La denuncia di un rapporto dell'Asgi: invece di combatterle, si favoriscono le pratiche più disumane. Così con soldi pubblici di un bando del ministero degli Esteri finanziamo i centri di detenzione in mano ai trafficanti

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Le torture sono quotidiane, anche se noi non le vediamo. Dallo scempio ci separano chilometri di terra e di mare e l’indifferenza per i muri. Tutto invisibile e muto dietro quei recinti, lontano anni luce da una società, la nostra, ossessionata dalla xenofobia. Eppure, anche se di quegli abusi sappiamo così tanto, abbiamo deciso di aprire i cordoni della spesa e investire proprio là dove lo sguardo non arriva. Lo ha fatto il ministero degli Esteri, finanziando interventi destinati alle comunità libiche e ai centri di detenzione per migranti e rifugiati attraverso l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo.

Il progetto, inserito nel 2017 in un più ampio quadro di azioni per l’assistenza alle vittime di crisi umanitarie e la cooperazione con i Paesi interessati dal fenomeno migratorio, ha contato finora su uno stanziamento di sei milioni di euro. Tutti soldi ripartiti tra le nove organizzazioni non governative italiane che si sono aggiudicate i tre bandi pubblicati dall’Aics. Un’operazione forse ispirata da buone intenzioni.

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In realtà, da subito una parte dell’opinione pubblica ha storto il naso di fronte a una mossa considerata piuttosto la legittimazione del funzionamento e dell’esistenza stessa di centri notoriamente gestiti nel disprezzo dei diritti umani. Si è guardato all’iniziativa con la stessa diffidenza riposta nel memorandum che, pochi mesi prima, aveva sancito l’impegno dell’Italia a garantire sostegno economico, politico e operativo alle autorità libiche, in cambio del contenimento dell’afflusso di migranti verso l’Europa.

Ora, a tirare le somme sull’apparente contraddittorietà di quei bandi è l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, con un rapporto che, nel confermare la funzionalità dei progetti a un piano di “esternalizzazione” delle frontiere, ne biasima l’inefficacia in termini di risposte durevole e sostenibili alle carenze strutturali dei centri, veri e propri luoghi di prigionia, dove gli stranieri intercettati dalla Guardia costiera libica, con mezzi e tecnologie forniti dall’Italia, vengono trasferiti e sottoposti a ogni forma di violenza e sfruttamento, in attesa di “rimozione”.

«Ideati nella piena consapevolezza delle gravi e diffuse violazioni che si consumano nei centri e con l’obiettivo di ridurne l’entità, ma non di eliminarle del tutto - scrive il pool di studiosi che ha lavorato al report - i bandi hanno creato i presupposti per la realizzazione di progetti che hanno l’effetto, quantomeno politico, di perpetuare un sistema di detenzione di cittadini stranieri in condizioni inumane, al fine di impedire loro di raggiungere il territorio europeo e di esercitare il diritto di chiedere protezione internazionale».

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Del resto, suona curioso puntare a “migliorare” le condizioni dei detenuti, senza un’attività di controllo esercitata in loco da personale italiano (espressamente vietato dall’Aics per ragioni di sicurezza) e senza che l’erogazione delle prestazioni sia condizionata all’impegno del governo di Tripoli a porre rimedio alle criticità. Come? Per esempio, suggerisce l’Asgi, con più investimenti per il mantenimento dei detenuti, cui spettano razioni alimentari da non più di un euro al giorno, l’ampliamento dei locali, «pericolosamente sovraffollati e con scarsa luce e ventilazione», e una vigilanza più stringente sugli abusi fisici commessi anche su donne, bambini e malati. La verità, secondo i ricercatori, è un’altra. «L’inadeguatezza delle risorse stanziate, l’illegittima e arbitraria detenzione e l’assenza di meccanismi di prevenzione sugli abusi - osservano - non paiono ascrivibili a un’impossibilità oggettiva del governo libico, come asserito nei bandi, ma a una sua precisa scelta politica, e si pongono in contrasto con gli obblighi internazionali della Libia di proteggere i diritti fondamentali degli individui di cui ha assunto la custodia».

Intanto, l’Italia paga e lo fa anche a fronte dell’«approssimazione dei rendiconti contabili di alcune Ong» e nonostante le perplessità sul «corretto impiego del denaro pubblico» che la gestione dei centri, per lo più lasciata a milizie armate svincolate da supervisione giurisdizionale, non può non suscitare.

Il rapporto ha esaminato i contributi apportati in particolare ai centri di Tajoura, Tarek al Sikka e Tarek al Matar, tutti nelle vicinanze di Tripoli. Nell’elenco figura, tra gli altri, Nasr di Zawiya, gestito dal clan cui afferisce il trafficante Bija e teatro delle violenze recentemente accertate da una sentenza del tribunale di Messina. Ci sono pure Al-Khoms e Souq al Khamis, che nel 2019 il segretario generale dell’Onu ha descritto come “agghiaccianti” e definito «paradisi per la tratta di esseri umani, il traffico di migranti e le sparizioni forzate».

E allora, a giudicare dalla tipologia degli interventi, tra creazione di presidi medici e igienici, riabilitazione di sistemi idrici e supporto psico-sociale, e dalla quantità di beni inviati, tra forniture di generi alimentari, medicine, vestiario, coperte e giochi, quella italiana pare una gigantesca opera umanitaria. Assai diversa la conclusione dell’Asgi, critica con la logica stessa dei bandi. «Il rischio - ammonisce - è che, agevolando il funzionamento dei centri, si fornisca un contributo causale ad azioni illegittime, presenti e future, imputabili direttamente al governo libico o, comunque, ai gestori dei centri».

Borhan Loukasi, il diciassettenne etiope che nell’abbraccio del marinaio siriano Alì è diventato l’icona della Pietà nel Mediterraneo, arrivava da uno di quei centri di tortura. La gamba gliela avevano spezzata là.