Unorthodox, la buona fede e il corpo delle donne
L'integralismo genera mostri. Nel futuro distopico di Gilead in Handmaid's Tale e nel presente della comunità di New York raccontata dalla serie su Netflix. E guarda caso a soccombere è sempre la libertà femminile. Ma la dannazione non passa per i jeans
Nessuno dovrebbe rasarti i capelli. Neanche Dio. Nessuno dovrebbe costringerti a un amplesso, toglierti i libri, impedirti di cantare in pubblico e obbligarti a procreare. Chiuderti in casa, privarti del contatto, del desiderio. Pulirti la faccia, nasconderti le forme, buttarti in un angolo perché, per una colpa ancestrale sei nata donna e in qualche modo la devi scontare. Nessuno deve toccare la libertà. Perché la libertà è sacra, atea e sacra. Ma l’integralismo si sa generi mostri. E una piccola serie, nel senso di quattro puntate, online su Netlifx lo racconta assai bene.
Scritta da Anna Winger e Alexa Karolinski, ispirata all’autobiografia di Deborah Feldman, “Unorthodox” racconta la vita di una ragazza ebrea ortodossa in un angolo della Grande Mela, che decide di darci un taglio, perché a volte la tua vita vale la pena di essere vissuta non foss’altro perché è proprio tua. Esty (Shira Haas, un’attrice che vorresti solo abbracciare con due occhi decisamente più grandi di lei), vive a Williamsburg nella comunità degli ebrei Chassidici. Dove i precetti del Talmud si seguono alla lettera e le donne vengono date in spose dopo essere state purificate per compiere il senso unico alla loro esistenza: diventare madri. Religione, uomini al comando, donne sottomesse e ridotte a puri corpi senza voce. Un triangolo seriale che ricorda quel senso di oppressione sottopelle provato davanti alle ancelle schiave di The Handmaid’s Tale.
Solo che qui non si racconta un futuro distopico ma un presente vivo. Che brucia. E brucia a tal punto che Esty, quella “diversa” prima di soffocare scappa, per scoprire che in fondo è solo normale. Che la dannazione non passa per i jeans. E che a volte la salvezza si nasconde a Berlino, in un’orchestra che parla tutte le lingue, che unisce tutte le differenze, che accoglie non respinge.
Mentre la tv si è raccolta in preghiera per la settimana santa, si è umanizzata con la voce del Papa al telefono e in una giravolta circense si è svuotata di ragionevolezza passando dal rosario tra i lustrini all’appello a riaprire le chiese che tanto «la scienza non basta a sconfiggere il virus», Unorthodox nella sua accuratezza da rievocazione storica, ha ribaltato la questione, diventando, come un grido silenzioso, un manifesto del diritto all’ascolto. Non contro la fede, anzi, in buona fede.
La protagonista che rinasce due volte nell’acqua, immersa nella vasca per darsi pulita al marito, e nel lago tedesco per darsi un’occasione, non giudica chi resta, non spezza i legami, non lascia la sua Chiesa. Lotta solo per la verità. Che no, non è quella dell’esclusione ma dell’apertura. Persino se sei donna