Vagabondi, ex carcerati, rom. Che avevano trovato dignità e un reddito con un’iniziativa editoriale. Durante la quarantena sono ripiombati nella disperazione. Ora vogliono ricominciare a raccontare la vita di strada. E Papa Francesco tifa per loro

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Pensate alla quarantena che abbiamo fatto nelle nostre comode e confortevoli case, impegnati nello smart working - provvisti di wi-fi-banda larga, computer, televisione, impianto stereo, tablet, smartphone, libri - nutriti di buon cibo e buon vino, con il profumo caldo e rassicurante del pane appena sfornato. E poi pensate alla situazione oggi di chi guarda alla nostra condizione come a un passato felice, cancellato da un presente di stenti e tribolazioni. Per ognuna di queste persone le cose che hanno reso per noi la quarantena vivibile è un sogno proibito, una vetta da scalare: «La vita di milioni di persone, nel nostro mondo già alle prese con tante sfide difficili da affrontare e oppresse dalla pandemia, è cambiata ed è messa a dura prova. Le persone più fragili, gli invisibili, le persone senza dimora rischiano di pagare il conto più pesante», ha scritto Papa Francesco in una lettera inviata al giornale di strada milanese Scarp de’ Tenis. «Mi chiedi se si può dire che siamo il suo giornale del cuore? Penso di sì, perché è lì, nel suo cuore, che stanno gli emarginati, gli esclusi, i senza fissa dimora, gli ultimi degli ultimi, mai così fragili come in questa terribile pandemia», mi racconta il direttore Stefano Lampertico, 52 anni, economista, per dieci anni sindaco di Gorgonzola, nell’hinterland milanese.

Il Papa si è rivolto al suo giornale, Scarp de’ tenis, per parlare anche agli altri 100 sparsi per il mondo che danno lavoro e reddito a 20.500 senza tetto. Racconta Lampertico: «Scarp de’ tenis (www.scarpdetenis.it) nasce a Milano nel 1994. L’ideatore è Piero Grecchi, un pubblicitario che importa nel capoluogo lombardo il modello degli street magazine anglosassoni. Sceglie, come nome della testata, il titolo di una celebre canzone di Enzo Jannacci, “El purtava i scarp de’ tennis”. Alla fine del 1995 il progetto passa a Caritas Ambrosiana. A Milano ci sono circa 2.500 senza fissa dimora, il nostro giornale è uno strumento di reddito per alcuni di loro. Non si compra in edicola, ma solo per strada. In un anno vendiamo 220 mila copie, circa 20 mila a numero. I nostri venditori sono ex-carcerati, rom, persone che dormivano in autobus e che prima della pandemia in questo modo guadagnavano 600-700 euro al mese, con un contratto da venditori porta a porta che consente loro di accedere a una serie di diritti, come la richiesta di una casa popolare. Con la pandemia abbiano dovuto sospendere la vendita per strada e abbiamo diffuso due numeri in digitale e per abbonamento, ma presto torneremo in strada e davanti alle chiese».


Mi racconta Fedele, sessant’anni, originario di Trapani ma a Milano dall’età di sette: «Sono un elettrotecnico ma ho sempre fatto il fotografo, ho lavorato per la pubblicità, negli anni ’80 ho fatto le copertine degli album di artisti come Jovanotti. Per trent’anni sono stato a un certo livello, insomma. Poi una catastrofe personale della quale, scusami, non ho voglia di parlare, mi ha travolto e mi ha tenuto per molto tempo lontano dal lavoro. Ogni tanto faccio qualche servizio per piccoli eventi, ma è la vendita del giornale che mi aiutava e non solo a livello economico. La gente ci guardava con simpatia, si fermava a parlare dopo la messa. Non sono solo i soldi che mancano, oggi, è questo rapporto umano, che ti faceva sentire il tuo come un lavoro».

Il giornale è scritto molto bene, impaginato con sobrietà ed eleganza, ricco di storie che altrove non leggi. Attorno alla sua redazione si muove anche una parte del mondo intellettuale e artistico milanese, cito per tutti Giacomo Poretti, il celebre comico di Aldo, Giovanni e Giacomo, e molti giornalisti collaborano gratuitamente: «Da Jannacci in poi le scarpe da tennis ci hanno sempre fatto simpatia», dice uno dei migliori giornalisti milanesi, Piero Colaprico, caporedattore di Repubblica, collaboratore di SdT e creatore, tra l’altro, insieme all’anarchico Pietro Valpreda del fantastico personaggio del maresciallo Pietro Binda, una specie di Montalbano meneghino, protagonista di una serie di romanzi polizieschi. «I venditori che ti porgono il giornale davanti alle chiese o sotto i portici sono un panorama consueto. Io ho cominciato comprandolo mentre andavo al lavoro e poi mi sono fatto coinvolgere. E mi sono accorto, dalle reazioni che ricevo per i pezzi che pubblico lì, che c’è una gran parte di persone a Milano che vuole fare del bene. Ecco, SdT è una specie di ponte tra gli invisibili e la società ufficiale. Il mio Binda? È un po’ triste in questo periodo. Sta a casa e legge libri sulla storia della Roma antica. Esce solo per andare all’edicola ed è molto triste perché non vede più i barbun con il loro bel giornale. Nel frattempo lavora al caso del misterioso omicidio di una Pr».

Scorrere le pagine dei giornali di strada, raccontare chi li vende è anche un modo per guardare la pandemia dal punto di vista di queste “vite agre”. Nell’ultimo numero SdT le ha raccontate da tutto il mondo, facendo della rete dei giornali di strada una preziosissima fonte di storie di dolore e coraggio. In Corea del Sud e Giappone, i venditori di “The Big Issue” hanno visto calare drasticamente il numero delle copie vendute. Yoshitomi, venditore di Osaka, dice di vedere molte meno persone in giro rispetto al solito, mentre Yamada si chiede se sia meglio indossare una mascherina oppure no. «Alcuni clienti si sentono protetti, se la usiamo. Altri si agitano perché ci credono infetti». Aggiunge da Londra Lucy Abraham, dell’organizzazione Glass Door: «Quando si è per strada, la vita è già abbastanza difficile. Questa è una sfida in più delle tante che le persone senza dimora affrontano ogni giorno»,

Ed ecco le parole di don Roberto Trussardi, direttore della Caritas di Bergamo: «Faccio fatica, facciamo fatica a dire che andrà tutto bene. Ma alziamo lo sguardo a Dio. Molti pregano o sono tornati a pregare. E molti esprimono una responsabilità, una solidarietà, una forza encomiabili, con ritmi di lavoro incredibili per fronteggiare l’emergenza. Siamo gente un po’ chiusa, un po’ rozza noi bergamaschi, ma composta, tenace. Siamo ancora aperti. E penso anche ai “nostri” senza dimora: rispettosissimi, discretissimi, collaborativi, nonostante la “reclusione” forzata. Sempre pronti a ringraziare, attenti a stare alle regole, loro che vengono da vite oltre le regole».

Ascoltiamo ancora Lampertico: «Come sopravvivono con i divieti i nostri venditori? Sono abituati alle difficoltà. Vivono con quel che hanno. Noi abbiano fatto due numeri digitali e distribuito il ricavato tra i venditori, poi c’è l’aiuto della Caritas e qualcuno di loro ha il reddito di cittadinanza. Hanno dovuto abituarsi a non stare per strada la notte, vanno nei dormitori, qualcuno abita nelle case popolari o in quelle della fondazione San Carlo. Per gli ultimi della fila non è stato previsto nulla, come sempre. Per questo è ancora più grave che non possano lavorare, perché loro non chiedono carità ma, quando ti porgono il giornale, sentono di star svolgendo un lavoro. Ora il guaio è che la condizione di lockdown aumenta la solitudine di queste persone già così piene di schegge e ferite: perdita del lavoro, crisi familiare, galera, droga, gioco, ognuno di loro ha un percorso che l’ha condotto sulla strada. Per molti di loro, soprattutto i più anziani, non c’è alcuna speranza di tornare nel mondo del lavoro che li ha espulsi. Non c’era prima della pandemia, figuriamoci ora. Per loro il giornale è sì un lavoro che ti dà un reddito, sia pure piccolo, ma è anche il riscatto di se stessi».

«Ero un muratore piastrellista finito in un brutto giro. Ho dormito per due anni sulle panchine per me vendere il giornale non è mai stato come chiedere l’elemosina, è stato più che un lavoro, una rinascita, un modo per non lasciarmi andare. Tutto questo mi manca terribilmente», racconta Enzo, un altro venditore.

Lampertico va molto fiero dell’intervista concessa in esclusiva al suo giornale da Papa Francesco, in occasione della visita a Milano nel marzo di tre anni fa : «Mettersi nelle scarpe degli altri», diceva papa Francesco, «significa servizio, umiltà, magnanimità. Si può vedere un senzatetto e guardarlo come una persona, oppure come fosse un cane». Ricorda Stefano: «Quando ci ha ricevuto, papa Francesco per prima cosa ha voluto ascoltare la storia difficile di uno dei venditori che era con noi. Ci ha fatto tante domande sulla vita di strada e poi mi ha colpito l’autorevolezza e insieme l’umanità che promanavano dalle sue parole. Sono parole che fanno venire i brividi oggi, al tempo del Virus, quando non possiamo toccarci e possiamo guardarci solo da lontano. Sapevamo che Francesco, forse per la sua esperienza in Argentina, è amico dei giornali di strada, ma questa lettera in questo periodo così tragico, in cui non sappiamo se ripartiremo e neppure se sopravviveremo, ci ha dato speranza».

Le “divisioni mediatiche” del Papa (supervisionate da Paolo Ruffini), perfettamente integrate nella comunicazione globale, hanno prodotto immagini che sono diventate icone. Come la benedizione in una piazza San Pietro buia, deserta e sferzata dalla pioggia, la dolente via Crucis scandita dai pensieri del mondo della carceri. Una fortissima potenza simbolica con tagli di luce “alla Storaro” che hanno illuminato la figura del Pontefice e, alle sue spalle, il “Crocifisso dei Miracoli” a cui si attribuisce la sconfitta della peste che nel ‘500 mise in ginocchio la Capitale. E c’è un significato simbolico forte anche in questa lettera ai giornali di strada: l’invito a posare lo sguardo dove solitamente non guardiamo mai, ad ascoltare il silenzio delle nostre città colpite da un male mortale che non ne intacca i lineamenti ma ne divora l’anima. Non ne usciremo con le grottesche giravolte dei piccoli politici italiani, narcisisti e innamorati delle loro vuote parole. Può forse aiutarci posare lo sguardo in basso, per apprendere la resilienza da chi sa vivere con poco o nulla; il coraggio da chi, come medici e infermieri, rischia la propria vita per salvare quella degli altri; la forza da uomini e donne che volontariamente assistono gli ultimi.

Non “abbassiamo” lo sguardo sui corridoi del potere, “alziamolo” sulla strada.