La nostra scelta di esternalizzare la frontiera e legittimare e finanziare la fantomatica Guardia Costiera libica ha ottenuto un unico risultato: i trafficanti prendono soldi sia dai migranti che dai governi europei. Pensare che adesso i centri di detenzione possano chiudere è quindi una pura illusione

Migranti riportati a terra dalla Guardia costiera libica a Khoms
È il 4 aprile del 2019 quando Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, visita Tripoli e un centro di detenzione della capitale libica. Si dichiara ”scioccato” dal livello di sofferenza che ha visto, udito, toccato con mano. Le dichiarazioni che seguono la sua visita sono severe: «Quello che accade in questi centri non è solo responsabilità della Libia, ma dell’intera comunità internazionale». Aggiunge: «È molto difficile sostenere che lo sbarco in Libia sia uno sbarco in sicurezza».

Nelle stesse ore in cui il segretario Onu visitava il centro di detenzione per migranti, il generale Khalifa Haftar, dopo aver spostato uomini e mezzo a sud di Tripoli, attaccava militarmente la città, facendo ripiombare il paese nella quarta guerra dal 2011, l’anno della rivoluzione. Della rivoluzione sospesa.

Una concomitanza che ha poco a che fare col caso, e molto di più con lo scollamento tra la politica fatta di tentativi di negoziazione internazionale, photo opportunity, accordi bilaterali, visite di stato e il vero potere libico: le armi. Haftar attacca Tripoli nonostante la presenza di Guterres, o, forse, proprio in virtù della presenza di Guterres. È la fotografia dell’impunità libica.

Passano cinque mesi. È settembre. Le Nazioni Unite pubblicano un rapporto dettagliato in cui accusano apertamente autorità locali e statali libiche del coinvolgimento nella tratta di esseri umani. Il rapporto segnala anche come il modello di business si adatti all’evolversi del conflitto. Significa che, non importa se ci sono aree segnate dai combattimenti e poco importa anche chi sieda nei ministeri, le milizie che gestiscono il traffico troveranno il modo di mettere le mani sul lucroso giro di soldi intorno ai centri di detenzione.

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Le Nazioni Unite dicono anche di più, in quel rapporto, dichiarano infatti di essere allarmati che gruppi armati cerchino di ottenere legittimità, fingendo di sostenere gli impegni contro il traffico di uomini con il «solo obiettivo di ricevere assistenza tecnica e materiale dall’estero».

Passano altri sei mesi, è febbraio 2020, l’Italia rinnova automaticamente il Memorandum di intesa sottoscritto nel 2017, il protocollo con cui l’Italia si è impegnata a finanziare i centri libici e a fornire sostegno alle autorità per il contrasto all’immigrazione irregolare, di nuovo senza passare dal Parlamento e la Commissaria dei diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, in una lettera chiede al ministro degli Esteri Luigi Di Maio di «sospendere le attività di collaborazione con la Guardia costiera libica». Mijatovic invita il governo italiano a «riconoscere l’attuale situazione in Libia e definire il tempo che necessariamente occorrerà affinché eventuali cambiamenti proposti con il nuovo accordo sull’immigrazione abbiano un impatto». Come a dire: verificate che le garanzie promesse corrispondano a verità, che gli impegni presi si traducano in un ripensamento complessivo delle leggi che in quello stato inquadrano il fenomeno migratorio e poi - casomai - continuate a foraggiare le istituzioni libiche.

Nel frattempo, scrive ancora la Commissaria, bisognerebbe sospendere le attività di collaborazione con la guardia costiera che implichino il ritorno in Libia delle persone intercettate in mare, lo scrive - sottolinea una volta ancora - alla luce della «moltitudine di prove delle gravi violazioni che subiscono». Moltitudine di prove, scrive la commissaria, non voci, o indiscrezioni. Moltitudine di prove.

Di Maio risponde con prontezza, dicendosi consapevole che l’accordo vada migliorato, ma che la diminuzione delle morti in mare sia la prova che quella del Memorandum è la direzione giusta da seguire: «non possiamo disimpegnarci», dice, aggiungendo che è necessario garantire la protezione di migranti e richiedenti asilo e rimpiazzare il sistema dei centri con nuove «formule che aderiscano ai principi dello stato di diritto, confidando - conclude - che un accordo emendato possa essere raggiunto tempestivamente».

Sono passati mesi, il Memorandum si è automaticamente rinnovato così come le visite ufficiali, le photo opportunity, e nonostante le promesse di modifica e i tavoli della commissione bilaterale Italia-Libia riuniti a Roma, l’accordo emendato non è ancora stato raggiunto. È con queste premesse che il 16 luglio la Camera dei Deputati ha votato il rifinanziamento della missione in Libia. Quattrocentouno sì, 23 no, un’astensione e un caso politico: il Pd, nonostante l’Assemblea del partito, lo scorso 25 febbraio (proprio sulla scia del rinnovo del Memorandum) avesse espressamente dato parere contrario al rinnovo degli accordi, ha sostenuto in aula, con poche eccezioni, il rifinanziamento. 58 milioni di euro, di cui 10 alla missione bilaterale di supporto alla Guardia costiera Libica, tre milioni in più dello scorso anno.

Inoltre quest’anno, membri della Guardia di finanza e dei carabinieri saranno impegnati nella costruzione di un cantiere navale e una scuola nautica in Libia, progetti su cui al momento non è dato avere ulteriori informazioni. A conti fatti, dalla firma del Memorandum a oggi, i fondi stanziati dall’Italia per la Guardia costiera libica hanno raggiunto la cifra di 22 milioni di euro.

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Nel giorno in cui la Camera votava il rifinanziamento della missione, la ministra degli Interni Luciana Lamorgese era a Tripoli a rafforzare la collaborazione per il contrasto all’immigrazione, sul piatto altri 30 mezzi per il controllo delle frontiere terrestri. «L’Italia vuole imprimere un’accelerazione alla collaborazione con la Libia - ha detto la ministra - sempre nel rispetto dei diritti umani e della salvaguardia delle vite in mare in terra». Lamorgese ha sottolineato l’esigenza di evacuare i centri di detenzione «attraverso corridoi umanitari gestiti e organizzati da Ue e Nazioni Unite». Dalla firma del Memorandum, nel 2017, tutti i governi hanno usato la presenza delle Nazioni Unite in Libia come alibi.

Il messaggio implicito era ed è: se c’è l’Onu possiamo migliorare la condizione dei migranti e dei richiedenti asilo in Libia, se c’è l’Onu possiamo accelerare i reinsediamenti e i corridoi umanitari. I numeri, però e come spesso accade, raccontano un’altra storia.

Dal 25 febbraio, causa Covid-19, l’Italia ha bloccato i voli, ma nel 2019 i corridoi umanitari dalla Libia hanno riguardato 393 persone verso l’Italia, i reinsediamenti, in tutta Europa, 510 persone, di cui 16 in Italia. Funzionari di Oim, l’Organizzazione mondiale delle migrazioni, di base a Tripoli, dichiarano che ci siano al momento 2.500 persone in attesa di essere rimpatriate, e che certo la situazione si è inasprita a causa dell’epidemia, ma anche prima dell’epidemia il rapporto con le istituzioni libiche «non era sempre collaborativo».

Perché le leve politiche europee hanno poco impatto, ma soprattutto perché, per dirlo ancora con la voce di chi lavora sul campo «dietro ai centri ci sono le milizie, quindi soldi e criminalità, cioè l’unica lingua con cui in Libia si gestisce il fenomeno migratorio: il guadagno».

Ecco perché è inverosimile chiedere e sperare di ottenere la chiusura e il superamento dei centri di detenzione. Perché intorno a quei centri si muovono due flussi costanti di denaro: quello delle persone migranti che vogliono a qualsiasi costo lasciare il paese e vengono intercettati e riportati indietro dalla Guardia costiera Libica, e quello dei finanziamenti europei che hanno reso quei luoghi di abuso una macchina di denaro. Un bancomat.

Ecco le conseguenze a lungo termine di aver scelto di esternalizzare la frontiera, delegare i respingimenti a un’istituzione che l’Italia ha contribuito a legittimare, e allontanare lo sguardo: oggi i migranti non pagano solo per lasciare il paese. Pagano anche per entrare nei centri. Perché sperano di essere portati via in sicurezza, portati via dalle Nazioni Unite. Che però continuano a denunciare che la situazione nel paese nordafricano, anziché migliorare, «continui a deteriorarsi» (Federico Soda, capo Missione Oim in Libia).

Mentre scriviamo le truppe di al-Sarraj e Haftar si stanno muovendo intorno alla città contesa di Sirte, nella zona della mezzaluna libica, per intenderci intorno ai pozzi di petrolio, all’oro del paese. La Turchia ha riaffermato il totale supporto politico e militare al governo di Tripoli e l’Egitto ha votato a favore dell’intervento militare in Libia. Si sta preparando una nuova guerra, che altro non è che la continuazione della precedente per la conquista di Tripoli, che era a sua volta la continuazione di quella del 2018. E così via.

Nelle stesse ore a Zintan, a sud ovest di Tripoli, un gruppo armato ha assaltato il centro di detenzione di Dahr el-Jabel, dove sono rinchiuse 600 persone. Molte di loro avevano cercato di fuggire dal paese e sono state riportate indietro dalla Guardia Costiera. Il gruppo armato, la milizia, ha attaccato la struttura con lo scopo di prelevare i migranti e trasferirli nelle strutture non ufficiali di detenzione.

Il direttore di Dahr el-Jabel la mattina dopo l’attacco ha dichiarato che né lui né il suo staff sono in grado di garantire la sicurezza delle persone in detenzione. Dahr el-Jabel è uno degli undici centri di detenzione ufficiali gestiti dal ministero dell’Interno libico. Quelli in cui dovrebbe «essere garantito il rispetto dei diritti umani e la tutela delle persone», per dirla con le parole del ministro Di Maio. Al momento nel centro di detenzione scarseggiano acqua e cibo. Le armi no, quelle in Libia non scarseggiano mai.