È il 1970, e loro sono gli anarchici “della Baracca”. Il soprannome deriva dalla “Baracca”, una villa liberty vicino Reggio Calabria in cui si riuniscono insieme ad altri ragazzi del posto che la pensano allo stesso modo. Nel gruppo, che aderisce alla FAGI (il movimento giovanile della Federazione Anarchica Italiana), sono in cinque: Franco Scordo e Annalise Borth, i più piccoli, hanno diciotto anni; Gianni Aricò, marito di lei, ventidue; Angelo Casile, venti; e Luigi Lo Celso, il più grande, appena ventisei. Vivono in una regione che – come raccontato da Salutiamo, amico (Giunti) – quell’estate è scossa dai moti, dal “Boia chi molla” e dal deragliamento di Gioia Tauro del 22 luglio, per il quale non si parla ancora di strage ma di fatalità. Nonostante questo, però, iniziano a raccogliere prove per cui invece si sarebbe trattato di un attentato dei neofascisti, che insieme alla 'ndrangheta avrebbero piazzato un esplosivo sulla ferrovia. Del resto – sempre secondo quanto scoprono – Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale da tempo si sono infiltrate nelle proteste reggine, per dirottare la piazza verso l'eversione nell'ambito della strategia della tensione. La storia gli darà ragione, ma bisognerà aspettare il 1993.
Intanto, il 26 settembre di cinquant'anni fa partono con una Mini Morris verso Roma: vogliono consegnare questa contro-inchiesta all’esponente della Fai Veraldo Rossi e parlare con l'avvocato Eduardo Di Giovanni (già autore di contro-ricerche su Piazza Fontana), nel giorno della visita dell'allora Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon nella capitale, per la quale è prevista una manifestazione di protesta. Le loro rivelazioni faranno «tremare l'Italia», dice Aricò alla madre poco prima di andare con gli altri. Non arriveranno mai: il viaggio in autostrada termina alle 23.25 all'altezza di Ferentino, a una sessantina di chilometri dalla meta, quando si scontrano con un camion. Tre di loro muoiono sul colpo, gli altri poco dopo. E già il 28 gennaio 1971 l'indagine torna alla procura del capoluogo ciociaro, che archivia il caso come incidente stradale: non verrà più riaperto. Ma diverse cose non tornano; su tutte: perché i documenti sono scomparsi subito dopo il tamponamento?
«Faccio affidamento alla testimonianza di Giacomo Ubaldo Lauro (pentito di ‘ndrangheta, elemento chiave della riapertura dell’indagine su Gioia Tauro nel 1993, nda): si è trattato di un attentato, di un incidente simulato. O meglio: di una strage per coprire un’altra strage», racconta all'Espresso Fabio Cuzzola, autore del libro Cinque anarchici, originariamente edito da Cdse e recentemente ripubblicato da Castelvecchi. Le sue ricerche uniscono discrepanze vecchie e nuove rispetto alla verità giudiziale, per cui anche il responsabile della direzione dell’Antimafia calabrese, Salvo Boemi, nel 2001 aveva definito l’ipotesi di strage «logica e plausibile». Ancora l’autore dell’inchiesta: «A dispetto dell’età, i ragazzi erano scaltri, avevano fra le mani prove che coinvolgevano neofascisti e ‘ndrangheta. All’epoca la mafia in Calabria era relativamente piccola, rurale, e la destra eversiva la utilizzava come manovalanza negli attentati: andò così, il 22 luglio. E l’avevano capito». Non fu difficile ostacolarli, però, perché «come altri anarchici erano tenuti sotto controllo dai servizi segreti (due di loro erano stati anche ascoltati dal giudice per i fatti di Piazza Fontana, nda). Tant’è che, prima di partire, i cinque avevano già spedito una copia dell’inchiesta a Di Giovanni, ovviamente mai recapitata. L’originale, invece, è stata fatta sparire dopo l’incidente».
Appunto, l’incidente. La ricostruzione ufficiale della dinamica, secondo cui la Mini Morris avrebbe impattato il retro del camion fermo sulla corsia di emergenza e con le luci spente, distruggendosi, lascia perplessità. Per Cuzzola, per esempio, «non si spiega perché i faretti posteriori dell’autotreno siano rimasti intatti, con danni piuttosto sulla fiancata. Per non parlare della macchina: sarebbe dovuta rimanere incastrata sotto il camion, viste le dimensioni ridotte, non finire in mille pezzi. E lo stesso vale per i corpi, che sono stati rinvenuti sbalzati in avanti. La mia idea è che l’autotreno abbia schiacciato gli anarchici mentre lo sorpassavano; a quel punto, il loro veicolo è stato speronato di proposito da un’altra vettura». A bordo ci sarebbero stati uomini del noto servizio, l’organizzazione segreta composta da ex ufficiali della RSI, imprenditori e membri della criminalità organizzata per la lotta al comunismo. Persone, dice, legate a Junio Valerio Borghese, il Principe nero già influente nei moti di Reggio Calabria, e che nel dicembre dello stesso anno sarà autore del golpe Borghese. Li avrebbero presi loro, i documenti, perché «dietro l’attentato non c’erano solo ‘ndrangheta e neofascismo, ma proprio i “piani alti”». Gli stessi che, secondo lui, avrebbero poi fatto pressioni per archiviare il caso come incidente.
Ancora particolari ambigui: sul posto, dopo l’impatto, era arrivata la polizia dell'ufficio politico di Roma, non la stradale; il padre di Lo Celso, pochi giorni prima della partenza, aveva ricevuto una strana telefonata da un conoscente della stessa polizia, che gli sconsigliava di mandare suo figlio a Roma. E poi, secondo alcuni ricostruzioni, gli autisti del camion – i fratelli Serafino e Ruggero Aniello – sarebbero stati dipendenti di una ditta di proprietà dello stesso Borghese. È una pista dibattuta: Aldo Giannulli nel suo libro Bombe ad inchiostro ha negato ogni vincolo lavorativo fra i tre, e anche Cuzzola oggi se ne dissocia, limitandosi a dire che «si trattava di simpatizzanti di estrema destra assoldati dagli organizzatori della strage».
Nonostante diverse incongruenze, però, il caso – ritenuto un incidente – non è mai stato riaperto, perdendo attenzione mediatica dopo l’iniziale sollevazione degli anarchici. «E ci credo: non si è riusciti a far scontare la pena per Gioia Tauro, figuriamoci per un attentato così; che interesse può esserci a cercare giustizia, quando si fa di tutto per far cadere in prescrizione i reati?», chiude l’autore delle ricerche. «Ma dopo cinquant’anni, comunque, ci resta la distinzione fra memoria e storia: la prima si fa con i ricordi e le impressioni personali; la seconda, con ricerche, fonti, rigore metodologico». E a volte, come in questo caso, raccontano vicende molto diverse fra loro.
Gianfrancesco Turano nel libro