Dopo aver attraversato tra mille sofferenze il deserto e il mare per venire in Italia, ha deciso che la sua missione era evitare lo stesso destino agli altri. E ha iniziato a costruire un'alternativa coltivando un orto

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Chi nasce e vive a Tambacounda ha un unico sogno: raggiungere l’Europa. Dal Senegal, alla Libia. Dalla Libia, all’Italia. Il grande viaggio: seimila chilometri. Le speranze sono tante, forse troppe. I rischi non vengono presi in considerazione. La povertà fa più paura. A Tambacounda non esiste l’elettricità. I villaggi sono insediamenti rurali con piccole capanne. Il fango copre i campi da calcio improvvisati dove i ragazzi trascorrono le giornate.

Tambacounda è uno dei territori più arretrati del Senegal, dorso occidentale dell’Africa subsahariana, a ovest confina con il Gambia, a est con il Mali. «L’Europa è il nostro paradiso. Qui non ci sono prospettive future. Viviamo ingannando il tempo». La voce di Seny è ferma. Non sembra avere 28 anni. È partito quando ne aveva 20. È tornato nel 2016. «Ma non dobbiamo scappare. Dobbiamo lottare».

Seny infatti ha deciso di lasciare l’Italia e di tornare a casa. Per una scommessa: garantire un futuro ai suoi coetanei e a chi ancora vuole fuggire. «Insieme all’associazione Don Bosco, stiamo costruendo orti nei villaggi di Tambacounda. Insegniamo ai ragazzi come poter coltivare la terra, come prendersi cura della propria famiglia senza dover tentare la fortuna in Europa».

Fino a ora Seny ha coordinato e seguito la progettazione di cinque orti. In tutto è riuscito a coinvolgere una trentina di persone: donne, uomini, ragazzi. Chiunque voglia contribuire alla rinascita di una regione abbandonata all’attenzione delle associazioni di volontariato. L’obiettivo è far in modo che il paese sviluppi una propria economia, anche se di semplice sussistenza. «Non possiamo più contare soltanto sui soldi che i migranti spediscono ogni mese ai propri familiari», spiega Seny.
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Si parte per se stessi e per chi rimane. Molti senegalesi riescono a comprare beni di prima necessità grazie ai guadagni di chi ha attraversato il Mediterraneo. Nel 2017 dall’Europa sono stati spediti quasi 2 miliardi di euro: il 13,7 percento del Pil del paese. Più di 300 milioni provenivano dall’Italia. Rispetto agli altri Stati africani, nonostante le guerriglie tra le forze locali, il Senegal è uno dei territori più stabili a livello politico ed economico. «Il problema è che tutti gli investimenti gravitano intorno alle città; i villaggi come Tambacounda, essendo lontani dal centro e poco sviluppati, non vengono presi in considerazione», accusa Seny.

Nelle zone rurali due abitanti su tre vivono in povertà; a Dakar, la capitale del Paese, uno su quattro. Pochi ragazzi, in campagna, frequentano la scuola; molti, spinti anche dalle famiglie, si affidano agli istituti coranici dove imparano solo a pregare e a chiedere l’elemosina. Nelle regioni più arretrate il 90 per cento dei bambini viene utilizzato come forza lavoro. E non è cambiato molto da quando, nel 2012, le elezioni presidenziali sono state vinte dal democratico Macky Sall.

Riconfermato un anno fa, il 57enne geologo ha promesso di aumentare le infrastrutture e di migliorare le condizioni lavorative. Ha sempre detto di volersi distinguere dal suo predecessore, Abdoulaye Wade, che negli ultimi anni aveva avviato una gestione clientelare dello Stato a beneficio di familiari e conoscenti. Nel 2016 Sall ha indetto un referendum per ridurre il mandato presidenziale da sette a cinque anni. In molti continuano a sperare che durante la sua amministrazione il Senegal possa stabilizzarsi e crescere.

Seny è convinto che «la chiave sia cominciare dalle piccole iniziative: un passo alla volta». Prima di iniziare a costruire orti in giro per Tambacounda, viaggiava per le scuole del paese raccontando ai giovani quanto fosse pericoloso e difficile il viaggio per l’Europa. Qui, a seimila chilometri di distanza dalle molteplici notizie di naufraghi e dispersi, la percezione di cosa succede in Libia e nel Mediterraneo è molto più labile: «Le persone non si rendono conto». Seny era andato via dal Senegal perché non voleva sottostare ai dettami che la sua famiglia desiderava imporgli. «Io quella donna non l’amavo», spiega. Ha racimolato un po’ di soldi ed è partito per la Libia. «Conoscevo un amico che lavorava lì».

Ha trascorso con lui alcuni mesi. Poi è dovuto scappare: «Un gruppo di banditi ha distrutto il negozio del mio amico. Lui è morto durante la rapina, io sono riuscito a nascondermi. Avevo paura, volevo soltanto andare via». È il 2013: il colonnello Gheddafi ha perso il controllo del territorio e Tripoli, nonostante le elezioni libere del 2012, attraversa una guerra civile senza fine. Seny cerca un trafficante che possa aiutarlo a lasciare il paese. Chiede di poter tornare a Tambacounda, nel suo villaggio, ma la tratta dalla Libia al Senegal non esiste. «Potevo soltanto andare in Europa». Seny accetta, paga 500 euro e si imbarca. Attraversa il Mediterraneo.

Racconta: «Il viaggio è durato cinque ore. Avevamo un solo gommone, eravamo 97. Una ventina di noi non ce l’hanno fatta. Accanto a me sedevano donne, bambini. È stato tremendo». È sbarcato a Lampedusa. Ricorda il giorno esatto, nonostante la misura del tempo fosse sbiadita: «Il 25 ottobre del 2013». Trascorre un anno e mezzo nel centro di accoglienza di Castellammare del Golfo. Aspetta che la sua richiesta d’asilo sia valutata. Una volta ottenuta la protezione internazionale, viene trasferito ad Aidone. «Qui ho conosciuto l’associazione Don Bosco e ho iniziato una nuova vita. Mi hanno accolto e aiutato».

Impara l’italiano, si iscrive a corsi di formazione. «In Senegal avevo frequentato le scuole medie, ma in Italia il mio diploma non era riconosciuto. Me ne sono fatto una ragione e ho ripreso a studiare». Comincia un processo di integrazione che per la maggior parte dei migranti rimane soltanto un miraggio. Dice di essere stato fortunato. «Quando sono andato via dal mio Paese, non avevo idea di che cosa volesse dire chiedere aiuto all’Europa. Pensavo fosse più facile. Non sapevo di non essere il benvenuto. Molte cose le ho scoperte con il tempo, stando qui».

In quegli anni arrivavano moltissimi senegalesi nel centro di accoglienza dell’associazione Don Bosco. Mancavano mediatori e traduttori. Seny decide di dare una mano, inizia a fare da interprete. L’associazione Don Bosco decide di assumerlo a tempo indeterminato come mediatore culturale. Seny ottiene un permesso di soggiorno per motivi lavorativi. «Parlavo con le persone, gli spiegavo perché erano lì, cosa dovevano fare. Alcuni erano spaesati», aggiunge.

A ogni nuova storia che gli veniva raccontata, si convinceva sempre di più che il problema dell’immigrazione potesse essere risolto soltanto alla radice. «Bisogna dare un’alternativa a chi desidera fuggire», ripete. Questa volta scandisce ogni parola lentamente. Ha paura che la poca connessione e i rumori di sottofondo disturbino la conversazione. Vuole che la semplicità del suo messaggio non venga perduta. L’impegno e la costanza di Seny sono la concreta realizzazione di quell’“aiutiamoli a casa loro” che la politica utilizza per giustificare le inefficienze del sistema d’accoglienza italiano. Poco importa se si tratti di destra o sinistra.

«Basterebbe veramente poco: servono fatti non parole», accusa Seny. L’idea di tornare in Senegal per fermare la partenza di migliaia di giovani è nata quasi per caso. «Mi hanno chiesto: torneresti a casa? Io ho risposto subito di sì, non aspettavo altro». Dall’Italia al Senegal, dal Senegal all’Italia. Seny ha incominciato a viaggiare. Stava un mese o due e poi tornava dai suoi colleghi dell’associazione Don Bosco. Quando ne parla, quasi si commuove: «La prima trasferta è stata nel 2016. Siamo andati a sentire che cosa pensassero gli abitanti di Tambacounda del nostro progetto agricolo. È stato stranissimo rivedere il mio villaggio».

Nel 2017 si è trasferito definitivamente in Senegal. «Dopo gli incontri nelle scuole, abbiamo iniziato facendo corsi di formazione per i ragazzi. Ci occupavamo di agricoltura, artigianato, turismo», ricorda. Poi è arrivato il primo orto, a Wassadou. «Abbiamo scelto questo villaggio perché da qui partono moltissimi migranti. Volevamo dare un segnale». L’orto si estende su un terreno di un ettaro. Per la sua costruzione, sono stati installati tre pannelli solari che garantiscono l’irrigazione a goccia ed è stato scavato un nuovo pozzo. «Riusciamo ad avere un buon raccolto soltanto durante la stagione delle piogge, che dura più o meno tre mesi. Durante il resto dell’anno dobbiamo arrangiarci».

Vivere arrancando per chi cresce a Tambacounda è la normalità. Seny vorrebbe esportare in queste zone tecniche di coltivazione più sofisticate, in modo da garantire un approvvigionamento continuo. È fiducioso: «Ci vorrà un po’ di tempo, ma ce la faremo. Bisogna sperimentare per crescere. In un altro villaggio abbiamo deciso, per esempio, di non far lavorare nei campi solo cinque o sei persone, ma di coinvolgere tutta la popolazione: la frutta e la verdura sono diventate un bene comune da dividere equamente tra gli abitanti».

Su WhatsApp, Seny ha una bellissima immagine del profilo, si intravede una ragazza sorridente. «È mia moglie», commenta. Il matrimonio l’hanno celebrato a Tambacounda. Ora vivono lì, sembrano felici. Seny ha anche ricominciato a parlare con la sua famiglia. È tornato a casa. Come lui, anche altri migranti accolti dall’associazione Don Bosco, stanno facendo la stessa scelta: il grande viaggio, seimila chilometri. Questa volta dall’Italia al Senegal.