Pochi contagi e zero decessi: le residenze che hanno sostituito i manicomi giudiziari hanno resistito all'emergenza sanitaria. Anzi in alcuni casi hanno funzionato anche meglio di prima. Ecco perché

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Chiamateli “pazzi criminali” se volete. Ma sappiate che in questo tempo sospeso tra restrizioni, paure, fragilità collettivà, hanno aiutato a superare l’angoscia e lo smarrimento di chi li assiste. Degli operatori, per esempio, abituati a una vita normale e che nelle Rems, le residenze per le esecuzione delle misure di sicurezza, sfidano i pregiudizi per curare uomini e donne che hanno comesso reati gravissimi armati della propria follia. La malattia, le limitazioni, cittadini che si scoprono fragili e si rintanano per uscirne più forte di prima. Esperienza nuova per noi, ma non per chi è obbligato a vivere così ogni giorno della propria vita.

Di questa categoria fanno parte i pazienti che un tempo la società avrebbe scaricato nelle discariche chiamate Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. Gli Opg sono stati banditi. Una riforma, la legge 81 del 2014, li ha cancellati per sempre sei anni fa. «Una rivoluzione gentile», la definisce Franco Corleone, tra gli ispiratori della nuova legge e strenuo combattente dei diritti degli ultimi. Di impatto come fu la più celebre legge Basaglia. Ecco, dunque, che il parere è unanime: le comunità che hanno ereditato e cancellato la disumanità degli ospedali pischiatrici giudiziari hanno retto alla catastrofe Covid. E non solo in termini di contenimento del contagio. Ma anche perché nelle Rems il lockdown ha prodotto risultati terapeutici inattesi. In una struttura siciliana, per esempio, una madre che ha ucciso i suoi due figli ha deciso di fare i conti col proprio passato durante la fase 1 e aprirsi con l’equipe di specialisti che la seguono nella residenza.
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«Nel buco nero degli Opg, l’unico orizzonte possibile era quello della segregazione, talvolta del vero e proprio orrore», dice Alessandro Capriccioli, presidente del gruppo Radicali in consiglio regionale del Lazio. Le parole di Capriccioli sottendono un’altra riflessione: se ci fossero stati ancora gli Opg di certo la pandemia avrebbe provocato una strage nelle carceri trasformate in discariche della follia. «Sarebbe stato certamento così», ci conferma Raffaele Barone, esperto di comunità terapeutiche, direttore del dipartimento Salute mentale di Caltagirone oltreché supervisore delle Rems della cittadina in provincia di Catania.

La rivoluzione gentile ha prodotto un cambio radicale di paradigma nel trattamento degli autori dei reati non imputabili per “incapacità di intendere e di volere”: a differenza degli Opg in cui le persone scontavano ergastoli bianchi, nelle Rems i pazienti seguono un percorso terapeutico con l’obiettivo di un reinserimento nella società. La ricerca della parole giuste è la premessa di ogni vero cambiamento. «Le parole sono importanti», diceva Michele in Palombella Rossa. E da detenuti a pazienti, la mutazione lessicale è rivoluzionaria. «Aver trasformato gli “internati” in “pazienti” è l’ultimo effetto nella maturazione della rivoluzione basagliana degli anni ‘70», dice Capriccioli.

Le Rems attive sul territorio nazionale sono 31, con 635 posti disponibili, di cui 582 occupati. L’unica fotografia sull’impatto della pandemia sulle residenze al momento disponibile è un’indagine in fase conclusiva che L’Espresso ha potuto leggere in anteprima. Avviata ad aprile dall’Osservatorio sul superamento degli Opg e sulle Rems e dal coordinamento Rems-Dsm, che hanno inviato un questionario a tutte le residenze. A coordinare il lavoro Pietro Pellegrini, direttore del dipartimento salute mentale e dipendenze patologiche della Asl di Parma nonché membro del coordinamento Rems-Dsm e Stefano Cecconi dell’osservatorio sul superamento degli Opg.

Alle domande del gruppo di ricerca hanno risposto in 26 Rems, che rappresentano un totale di 443 posti, oltre il 69 per cento del totale. «Al momento della rilevazione le 26 Rems ospitavano 393 pazienti. Nel periodo considerato sono state effettuate 10 ammissioni e 19 dimissioni». Mentre negli Opg i reclusi erano reietti, il sistema Rems riabilita, cura e dimette i pazienti che hanno terminato un percorso chiaro e definito. Un trend che né il virus né il lockdown hanno invertito. «Se proiettata a livello annuo porta le dimissioni a 158 pari al 35,6 per cento della dotazione complessiva di posti», scrivono i ricercatori.

Ma torniano al contenimento del covid. I dati raccolti evidenziano come solo nelle 26 Rems sono soltanto due i casi di ospiti positivi al coronavirus: entrambi nelle medesima struttura. Nessun decesso. Cosa che non è avvenuta nelle case di riposo a capitale privato (ma remunerate dalle convenzioni) dove c’è stata una strage di anziani. Eppure anche nelle Rems si sono verificati casi casi positivi di operatori e infermieri. Quattordici in tutto in 5 Rsa. Il fatto è che a differenza delle Rsa il virus è stato bloccato all’esterno.

Nelle Rems il paziente torna a essere umano e la sua follia una patologia che si può curare. Nonostante le restrizioni che hanno riguardato pure le Rems, non sono state segnalate situazioni critiche. Anzi, secondo la ricerca letta da L’Espresso, i Tso (i trattamenti sanitari obbligatori) sono in calo, zero le contenzioni, zero i suicidi. Invariate le aggressioni, gli atti di autolesionismo e di protesta rispetto al periodo pre covid. Secondo gli esperti « il clima relazionale interno in certi casi è anche migliorato», o meglio, «il lockdown ha ridotto il divario con la comunità nella quale tutte le persone sono state invitate a restare a casa e per tutte è stata limitata la libertà di circolazione».

Conferma il quadro Carmelo Florio, direttore del dipartimento Salute Mentale di Caltagirone: «La sorprese è che l’utenza accetta e comprende il momento. La Rems di Caltagirone è una struttura ampia, con spazi che consentono distanziamento». La residenza calatina è diretta da Salvo Aprile, che all’Espresso spiega: «I pazienti hanno regito bene. Certo, hanno sentito la mancanza delle uscite con gli operatori. Ma abbiamo potenziato altre iniziative: hanno usato i social network per raccontare come vivono la solitudine. Il gruppo cucina è stato incentivato. Tutte le attività esterne, sportive e ricreative in giardino hanno lenito il fatto di non potere più andare al bar o a prendersi la pizza. Nessuna protesta, nessuno scatto d’ira. I pazienti hanno scritto anche dei messaggi alle radio locali per spiegare ai cittadini come osservare al meglio le limitazioni», sorride Aprile, che aggiunge: «Anche a noi hanno dato suggerimenti su come sopportare la clausura».
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Noi matti nella pandemia (di Ascanio Celestini)
20/5/2020

In questa Rems dall’inizio del lockdown ogni venerdì alle cinque del pomeriggio operatori e pazienti si ritrovavano nel giardino per cantare l’inno nazionale. «Ma dopo aver visto nei telegiornali le bare di Bergamo, sono loro che ci hanno chiesto di sospendere per riflettere su quelle morti». Sono pazienti che hanno comesso reati anche gravissimi, omicidi, stragi. «Io dimentico il reato che ha commesso, per noi esiste solo la persona che va aiutata», dice il direttore della struttura.

«La sfida in questa fase di lockdown è cambiare, non chiudere. I mezzi di comunicazione ci hanno permesso di mantenere intatta il nostro metodo. Democrazia vuol dire responsabilità, gli utenti si sono presi anche un po’ cura delle nostre preoccupazioni. È stata un opportunità», spiega Raffaele Barone, tra gli autori della ricerca sulle Rems al tempo del virus.

A Volterra c’è un’altra residenza che ha fatto scuola in questi anni. Anche qui il sistema ha retto, con risultati superiori alle aspettative. «Temevo fosse per loro più difficile», racconta la psichiatra Claudia Montanelli, «soprattutto quando il nostro direttore si è ammalato ed è stato ricoverato per covid. Invece abbiamo affrontato tutto con il massimo rigore. Abbiamo interroto uscite e inserimenti lavorativi. I pazienti hanno risposto in maniera positiva. Come se le limitazioni del lockdown li avesse finalmente resi uguali agli altri fuori dalla Rems», conclude Montanelli.

La ricerca del team guidato da Pellegrini e Cecconi non è solo un’istentanea sull’attualità. «Il questionario ha indicato alcune linee per il lavoro futuro, dal miglioramento della diagnostica specifica per il covid-19 fino a Linee Guida e Protocolli, all’utilizzo delle nuove tecnologie sia nella riabilitazione che nei rapporti con Dipartimenti di Salute Mentale e Magistratura». Istituzione, ques’utlima, che spesso guarda alla follia con lo sguardo rivolto al passato, considerando le Rems un contenitore dove far convivere vissuti troppo diversi. «Il fatto che non siano aumentati gli ingressi e siano cresciute le uscite testimonia il fatto che il sistema regge», è l’analisi di Franco Corleone, che aggiunge: «Fatta l’ottima riforma, però, ci siamo trovati di fronte a un aumento della richiesta di misure fondate sull’incapacità di intendere e volere. Ecco, quindi, che è arrivato il momento di riprendere il cammino della rivoluzione gentile: andare al nodo, al rapporto tra malattia mentale e reato».

I nodi, appunto, che ostacolano il compimento della riforma: la compresenza nelle Rems di pazienti non imputabili perché incapaci di intendere e di volere e di quelli che invece durante la detenzione in carcere si ammalano. I secondi vengono da percorsi più strutturati e rappresentano per gli altri pazienti un elemento a volte di disturbo nel loro percorso di recupero. Corleone insieme alla Società della Ragione sta preparando un seminario sulla non imputabilità. La fine cioè del doppio binario, che garantisce a chi ha commesso un delitto a causa della sua malattia mentale di non essere imputabile e di finire in terapia nelle Rems.

«Il giudizio deciso con una perizia sull’intendere volere e la pericolosità sociale (il binomio che provoca la misura di sicurezzaa) risale al codice Rocco di 90 anni fa», spiega Corleone. «Si tratta ora di andare avanti e affidare la responsabilità dell’atto a chi lo ha commesso, a detta di molti psichiatri, è terapeutico. Intendiamoci, la riforma che ha abolito gli Opg ha funzionato bene. Ma dopo alcuni anni è giusto fare un bilancio e capire come procedere. Se si dovesse continuare con le Rems, bisogna risolvere il nodo delle misure definitive. Altrimenti non resta che guardare ancora avanti e rivedere il doppio binario: esaltare, cioè, la responsabilità con un fine terapeutico».