
Alle 20.43. meno di tre ore prima, l’Ansa aveva battuto la notizia più importante del giorno: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte arrivato al Quirinale per dimettersi. La conclusione della giornata di inizio della crisi d’agosto, con la corrida nell’aula del Senato tra Conte e il suo ministro dell’Interno Matteo Salvini, con i ruoli annunciati alla vigilia capovolti. Il torero leghista finito come un toro stordito, doveva matare e fu matato dall’avvocato-premier, che invece era entrato a Palazzo Madama come vittima sacrificale e ne uscì come l’ipotetico condottiero di una nuova maggioranza. In mezzo: bacetti, pacchette, faccine, mossette, stilettate, gli scambi di insulti a colpi di rosari della Madonna di Medjugorje e di medagliette di padre Pio, le sfide incrociate.
Matteo Renzi che gridava a Matteo Salvini: «Ti sfido in qualsiasi collegio e ti batto ovunque», e l’altro Matteo che gli rispondeva: «Dove vuoi!». Lo spingersi delle natiche ministeriali per occupare - non metaforicamente - le poltrone, i banchi della claque senatoriale tutta al maschile, una curva da stadio. I corpi dei senatori spostati, da uno scranno all’altro, mentre a centinaia di chilometri di distanza, ma pur sempre nello stesso Paese, i poveri corpi alla deriva, accalcati, assetati, bruciati ruggivano nell’attesa di un porto sicuro.
Dopo è cambiato il mondo: il covid, il lockdown, la pandemia, lo stato di emergenza. Eppure, giovedì 30 luglio, un anno dopo quel giorno spartiacque per la politica italiana, tutti i protagonisti si sono ritrovati nella stessa aula del Senato, solo un po’ cambiati: Salvini il toro matato, il piffero suonato, nei panni dell’imputato, Renzi ancora una volta ago della bilancia, come un’estate fa ma fuori dal Pd, a capo dei diciotto senatori decisivi per la maggioranza, di cui fa parte da qualche settimana anche il senatore Vincenzo Carbone, transfuga di Forza Italia, legato al clan dei Cesaro, padroni del partito berlusconiano in Campania, oggi in difficoltà.
Il voto sull’autorizzazione a procedere per l’ex ministro dell’Interno sul blocco della Open Arms riporta l’orologio un anno indietro: il cambio di maggioranza, il secondo decreto sicurezza che fu l’ultimo provvedimento votato da Lega e M5S insieme nel governo, la questione immigrazione che pesa sul Pd e sulla sinistra tutta al governo come una cattiva coscienza. Nessuna discontinuità sul capitolo più doloroso e vergognoso del governo Conte uno, quello che richiedeva il massimo della distanza dalla maggioranza precedente. La sconfitta politica più evidente della segreteria di Nicola Zingaretti, per usare l’aggettivo speso dall’ex ministro Marco Minniti (Il Foglio, 25 luglio): «C’è un’evidente correlazione tra immigrazione e Covid».
Il deja-vu inchioda prima di tutto Salvini. Il Capo della Lega, in un anno, non è riuscito a trovare un argomento buono per rovesciare chi lo aveva rovesciato, per ribaltare il ribaltone. Assomiglia al dinosauro della tavola di Makkox sull'Espresso di questa settimana: al di là del suo destino giudiziario più o meno fortunato, appare come un leader invecchiato, un bronzo che risuona a vuoto negli interventi al Senato, un aspirante al suicidio politico. E si trova in un partito in cui il solo Luca Zaia in Veneto sembra reggere la prova difficile del post-lockdown. La vicenda di Attilio Fontana, il presidente della regione Lombardia, sembra ripercorrere i vizi che hanno inquinato la vita interna della Lega negli ultimi anni, a partire dal tramonto di Umberto Bossi nel 2012 dopo l’inchiesta sul tesoriere del Carroccio Francesco Belsito. I conti esteri, in Svizzera e alle Bahamas: tutto legale, certo, ma imbarazzante per gli alfieri del sovranismo almeno quanto lo furono i diamanti in Tanzania dei ruvidi padani. Il familismo amorale: l’appalto della regione Lombardia all’azienda del cognato del presidente, ritirato dopo che la notizia era stata diffusa, i trust della mamma. Il provincialismo: la ricca Varese che in mano ai capi della Lega assomiglia tanto ai feudi dei notabili meridionali della Prima Repubblica, quella che gli elettori della prima ora giuravano di voler cancellare. E poi le smentite, le mezze verità, le bugie per approssimazione successiva man mano che la stampa o la magistratura procedono con il loro lavoro.
Minimizzare, sminuzzare, polverizzare tutto, come fece Matteo Salvini un anno fa, sempre in questa stagione, a proposito dell’inchiesta Russiagate, anticipata dall’Espresso ben prima della magistratura, così come è avvenuto sulla squadra dei commercialisti che custodiscono i conti della Lega salviniana, anche loro ora nei guai giudiziari. È l’altro volto dei sovranisti, in ginocchio a omaggiare gli uomini di Vladimir Putin in cambio di rubli e petrolio, come fece all’hotel Metropol il prode Gianluca Savoini, o scudati oltreconfine, come nel caso del governatore Fontana. Gli unici per cui valgono i confini, è evidente anche questo, sempre per dirla con Minniti, sono i disperati che sbarcano sulle coste italiane su barchini e barconi, nonostante le denunce delle organizzazioni internazionali, come scrive Francesca Mannocchi, o attraversano la frontiera Est tra Italia e Slovenia, per essere ricacciati verso la Croazia, lo raccontano nel loro reportage Floriana Bulfon e Alessandro Penso. Riemergono così le due frontiere che sono la ricchezza e la maledizione dell’Italia, la frontiera Est-Ovest e quella tra il Nord e il Sud del Mediterraneo, che motivarono agli occhi di mandanti e esecutori gli assassini politici più efferati negli anni Settanta e Ottanta, ne riparla Paolo Biondani con una seconda puntata della sua straordinaria inchiesta sulla strage della stazione di Bologna di quarant’anni fa.
Il governo Conte cominciò a nascere nella notte dello sbarco dell’Open Arms, oggi su quelle frontiere si gioca un pezzo della sua credibilità e della sua nobiltà. È in discussione l’identità il Pd di Zingaretti e di tutta la sinistra che si è accampata nel recinto ministeriale. Sull'Espresso di domenica Susanna Turco ripercorre questo anno di immobilismo, di promesse mancate e infine tradite. Il ritratto della geometrica impotenza che paralizza il vertice del partito erede della sinistra italiana. Mentre i suoi strateghi continuano a ripetere che non ci sono alternative a questo governo, questa maggioranza, questa politica. È l’eterno tic della sinistra italiana post-comunista, un tempo esibito da Massimo D’Alema, oggi ereditato dall’ispiratore del Pd in remoto Goffredo Bettini: l’Italia è un paese di destra, per andare al governo bisogna dividere la destra e affidarsi a un loro esponente, perché la sinistra è impedita a governare con le sue idee, le sue bandiere, i suoi uomini e donne. Ieri c’era l’alleanza con la Lega di Bossi - costola della sinistra, disse D’Alema - contro Forza Italia, poi con Gianfranco Fini contro Silvio Berlusconi, oggi il Pd è con Luigi Di Maio contro Salvini, e con Berlusconi contro gli eredi di Bossi e Fini, ovvero Salvini e Giorgia Meloni. La tattica politica e parlamentare è essenziale in politica, ci mancherebbe. Ma a questi incontri la sinistra da decenni arriva senza un suo progetto, una sua visione del mondo. Sono appuntamenti al buio.
È stato questo il filo che ha unito lunedì 27 luglio tutti gli ospiti della seconda serata pubblica dell’Espresso al Circo Massimo di Roma, in una lunga maratona di parole, di immagini, emozioni, ragionamenti, analisi, impegni (tutto disponibile in rete). Paolo Gentiloni, già presidente del Consiglio e presidente del Pd, oggi commissario europeo all’Economia, e Elly Schlein, già europarlamentare Pd e poi di Possibile, oggi vice-presidente della regione Emilia Romagna. Massimo Cacciari e le sue inquietudini intellettuali che i lettori dell’Espresso conoscono bene e che Massimo ha raccolto nel suo ultimo libro “Il lavoro dello spirito” (Adelphi): «La crisi della rappresentanza si accompagna al dilagare dell’idea della possibile identificazione tra governo e opinione pubblica», con la conseguente scomparsa e eliminazione di tutti i corpi intermedi. E poi gli effetti del cambiamento climatico in Italia con Stefano Liberti e Marco Cattaneo, Aboubakar Soumahoro e gli Stati Popolari, Lucia Ghebreghiorges e la battaglia per i diritti di cittadinanza dei nuovi italiani. E infine il legame più imprevedibile e sorprendente, quello tra Sami Modiano, il novantenne testimone di Auschwitz, insignito dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e Gloria Napolitano, 17 anni, che ha partecipato al BlackLivesMatter di Torino e coltiva la memoria della nonna Elena Foa Recanati, anche lei deportata dai nazisti.
È toccato a lei, ragazza del nuovo secolo, tagliare il velo sottile di ipocrisia tra i non-privilegiati, che sono facili obiettivi degli imprenditori politici del razzismo, e i privilegiati, che appoggiano le minoranze, che si offrono per portare la voce degli invisibili ma che in questo modo finiscono per riaffermare il loro protagonismo. Establishment e società, partiti e movimenti, testimoni individuali e la comunità di un giornale sono espressioni di un riformismo diverso da quello degli anni precedenti. Per due o tre decenni riformismo è stato per la sinistra fare bene quello che la destra faceva male o non sapeva fare affatto: su questo metro si misurava la capacità di una classe dirigente di essere aderente allo spirito del tempo. Oggi il riformismo può essere il pragmatismo fine a se stesso: essere al governo per non essere nulla o adattarsi alle situazioni come la forma dell’acqua di Andrea Camilleri, modello Conte. Oppure il riformismo può raccogliere l’opportunità rappresentata dalla tragedia della pandemia per riscrivere un’agenda una tavola dei valori all’altezza del nuovo secolo che ormai ha già percorso un quinto del suo cammino. E allora, prima o poi, si riproporrà l’esigenza di avere una cultura politica, un modello organizzativo, una rappresentanza sociale, un leadership e una classe dirigente. Quello che manca, quello che serve. Il ruolo di un giornale come l’Espresso è anche questo: continuare a cercare.