I due Stati hanno annunciato di voler uscire dalla Convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza di genere: nel testo ideologie contrarie ai valori tradizionali. «La Convenzione usata come capro espiatorio, ma non esiste nessuna agenda nascosta»

I due Stati hanno annunciato nei mesi scorsi di voler uscire dalla Convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza di genere: nel testo ideologie contrarie ai valori tradizionali. Simona Lanzoni del Grevio, l’organismo che monitora l’applicazione del trattato: «La Convenzione usata come capro espiatorio, ma non esiste nessuna agenda nascosta. Le donne vivono violenza in quanto donne, violenza basata sul genere vuol dire questo».
Un salto indietro di secoli. Fino alla secolarizzazione la religione non solo condizionava ogni aspetto della vita pubblica, ma far leva su una comune identità religiosa era un ottimo strumento di controllo e potere nelle mani dei sovrani. Ora quella visione torna prepotentemente a farsi largo in alcuni Stati dove, nascondendosi dietro lo spauracchio della religione, i governanti combattono la loro battaglia di principio contro il concetto di genere, accusato di voler sostituire la definizione biologica di sesso ed eliminare la differenza “naturale” tra maschi e femmine. Così, mentre ancora si susseguono gli allarmi dell’Onu e dell’Oms sull’aumento dei femminicidi nel mondo a causa del lockdown, due Paesi, quasi contemporaneamente, decidono di rispondere nel modo più paradossale.
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A luglio sia la Polonia sia la Turchia hanno fatto sapere di voler recedere dalla Convenzione di Istanbul, il trattato del Consiglio d’Europa a cui hanno aderito 45 Paesi, sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, in vigore dal 2014. Lo scopo reale è uno solo: ribadire i rapporti di potere storici degli uomini sulle donne per lasciarle confinate in ruoli tradizionali. In attesa delle decisioni ufficiali, è scattata immediatamente la reazione nelle piazze polacche e turche, che nelle scorse settimane sono state invase da fiumi viola, colore simbolo del femminismo, di donne in protesta contro la volontà di “rilegalizzare la violenza domestica” e di cancellare l’unico strumento che “aiuta le donne a restare vive”.

La Turchia firmò la convenzione nel 2011 mentre la Polonia nel 2015. Il trattato è lo strumento giuridico più completo esistente al momento per la tutela dei diritti delle donne e riconosce la violenza di genere come una violazione dei diritti umani fondamentali. Il testo copre un’ampia sfera di reati: la violenza domestica, la violenza sessuale (in primis lo stupro), le mutilazioni genitali femminili, il matrimonio forzato, lo stalking, l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata. In più è il primo strumento giuridico vincolante per gli Stati che, aderendo al trattato, si impegnano a mettere in piedi un quadro normativo che prevenga e punisca i crimini contro le donne.
La volontà polacca di abbandonare il trattato è stata annunciata dal Ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro il 25 luglio. Il sassolino che disturba il ministro e il suo governo, guidato dal partito Diritto e giustizia (PiS), sarebbe la presenza nel testo di “disposizioni ideologiche inaccettabili e dannose” oltre che “anticostituzionali”. Il ministro ha poi asserito, a giustificazione della proposta di ritiro, che la legislazione nazionale sarebbe più che sufficiente a proteggere le donne. Peccato che, secondo il Centro per i diritti delle donne di Varsavia nel Paese ci sarebbero circa 800mila episodi di violenza all’anno e tra le 400 e le 500 donne uccise.
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Subito dopo l’annuncio è arrivata la dichiarazione della segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pej?inovi? Buri?: «La Convenzione è il trattato chiave del Consiglio d’Europa per combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica e questo è il suo unico obiettivo». La segretaria ha tenuto a specificare che: «Se ci sono idee sbagliate o incomprensioni sulla Convenzione siamo pronti a chiarirle in un dialogo costruttivo».

Simona Lanzoni, vice presidente del GREVIO, l’organismo del Consiglio d’Europa che monitora l’applicazione della Convenzione negli stati membri, ha spiegato all’Espresso l’origine dell’incomprensione: «Negli ultimi anni è emersa un'opposizione molto forte alla convenzione utilizzata come capro espiatorio in certi paesi dove alcuni partiti politici, istituzioni religiose e gruppi ultra-conservatori hanno guidato un movimento utilizzando falsi racconti e interpretazioni della Convenzione». Ha poi aggiunto: «Non esiste nessuna agenda nascosta della Convenzione. Le donne vivono violenza in quanto donne, violenza basata sul genere vuol dire questo».

Secondo la destra ultranazionalista al governo e una parte della comunità cattolica polacca invece, la Convenzione viola i diritti genitoriali perché imporrebbe alle scuole l’insegnamento dell’ideologia di genere, in contrasto con la visione di “famiglia tradizionale polacca”. Questa visione è fortemente supportata da organizzazioni e associazioni come Ordo iuris, la fondazione nata nel 2013, che si occupa di formare avvocati esperti in tema di religione, matrimonio e famiglia. In pratica si tratta di un gruppo di pressione cattolico ultraconservatore, molto critico nei confronti di Papa Francesco, tra i primi a dichiararsi contrario ai principi della Convenzione di Istanbul. È lo stesso organismo che nel 2016 aveva elaborato il disegno di legge per rendere illegale l’aborto, in un Paese in cui la legge sul tema è già tra le più restrittive in Europa, dato che lo permette solo in caso di stupro, pericolo di morte per la madre o grave malformazione del feto.

Quella del governo polacco e del suo primo ministro appena rieletto, Andrzej Duda, è un modo di pensare pericolosamente condiviso in Europa da altri Paesi sovranisti, in particolare gli altri tre del gruppo Visegrad, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. Questi Paesi, con motivazioni simili, hanno infatti denunciato la Convenzione: dopo il rifiuto del parlamento ceco e di quello slovacco, a maggio anche Viktor Orbàn e il parlamento ungherese non hanno ratificato la Convenzione, che a loro avviso avrebbe addirittura favorito l’immigrazione illegale vincolando lo Stato a concedere asilo a chi perseguitato per questioni di genere.
Diversa la religione cui si ispira, ma stessa radice integralista alla base delle politiche messe in atto dal partito conservatore di Erdogan, Giustizia e Sviluppo (AKP).

Dopo la proposta shock presentata a gennaio di reintrodurre il “matrimonio riparatore”, con cui si eviterebbe il carcere a chi accusato di stupro, anche sulle minorenni, a luglio Numan Kurtulmus, vice presidente dell’AKP, ha proposto il ritiro della Turchia dalla Convenzione, ritenuta uno “strumento estremamente sbagliato per la società turca”. Di nuovo il riferimento al modello di società tradizionale, questa volta islamica, incentrato sui valori familiari, di fatto usato per limitare i diritti delle donne e ridurle al silenzio. Contro l’ipotesi del ritiro anche in Turchia va avanti dal 22 luglio la protesta delle donne, alimentata dall’ennesima uccisione, quella di Pinar Gultekin, studentessa di 27 anni, il cui corpo è stato trovato in un bosco, strangolata, bruciata e poi gettata in un bidone dall’ex fidanzato.

Secondo l’organizzazione indipendente turca “Fermeremo il femminicidio” in Turchia nel 2019 sono state uccise da partner o familiari almeno 474 donne, già 245 dall’inizio del 2020: nel solo mese di agosto, secondo l’ultimo report dell’organizzazione, sono stati commessi 27 femminicidi. Dopo esser stato tra i primi a ratificare la Convenzione e aver adottato nel 2012 una legge per la prevenzione della violenza contro le donne, in otto anni il Paese ha fatto molti passi indietro. E da allora si sono moltiplicati da un lato femminicidi e violenze, dall’altro le critiche al testo della Convenzione, ritenuto anticostituzionale, contro l’unità e l’integrità familiare.
Quella che il trattato sia una minaccia per le famiglie e le società tradizionali è un’accusa infondata: «La convenzione non regola la vita e le strutture familiari, né implica il rovesciamento di tutte le tradizioni e i costumi» ha spiegato Simona Lanzoni, «semplicemente si oppone a quelle tradizioni che sono discriminatorie, che giustificano il patriarcato e gli atteggiamenti sessisti che impediscono la parità tra i sessi, che sono dannosi per le donne e le mette in pericolo».

In attesa della decisione del comitato esecutivo dell’AKP, che dovrebbe pronunciarsi sul ritiro o meno nelle prossime settimane, l’unica integrità familiare a repentaglio sembra essere quella della famiglia di Erdogan. A difesa della Convenzione infatti si è schierata pubblicamente la figlia del Presidente turco, Sümeyye Erdogan Bayraktar, vicepresidente di Kadem, una delle principali associazioni di donne islamiche impegnate nella lotta alla violenza di genere, mentre uno dei suoi fratelli, Bilal, sostiene il padre e le elite politiche e religiose integraliste che vogliono il ritiro.

Gli Stati che ratificano la convenzione di Istanbul riconoscono che la violenza sulle donne è un problema strutturale nella propria società. Rifiutare il trattato e recedere significherebbe rifiutare il concetto di diritto delle donne di vivere una vita libera dalla violenza e far finta che il problema non esista. E questo le ragazze e le donne turche non vogliono accettarlo. Per questo le associazioni e organizzazioni femminili fanno sapere che le proteste continueranno, facendo rimbalzare in rete l’hashtag “istanbulsözle?mesiya?at?r": “la Convenzione di Istanbul resta in vita”. E aiuta le donne a restare vive.