Così Luca Zaia è diventato il rivale più pericoloso per Matteo Salvini
Il governatore veneto raccoglie sempre più consenso in casa e nel paese grazie alla gestione dell’emergenza coronavirus. E nel partito si rafforza come alternativa nazionale al Capitano. Anche perché gli industriali hanno sempre apprezzato il pragmatismo del "doge"
Il coronavirus, è chiaro a tutti, non è affatto una livella. Colpisce gli anziani e grazia i più giovani. Affoga il Nord risparmiando il Sud. Distrugge alcuni settori economici e ne salva altri. Aumenta le diseguaglianze tra i ricchi e i poveri.
Ma anche in politica la pandemia ha effetti che creano antitesi, e che rischiano di far saltare equilibri apparentemente consolidati. La pubblica opinione sembra già dividere i politici tra i competenti che stanno facendo bene, e coloro che di fronte al caos hanno fallito. Tra chi è sembrato affidabile, e tra chi nell’emergenza è venuto meno.
Così, se è ancora presto per assegnare giudizi definitivi sulle mosse del governo Conte (per ora premiate dai sondaggi), è già palese come il virus abbia spaccato in due la Lega. Da un lato, c’è quella della Catastrofe, incarnata dal governatore lombardo Attilio Fontana. Dall’altro, la Lega che funziona, che ha il volto impomatato del presidente del Veneto Luca Zaia.
La contrapposizione tra due modelli di governo (e tra classi dirigenti differenti) è destinata, prima o poi, a terremotare l’armonia del partito. Perché il «leghista incapace», cioè Fontana, non è solo il simbolo della crisi sanitaria lombarda. Ma pure un dirigente voluto e imposto da Matteo Salvini e dai suoi fedelissimi, che lo consigliano (o manovrano, come sostengono i malpensanti) da mattina a sera.
Il buongoverno di Zaia, “il leghista virtuoso” che ha guadagnato nella lotta vincente al Covid le stellette da generale, non è invece ascrivibile al Capitano. Il Doge che ama i cavalli comanda il Veneto da 10 anni, fu lanciato ministro dell’Agricoltura da Umberto Bossi, e proprio nulla deve a Salvini. Che infatti non vede oggi in Zaia non un’opportunità per rilanciare una Lega in crisi di consensi. Ma una pericolosa alternativa alla sua leadership appannata.
La competizione tra i due è fatto antico, anche se sempre smentita da entrambi come calunnia giornalistica. Ma nell’era del coronavirus le discrepanze (anche caratteriali) potrebbero venire al pettine prima del previsto. Luca rischia - persino senza volerlo - di diventare l’Avversario naturale del suo capo. Dentro il partito, dove Salvini è un re che ha perso la bussola tra la sabbia del Papeete. Nel centrodestra, dove Berlusconi e altri esponenti moderati sognano una guida meno truce. Nei palazzi del potere, dove uomini delle istituzioni e del deep state considerano il veneto assai più spendibile del lombardo. Dopo le Politiche nel 2018 e il trionfo alle Europee un anno fa, Salvini ha sbagliato linea e tattiche. Prima autoescludendosi dal governo, poi virando sull’estremismo. E ha surgelato, chissà per quanto, un pacchetto enorme di voti.
Ecco: secondo più di un osservatore, Zaia (con Giorgetti) potrebbe ridare agibilità politica a quel consenso così vasto. Vedremo.
Oggi intanto si può segnalare come il successo nella lotta al coronavirus del governatore non sia affatto casuale. Viene da lontano e da una politica sanitaria ed economica che ha un suo specifico territoriale. L’ex meccanico che ama i purosangue catalani (ne aveva uno che si chiamava Furioso) e vive tra Venezia, la casa di San Vendemiano e il suo paese d’origine, Godega di Sant’Urbano, frazione di Bibano, incarna un leghismo che per radici sociali e culturali è distante anni luce da quello muscolare di Salvini.
Cameriere da giovanissimo (prima Partita Iva aperta a soli 18 anni), muratore, pr nella discoteca “Manhattan” e poi laureato in Scienze della produzione animale, Zaia è considerato un discendente spurio della Liga Veneta, movimento che mischiava autonomismo radicale con le tradizioni bianche e democristiane, tipiche di quel pezzo della Pianura Padana.
Verissimo che i lumbard del Senatur Umberto Bossi vinsero il derby coi veneti, conquistando a fine anni ’80 la guida della questione settentrionale. Ma gli industriali e gli artigiani di Verona, Rovigo e Padova che votano Lega da 30 anni, continuano a parlare una lingua diversa rispetto a quella dei milanesi. E, ancor più, di Salvini. Il loro mantra è il federalismo autodeterminato, non il nazionalismo. Gli eroi del pantheon sono i repubblicani della Serenissima, non Marine Le Pen o Victor Orban. La propaganda securitaria e antimigranti conta, certo, ma gli schei e il buon governo molto di più.
Zaia conosce la sua gente (che lo ha eletto trionfalmente governatore sia nel 2010 sia nel 2015, quando a livello nazionale la Lega galleggiava al 4 per cento) e non ha mai accarezzato troppo il pelo populista del nuovo segretario eletto sette anni fa. Da amministratore ha proposto un modello pragmatico, e ha preferito usare toni rassicuranti. «Una politica che ha funzionato bene in chiave locale. Oggi, in tempi emergenziali, potrebbe essere esportata con successo su scala nazionale», ammette un suo colonnello. Aggiungendo però «Luca resta un soldato e rispetterà sempre la gerarchia di partito».
Salvini, l’uomo che ha portato la Lega al 30 per cento, non crede nell’ammutinamento. «Zaia nuovo premier? Luca è una risorsa per tutto il Paese. Ma in futuro...», ha chiarito a chi ipotizzava un nuovo governo di unità nazionale. Il numero uno della Lega spera che Zaia resti ancora a Palazzo Balbi, sede cinquecentesca della Regione Veneto sul Canal Grande, senza dar retta a chi soffia su ambizioni precoci di leadership nazionale. L’inizio del terzo mandato da presidente è previsto in autunno, quando Zaia strapazzerà il contendente scelto dal Pd, il professore ed ex rugbista Arturo Lorenzoni: il match - salvo miracoli - finirà come quelli tra Italia e Nuova Zelanda.
Ma dentro e fuori la Lega, sono tanti a fare il tifo affinché che il soldato diventato comandante nella lotta al virus faccia finalmente uno scarto in avanti, proponendosi come alternativa possibile.
I numeri non gli mancano. Nella risposta all’emergenza, il confronto tra la strategia del Veneto e la Lombardia guidata da Fontana (e dunque Salvini) è impietoso. Il tasso di letalità della malattia nel Nordest è più basso di 11 punti (7 per cento contro il 18), e i contagiati - all’inizio esplosi in contemporanea nelle due regioni - sono poco più di un quarto. Merito della sorte, forse. Ma anche della scelta di Zaia di forzare i protocolli nazionali e dell’Oms, affidandosi - nonostante i dubbi del direttore della sanità veneta, il fedelissimo Domenico Mantoan - al piano del virologo “eretico” Andrea Crisanti, in forza all’università di Padova. Un disegno antipandemico basato su tamponi a tappeto pagati dalla Regione, e sull’isolamento domiciliare dei possibili positivi. Così facendo, rispetto alla Lombardia Zaia ha protetto molto meglio non solo i cittadini ma, ha evidenziato Crisanti, «pure i medici e gli infermieri».
Non solo. Il Doge e i suoi referenti hanno celermente individuato e sprangato le zone a rischio (come a Vo’ Euganeo, diventata poi protagonista di uno studio epidemiologico che ha evidenziato, per la prima volta al mondo, la pericolosità degli asintomatici nella diffusione del contagio), mentre Fontana non blindava Alzano Lombardo. E laddove il Veneto chiudeva e sanificava gli ospedali (come quello di Schiavonia, riaperto in sicurezza in 10 giorni), i nosocomi bergamaschi diventavano focolai incontrollati.
«Luca ha avuto fortuna, Attilio no», si giustificano i salviniani di stanza al Pirellone. Sarà. Ma è un fatto che da lustri la sanità veneta abbia staccato quella lombarda in termini di efficienza e qualità. Nell’ultima classifica Lea che misura le prestazioni regione per regione (anno 2018), il ministero della Salute assegna a Zaia e compagni il primo posto, con un eclatante punteggio di 222 su 225. A poca distanza le rosse Emilia-Romagna e Toscana, poi Piemonte, solo quinte Liguria e Lombardia.
Il leghismo veneto, da sempre ad alto tasso sociale, non ha mai voluto privilegiare la sanità privata rispetto a quella pubblica, e ha investito non su poche grandi strutture d’eccellenza che hanno desertificato i presidi territoriali, ma sulla medicina di prossimità e su ospedali medio-piccoli. Davanti alla pandemia, la reazione del sistema è stata efficace. Quella del modello lombardo, assai meno.
«I successi sul Covid sono figli di un progetto politico decennale», si gonfiano d’orgoglio gli ammiratori di Luca il Pragmatico. Che è al vertice di un’amministrazione che sembra davvero avere poca sintonia con la Lega tutta chiacchiere, estremismo e social network inventata da Salvini e il suo spindoctor Luca Morisi.
Anche Zaia, sposato da anni con Raffaella Monti, ex segretaria di una piccola azienda, non è immune da gaffe da brividi. Nelle interviste ama parlare di Marguerite Yourcenar e delle sue “Memorie di Adriano” («Ho governato in latino, ma in greco ho pensato e in greco ho vissuto. Ecco, il mio greco è la lingua veneta», ha detto), ma poi incespica citando in tv i versi «del grande Eracleonte da Gela». Poeta inesistente creato qualche giorno fa da un perito informatico di Palermo. Insulta in diretta i cinesi «che mangiano topi vivi» come il tipico razzista da pratone di Pontida, poi - fatto raro nella politica nostrana - chiede perdono, mandando anche una lettera di scuse all’ambasciatore di Pechino. Come altri a destra e sinistra si è intorcinato tra riaperture affrettate e frenate improvvise, ma alla fine le polemiche lo toccano sempre di striscio, preferendo investire le inettitudini ben più gravi dei leghisti lombardi.
Insomma, lo Zaia del Dopo Covid rischia di avere il vento in poppa. Con le vele gonfie del consenso della sua gente, e di quello dei piccoli imprenditori e professionisti che costituiscono la spina dorsale dell’economia del partito del Pil. Ancora scottati dalle promesse non mantenute, flat tax in primis, da parte di Salvini, che durante il governo gialloverde del primo Conte s’industriò per le loro cause assai meno di quanto da loro previsto.
Il ceto produttivo leghista fu deluso pure dai miliardi del reddito di cittadinanza previsti dal mitico Contratto («in Veneto si fa fatica a capire che uno che non lavora venga anche pagato», protestò l’allora segretario regionale della Lega Gianantonio Da Re), e dai soldi spesi per i prepensionamenti di Quota 100. Un provvedimento voluto fortemente dal Capitano, e considerato da molti leghisti (per una volta d’accordo con gli esperti della Ue e dell’Ocse) uno spreco senza senso.
Durante l’anno passato dal suo capo a Palazzo Chigi e al Viminale, Zaia senza farlo mai notare troppo ha giocato di sponda con gli scontenti. Polemizzando sulle mancate opere pubbliche (vedasi lo scontro sulla Pedemontana veneta con il ministro Danilo Toninelli), appoggiando Assindustria e Confartigianato nelle dure critiche su una manovra finanziaria che puntava tutte le fiches sull’assistenzialismo, e poco o nulla su investimenti strutturali e il taglio delle tasse sul lavoro. A Padova e Treviso manifestazioni antigovernative come quella sulla Tav a Torino non ce ne sono state solo perché, secondo il direttore del Gazzettino Roberto Papetti, «imprenditori e cittadini da tempo distinguono tra la Lega di Zaia e quella di Salvini».
Anche la battaglia per l’approvazione della legge sull’autonomia regionale, tanto cara a veneti, lombardi ed emiliani-romagnoli, e invece boicottata dal Conte I per la contrarietà grillina, ha rafforzato la posizione di Zaia in tutto il Nord. Stimato come leader naturale dalla destra federalista. E da alleati influenti, come il presidente di Confindustria di Vicenza Luciano Vescovi, che dà all’esecutivo di cui il Capitano era vicepremier un 4 in pagella: «Non ha rispettato le nostre attese».
Qualcuno crede che Salvini abbia imboccato un declino inarrestabile, che la crisi provocata del Covid 19 non potrà che accelerare. Altri sostengono che lo stallo dei sovranisti è epifenomeno momentaneo, e che - se il governo non sarà in grado di mettere rapidamente parecchi soldi nelle tasche degli italiani - tra qualche mese i sondaggi torneranno a premiarli.
Presto per fare vaticini. Ma come è vero che gli eccessi del leader del Papeete sembrano non coincidere più con lo spirito del tempo, è assiomatico che esista una Lega alternativa. Insofferente agli ammiccamenti ai fascisti di Casa Pound, alle carnevalate su Bibbiano, ai post contro il 25 aprile, ai rapporti ambigui con la Russia di Putin.
Zaia non è solo. Dentro la Lega la corrente moderata sta crescendo. La Repubblica ha dato conto qualche giorno fa di una lite tra Salvini e Giancarlo Giorgetti, ex suo braccio destro a Palazzo Chigi, che pare non digerire più le intemerate contro l’Europa e il Mes. Cioè l’unico strumento da cui l’Italia, almeno per ora, può ottenere le risorse necessarie (senza nemmeno le vecchie condizionalità) a evitare uno sprofondo. «La propaganda anti Bruxelles di Matteo non funziona più», ha ripetuto sconsolato Giorgetti a più di un amico, sottolinenando il paradosso leghista del “niet” agli eurobond al Parlamento europeo.
Zaia, Giorgetti, Roberto Calderoli, Massimo Garavaglia hanno attitudini e storie differenti e solo un superficiale turista della politica può considerarli della medesima corrente. Tutti, però, sono convinti che bisogna modificare presto la narrazione, e che il Capo dovrebbe smettere di ascoltare i sussurri avvelenati di Borghi e Bagnai, dioscuri dell’Italexit.
Anche Berlusconi e Giovanni Toti sperano in una svolta moderata del Carroccio, ed entrambi vedono in Zaia l’unico leghista carismatico che - invece di citofonare a presunti spacciatori tunisini durante campagne elettorali, poi perdute - in tempi di crisi di sistema potrebbe dialogare assai meglio con le istituzioni. E con quel partito degli affari stanco di provocazioni razziste, post su Twitter con foto di salami e rosari branditi in piazza come una clava. Zaia come gran parte dei veneti è un cattolico conservatore, non ama il terzomondismo di Francesco, ma è anche colui che davanti alla platea destrorsa del Congresso della Famiglia di Verona spiegava che per lui la vera «patologia è l’omofobia».
Dalle calli veneziane gli zaiani buttano acqua sul fuoco. «Per voi giornalisti Luca sarà pure diventato un generale. Ma nel nostro partito tranne il capo sono tutti soldati. Anche Zaia eseguirà gli ordini del partito». Solo tra qualche tempo si scoprirà se il governatore semplice diventerà, da semplice alternativa, un Avversario vero.