Da Budapest a Varsavia, fino a Sofia: la Ue non riesce a fermare le derive dei governi autoritari e illiberali 

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In piena estate, negli stessi giorni in cui milioni di cittadini bielorussi scendevano in strada per protestare contro la falsificazione dei risultati elettorali da parte di Aljaksandr Lukašenka, presidente del Paese da 26 anni, anche migliaia di cittadini bulgari erano in strada a chiedere le dimissioni dell’ex vigile Boyko Borisov, primo ministro da 11 anni, accusato dai manifestanti di avere imbrigliato il sistema giudiziario, i media e la polizia del Paese per metterli a servizio di pochi oligarchi, creando di fatto uno stato parallelo. Bruxelles, che pur non brilla in materia di coesione in politica estera, è stata rapida nel convocare un vertice del Consiglio europeo per prendere posizione contro il dittatore bielorusso e dichiarare non valide le elezioni, ma è rimasta completamente silente sulle proteste dei cittadini di uno dei suoi stati membri. «L’incoerenza sullo stato di diritto e i diritti umani è un’enorme fonte di debolezza per la politica estera dell’Unione», sottolinea il tedesco Stefan Lehne, ricercatore del think tank Carnegie Europe a Bruxelles, soprattutto adesso che, con l’uscita della Gran Bretagna a dicembre e le manovre tedesche per rafforzare la sicurezza del blocco, la capitale europea mira ad avere un ruolo più incisivo sulla scena geopolitica.

La Bulgaria non è l’unico Paese europeo ad avere problemi con l’indipendenza della magistratura o della stampa, o ad essere vittima sistematica della corruzione delle sue élite. Come lei anche la Romania, che però dall’anno scorso, con il cambio di partito al governo, da socialista a liberale con Ludovic Orban, ha imboccato un sentiero virtuoso, e soprattutto l’Ungheria e la Polonia, entrambe sempre più lontane dalle democrazie europee.

Nel corso di dieci anni l’Ungheria di Viktor Orbán ha minato l’indipendenza del sistema giudiziario, soppresso la libertà di stampa, reso difficile l’esistenza a minoranze etniche e migranti. In Polonia invece il governo del PiS si è invece concentrato sull’indebolire l’indipendenza del sistema giudiziario, attaccare la comunità Lgb e limitare la protezione delle donne dagli abusi domestici. Andrzej Duda, rieletto presidente della Polonia lo scorso luglio, mira ad aggiungere alla Costituzione il bando ai matrimoni omosessuali, mentre lo scorso luglio migliaia di donne sono scese nelle strade di tutto il Paese dopo che il ministro per la Giustizia Zbigniew Ziobro ha annunciato di voler ritirare la Polonia dalla Convenzione di Istanbul, ratificata nel 2015, che mira a prevenire la violenza contro le donne perché «contiene elementi di natura ideologica che consideriamo dannosi». Il riferimento è alla teoria del genere e al diritto all’aborto.

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2/9/2020
«L’Ungheria e la Polonia mettono seriamente in crisi il soft power europeo da almeno cinque anni», dice da Berlino Daniel Hegedus, fellow del German Marshall Fund per l’Europa centrale: «Nel 2012 o 2013 l’Europa era riconosciuta per i suoi valori democratici e il suo intervento in stati terzi era ben accetto. Adesso molto meno. Da troppo tempo le dinamiche politiche interne hanno permesso che le violazioni di alcuni capi di Stato europei non subissero conseguenze».

Il più abile di tutti a consolidare il potere personale mentre tratta sorridente con Bruxelles è considerato Viktor Orbán, il premier ungherese. Un esempio di natura minore? Esattamente il giorno dopo la creazione dello storico Fondo per la ripresa (Next Generation Eu) da parte dei Ventisette lo scorso 21 luglio, Miklos Vaszily, uno degli uomini d’affari del circolo ristretto di Orbán, che già nel 2014 aveva acquistato il celebre sito Origo per portarlo su una linea pro-regime, ha potuto tranquillamente licenziare il direttore del maggiore sito indipendente ungherese Index, acquistato solo tre mesi prima. Con Szabolcs Dull ha lasciato metà della redazione, portandosi via l’ultimo bastione del giornalismo ungherese indipendente tra l’indifferenza di un’Europa in festa. «La strategia tedesca di aspettare che un governo autocratico si esaurisca potrebbe essere utile in futuro con la Polonia ma certamente non ha funzionato con l’Ungheria, dove Orbán è oramai più allineato con Mosca che con Bruxelles», dice da New York, Ian Brenner, presidente del think-tank Eurasia: «È chiaro che l’Ungheria non dovrebbe essere uno stato dell’Unione».

In realtà per entrambi i Paesi - nel 2017 per la Polonia su iniziativa della Commissione e nel 2018 per l’Ungheria su iniziativa del Parlamento - è stata lanciata la procedura d’infrazione inserita nell’articolo 7 del Trattato di Lisbona, che prevede la sospensione dei diritti di voto del Paese in infrazione ma che, per avere effetti, richiede l’unanimità di voto degli stati membri. Vuoi l’alleanza di ferro tra Varsavia e Budapest, vuoi la riluttanza degli altri Paesi di Visegrad, timorosi che un giorno potrà toccare a loro, l’unanimità non c’è mai stata e la procedura è rimasta da allora lettera morta. «Bisogna capire che l’intero processo decisionale europeo è altamente politicizzato», dice Hegedus: «I governi di Ungheria e Bulgaria fanno parte del partito popolare europeo così come la maggioranza relativa dei Commissari attuali. Finché Orbán non sarà espulso dal Partito popolare, e a questo punto non credo lo sarà, la Cdu tedesca cercherà di trovare un equilibrio e la Germania non spingerà per ottenere l’unanimità in Consiglio. Non è un caso che sull’articolo 7 la vecchia Commissione abbia preso l’iniziativa contro la Polonia, il cui governo non fa parte del Ppe, e non contro l’Ungheria, dove le istituzioni democratiche sono molto più compromesse e non basterebbe un’elezione per riportare lo stato di diritto».

Eppure, proprio questa estate, qualcosa ha preso a muoversi, complice la mobilitazione comune contro le conseguenze economiche della pandemia. «L’Europa è forse l’unica zona del mondo a cui il Covid ha fatto bene, rendendola più forte», nota Brenner: «Il fatto che Macron, Merkel e Von der Leyen siano riusciti a fare approvare un meccanismo di redistribuzione dei fondi da centinaia di miliardi per tutta l’Europa e che lo abbiano legato anche allo stato di diritto è molto promettente. Prima non si poteva sanzionare nessuno senza l’unanimità e invece adesso sarà possibile. È un dato enorme». Il riferimento è all’articolo 23 delle conclusioni del Consiglio europeo di luglio con cui l’Europa ha approvato sia il fondo per la ripresa sia il bilancio settennale. Con parole volutamente vaghe, molto meno stringenti di quelle della versione iniziale, rifiutata da Orbán, si dice che sarà introdotto un regime di condizionalità a protezione del budget e del fondo europeo straordinario, e che la Commissione dovrà proporre delle misure, in caso di infrazioni, che il consiglio potrà adottare a maggioranza qualificata, ovvero con il 55 per cento degli stati membri che rappresentano il 65 per cento della popolazione della Ue.

Ma non tutti sono ottimisti nel breve termine: «Non credo che la nuova regolamentazione che verrà proposta quest’autunno dalla Commissione funzionerà. È vero che in teoria ci dovrebbe essere una maggioranza qualificata ma non credo che la condizionalità tra stato di diritto e fondi sarà introdotta quest’anno perché non è una priorità tedesca», dice Lehne. C’è però chi osserva come la questione della maggioranza qualificata sia stata per la prima volta sul tavolo, un passo in avanti, e come, a partire dall’anno prossimo, dopo l’approvazione da parte dei parlamenti nazionali del budget europeo, potrebbe essere utilizzata non tanto per il fondo straordinario quanto per limitare l’accesso ai fondi strutturali di Paesi come la Polonia, in costante violazione delle regole democratiche della Ue ma prima beneficiaria delle sue risorse comuni. Un controsenso che comincia a dare sempre più fastidio ai contributori netti al bilancio, soprattutto adesso che il debito emergenziale è diventato debito comune. «Sarebbe ora che i “frugali” si assumessero le loro responsabilità», continua Hegedus: «Siccome tutto non si può avere, se continuano a dare priorità alle questioni fiscali per soddisfare le domande di un elettorato che ritiene l’Ungheria o la Polonia Paesi lontani ed esotici, sarà difficile che l’Europa si concentri sulla priorità dello stato di diritto, nonostante gli sforzi continui di Belgio, Lussemburgo e Portogallo».
Non solo. Il pericolo crescente è quello dell’alienazione da parte delle istituzioni europee di quella parte della società civile in Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania e Bulgaria, ma anche in Slovacchia e a Malta, che crede nella forza dei valori europei e che ha scommesso sulla capacità dell’Europa di impedire l’affermarsi di quelle pratiche illiberali e di quei soprusi sistemici comuni al di fuori dei nostri confini, e che è sempre più delusa dall’inazione o dall’inefficacia di Bruxelles.

Nel prossimo autunno la Germania, che fino a oggi ha sostenuto la necessità del rispetto delle regole democratiche senza davvero spingere perché venissero rispettate, avrà la possibilità di dimostrare che è seria, cominciando, in quanto presidente di turno dell’Unione, col mettere l’articolo 7 sull’agenda del Consiglio, dove recentemente non è mai stato discusso. E poi evitando di trovare un compromesso al ribasso sul legame tra rispetto delle regole europee e l’esborso dei fondi. Come ha detto Dimitar Bechev, fellow dell’Atlantic Council, «in gioco c’è l’anima dell’Europa». Sempre che ne abbia una.