struttura di metallo, gira lo stampo, dà forma al casco, e passa alla prossima pellicola. È difficile tenere il suo ritmo, anche solo a guardarla. Loredana, la caposquadra, cammina fra le postazioni. La mascherina le incide le guance, le appanna gli occhiali; non la toglie da ore, ma non può stare senza. Qui ogni operaio sa quanto bisogna essere rigorosi per ridurre al minimo il rischio di ammalarsi. Lo sa per sé e per la catena, che non si può fermare. In piedi, Loredana cammina e controlla il numero di scatole, di tubi, di valvole, verifica che le matrici di cartone che dovranno fare da diametro al collo siano impilate perfettamente in colonna. I materiali passano fra le mani, le parole restano poche, sottovoce. Non c’è tempo per guardare il telefono, qui, non c’è modo per lasciarsi dominare dai social network, come accade a milioni di italiani affacciati sul contagio in reclusione. L’imperativo, qui, è fare.

Mirandola, provincia di Modena. Nella zona industriale risorta dopo il terremoto del 2012 viene prodotta una tecnologia cruciale per la risposta all’epidemia: il “casco Cpap”. Si tratta di uno strumento per la ventilazione non invasiva dei pazienti che sono in insufficienza respiratoria. È un elmo di plastica trasparente, simile al casco di un palombaro, che distribuisce ossigeno a chi non riesce a respirare da solo. Il dieci per cento dei contagiati da Covid-19 va incontro esattamente a questo affanno: il virus, nel suo intaccarsi più aggressivo, può causare infatti una polmonite interstiziale; una forma ostile della malattia che indebolisce i polmoni, facendo calare bruscamente la quantità di ossigeno trasportata nel sangue. Nella sua forma più grave, può abbassare la saturazione al punto da rendere necessaria la ventilazione meccanica invasiva. Vuol dire venire addormentati, deposti su una barella, intubati, attaccati a una macchina. Anche per molti giorni: le informazioni cliniche mostrano che perfino ai più giovani possono essere necessarie fino a due settimane d’intubazione per recuperare la propria capacità polmonare.
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«Chi ancora minimizza o fa polemica, sulle scelte etiche e cliniche che sono costretti a fare gli anestesisti, oggi, negli ospedali più colpiti, non si rende conto di cosa significhi il viaggio di una polmonite interstiziale», rifletteva Marco Vergano, anestesista e rianimatore dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino, durante un seminario che si è tenuto online il 13 marzo scorso. In questi giorni molti reparti di pronto soccorso, e non solo, di tutta Italia, si stanno confrontando il più possibile su come rispondere alla minaccia a valanga del contagio. Vengono supportati da “Fenice”, un gruppo collaborativo di ricerca sulla medicina d’urgenza coordinato da Guido Bertolini dell’Istituto Mario Negri di Milano. Durante gli incontri, strappati alle giornate stremanti in reparto, medicie e operatori si confrontano sulle linee di intervento necessarie a migliorare la risposta pubblica contro l’epidemia; come alleggerire i reparti di terapia intensiva, ormai saturi; come aiutare i pazienti a recuperare prima, e meglio, la piena vita.

Fra le indicazioni che stanno diventando sempre più chiare c’è che quanto più precoce e leggero riesce ad essere il sostegno respiratorio, quanto migliore, e veloce, sarà la ripresa dei pazienti colpiti. È qui che la ventilazione non invasiva diventa essenziale.

Protezione Civile e regioni del Nord se ne stanno accorgendo, e corrono a raddoppiare i posti di terapia sub-intensiva, precipitandosi alla ricerca della strumentazione necessaria per i letti “leggeri”, dove i pazienti possono rimanere svegli, coscienti, ma dove hanno comunque bisogno di macchine per l’ossigeno e di personale sanitario intorno, anche se in misura molto inferiore rispetto a quanto serva nelle terapie intensive. Per aiutare le loro difese immunitarie a prendere tempo, e sconfiggere il virus, i malati hanno bisogno di ventilatori e interfacce che li aiutino a respirare. Le principali sono due: una maschera di plastica rigida, grande quanto il volto. E il casco.

«Il casco è nato nel 1988 dall’idea di alcuni medici italiani», racconta Fulvio Pozzetti, ingegnere della Intersurgical di Mirandola, 50 dipendenti prima dell’emergenza, diventati 75 nel corso di pochi giorni: «Dà molto meno fastidio. E soprattutto ha il vantaggio di creare un sistema chiuso intorno al respiro del paziente, isolandolo». Quando la persona contagiata espira, l’aria esce dall’elmo solo dopo essere filtrata. Diversi studi hanno dimostrato che questa tecnologia riduce moltissimo il rischio che le infezioni si propaghino in reparto. L’importanza del casco, nella prima linea contro l’epidemia, è evidente.

A Mirandola lo sanno. «Prima dell’emergenza la nostra azienda produceva al massimo 200 caschi al giorno», racconta Francesca Zerbini, parlando da dietro la mascherina, anche lei, con le mani igienizzate e nei guanti di lattice: «Ora abbiamo triplicato i turni. Teniamo lo stabilimento acceso notte e giorno. Siamo arrivati a sigillare 700 pezzi ogni 24 ore. Stiamo facendo il possibile per potenziare i risultati». Ma sembra non bastare mai. I picchi di ricoveri negli ospedali non si fermano. Gli uomini e le donne che hanno bisogno di respirare dentro quel sacchetto di plastica per riprendere fiato continuano a aumentare.

La produzione della ditta modenese in questo momento va tutta allo Stato, che distribuisce i kit agli ospedali a seconda dell’urgenza. Ogni confezione costa intorno ai cento euro. Può essere usata da un solo paziente, poi va buttata.

Daniele era andato in pensione. Quando Codogno è diventato zona rossa, e dalle aziende sanitarie del Nord sono cominciati ad arrivare impennate di ordini, ha accettato subito di tornare in fabbrica. Barbara, che lavora qui da dieci anni, fa la spola in bicicletta fra la famiglia in quarantena e lo stabilimento. La strada fra la casa e la camera bianca è l’unico spostamento che si concede. Christian e Andrea, due tecnici assunti per il settore ricerca e sviluppo, hanno lasciato il laboratorio e si sono messi a disposizione per i turni di notte. Vincenzo, che normalmente incontra distributori e manager per promuovere la ditta nel Sud-est Asiatico, si è fermato a Mirandola; ora innesta valvole salva-vita. Le loro colleghe sono soprattutto donne, come Lilia; «è sempre stato così», spiegano: «Nel settore biomedicale siamo più donne. Dicono che la ragione siano i nostri gesti: più precisi e delicati di quelli maschili».

Solo tre aziende in Europa producono i caschi, e sono tutte e tre in Italia. Due nel modenese, la Intersurgical a Mirandola, la Dimar a Medolla; e la Harol a San Donato, Milano. I loro nomi erano noti solamente negli ospedali, prima; un settore di nicchia, quindici milioni di ricavi tutte e tre assieme. Ma le loro produzioni oggi sono diventate un servizio pubblico. «Riceviamo centinaia di telefonate», racconta Francesca: «Da associazioni che desiderano comprare dei pezzi da donare. Ma anche da molti privati che vorrebbero comprare il respiratore per se stessi. Siamo arrivati a dover mettere un avviso: i nostri caschi sono ad esclusivo uso ospedaliero». La produzione tra l’altro adesso è contingentata dalla Protezione Civile. Perché questa è la resistenza delle retrovie. Le operaie e gli operai che dedicano ogni sforzo a fabbricare gli strumenti necessari ai reparti.

Il distretto biomedicale di Mirandola è un’eccellenza nota: 100 imprese, grandi o artigiane; 4mila e 500 occupati; un miliardo di fatturato complessivo. Un fortino che distribuisce strumenti per la diagnosi, apparecchi per le analisi, protesi. Qui è stato realizzato il primo rene artificiale al mondo. Il fondatore del distretto, e delle sue invenzioni, Mario Veronesi, è mancato tre anni fa. «Non ho mai avuto più del 25 per cento del capitale delle mie aziende, il resto era dei miei collaboratori», raccontava al Sole24Ore: «Chi obbedisce non è creativo». Il richiamo a Pico, l’umanista che a Mirandola è nato nel 1463, è quasi irresistibile.

Lunedì 16 marzo a “Radio Pico”, l’amministratore di un’azienda del territorio, la Tecnoline, raccontava di esser riuscito a convertire la catena di montaggio. Obiettivo: realizzare mascherine. «Puntiamo alla fabbricazione di un milione di pezzi al mese», ha spiegato. Normalmente la sua ditta confeziona sacche in pvc per la dialisi. Ora è andato a Padova con un rappresentante per recuperare elastici - scarseggiano anche quelli - ed è riuscito a rinnovare la catena di montaggio, rispondendo a un’esigenza nazionale. A un’ora di macchina da qui, in provincia di Bologna, c’è la Siare Engineering, fondata nel 1974 e incaricata dal premier Giuseppe Conte e dalla Protezione Civile di consegnare duemila ventilatori polmonari entro luglio. È più di quanto avrebbe prodotto in quattro anni. Ma è un’esigenza nazionale. Per aiutare la consegna, sono stati affiancati agli operai 25 tecnici dell’esercito specializzati nell’assemblaggio di armi.

Nell’area industriale di Mirandola c’è il sole. Dentro la camera bianca dell’Intersurgical un’operaia controlla uno per uno i tubi di plastica che entreranno nel kit per gli opedali, insieme ai caschi. I filtri arrivano dalla Lituania. La plastica viene ordinata direttamente dalla casa madre, inglese dal 2007, ma che ha tenuto a Modena la produzione. Se la manodopera è rimasta in Italia, la merce si innesta comunque su una filiera globale, che dovrà continuare a reggere. In sequenza, veloce, l’operaia inserisce ogni tubo su due prese d’aria per verificare non ci siano fughe. L’ossigeno che passerà non deve uscire. Perché servirà a salvare una vita in più.