Non siamo una categoria protetta, non siamo una minoranza, sappiamo tenere un palco. E il fatto che da Sandro Veronesi in poi si stiano alzando voci maschili contro la sottorappresentazione femminile è un bene. Ma per questo ci battiamo da anni. Sarebbe ancora meglio cominciare ad ascoltare noi

Le storie ben raccontate non iniziano dal principio, ma da un evento importante, qualcosa che avviene e cambia le carte in tavola. Per molta gente, negli ultimi giorni, l’evento è stato l’impegno pubblico di Sandro Veronesi a non partecipare più a festival in cui le donne non siano adeguatamente rappresentate: Veronesi, fresco di Premio Strega e già molto popolare, ha usato la sua fama e la sua visibilità per rilanciare il grido di battaglia della manifestazione EROSive, con cui il 18 settembre a Verona Federica Cacciola, Maura Gancitano, Vera Gheno, Michela Murgia, Chiara Valerio e io abbiamo occupato Piazza Bra per mostrare agli ospiti e organizzatori del Festival della Bellezza che l’unico motivo per non avere donne in cartellone era la misoginia e la profonda convinzione che le donne non siano in grado di attirare pubblico a una manifestazione. Per parlare di eros, poi! Disdicevole.

La nostra vicenda, però, non inizia con EROSive, né con le proteste contro il Festival della Bellezza. La sottorappresentazione delle donne è un argomento che le femministe discutono e fanno osservare da anni, e come ogni lotta che riguarda le donne ha avuto e ha tuttora bisogno di sedimentare, di consolidarsi nella percezione collettiva.

Come spesso succede, le cose diventano vere solo quando le dicono gli uomini – non me ne voglia Veronesi, non è un attacco ma una constatazione – bianchi, etero, di mezza età, borghesi.



Con questo non voglio dire che Veronesi abbia fatto male a esporsi. Tutt’altro: ha fatto benissimo, come prima di lui aveva fatto bene il Ministro per il Sud Giuseppe Provenzano a ritirarsi dal convegno a totalità maschile al quale era invitato, e ha fatto bene Massimiliano Coccia a dire che anche lui non accetta più di partecipare a certe sagre della salsiccia, così come il Ministro per l’Università Lorenzo Fioramonti, e Hamid Ziarati, e la lista è in continuo aggiornamento.

Perché la protesta caso per caso non basta più, serve il boicottaggio: le donne non sono una minoranza, non sono una categoria protetta, sono persone con competenza, visione, capacità individuali. Sanno tenere un palco – l’abbiamo dimostrato con EROSive, non vi pare? Da un palchetto di un metro scarso tirato su dalle attiviste di Non una di meno Verona, senza la grandeur dell’Arena intorno, abbiamo fatto ridere e applaudire e giubilare una piazza intera – e sanno parlare di ogni cosa. Per alcuni sarà stata una novità. Per altri no. Ma quando dalla protesta passi alla dimostrazione pratica della falsità di alcune scuse (oltre ai sempreverdi “Non potevano” o “Non le abbiamo trovate” abbiamo la new entry “Problematiche legate al Covid”) non è più possibile chiamarsi fuori.

Le cose importanti da fare ora sono due. La prima è comprendere che i discorsi delle femministe non iniziano a esistere quando se ne occupano gli uomini: e quindi passi se questa volta vi siete accorti di una questione perché ne ha parlato un uomo, ma sappiate che prima ne hanno parlato le donne, e quindi fate prima ad ascoltare noi. Se non lo fate, è perché in fondo la mentalità è sempre quella, le voci delle donne sono rumore bianco e non meritano di essere ascoltate al di fuori dei recinti in cui sono confinate, i festival al femminile, le rassegne rosa. Questo passaggio deve essere accompagnato da una severa autocritica rispetto a quello che diamo per scontato, ovvero che se in uno spazio mancano le donne è perché non esistono donne adatte a quello spazio.

Copertina
Generazione Elly Schlein
4/9/2020
Lo scandalo – perché è uno scandalo – delle recenti amministrative parla chiaro: le donne (e qui intendiamo le donne indipendenti, che si sono costruite una leadership in autonomia e non dipendono dalla benedizione di un capo, non certo quelle che fanno tappezzeria ai loro stessi comizi) sono state assenti dalla corsa per tutte le cariche che contavano. E non è perché non vogliano correre o non amino la politica o siano timide: è perché vengono attivamente escluse dai compagni di partito. Lo ha detto in maniera abbastanza chiara anche Elly Schlein nella bellissima intervista a L’Espresso: la politica italiana è una continua lotta fra galli per il possesso del territorio, e questo, oltre a penalizzare le donne, danneggia anche la politica stessa appiattendola su un solo linguaggio, una sola cultura, un solo modo di fare le cose.

La seconda cosa da fare è capire che qualunque intervento non può essere effettuato con un bilancino starato, in cui metà degli invitati a ogni dato evento sono tutti i maschi bianchi etero anziani che gli organizzatori riescono a infilare in un programma, e il resto sono “quell’altra cosa” che si spartisce lo spazio rimanente. Non è così che funziona e non può essere quello, l’obiettivo finale.

Il riempimento delle caselline a mezzo quota mantenendo una preponderanza di maschi bianchi, che continuano a tenere le redini del discorso e a posizionarsi come sguardo di riferimento non è un obiettivo. Il fine ultimo è fare in modo che l’intero discorso culturale (e politico, per estensione) sia animato da una molteplicità di voci, di contributi, di punti di vista diversi e specifici. Il fine ultimo è spingere tutto il comparto culturale a ridefinire i suoi canoni per accogliere, promuovere e portare avanti le voci di chi è sempre stato messo ai margini, e potrebbe avere più di qualcosa da dire.
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C’è anche una terza cosa da fare, ed è passare all’azione. Ci saranno altri “manel”, altri festival senza donne. Ci saranno altre manifestazioni, elezioni, convegni. Sottrarsi, se si è maggioranza dominante, è un modo. L’altro modo, se si è minoranza, è andargli sotto casa con un palco, un microfono, le dovute misure di sicurezza e delle cose da dire.