Bracciante, sindacalista, ministra. Un percorso legato dalla convinzione della necessità di tessere relazioni. Anche con forze politiche lontane. L'ex responsabile dell'Agricoltura racconta il suo cammino da Di Vittorio a D'Alema a Renzi

Un po’ disperato, come ognuno che getti uno sguardo sullo stato della sinistra italiana in questo centenario della nascita del Pci, Bobo, tramite il suo creatore Sergio Staino, ha scritto a Teresa Bellanova  una lettera d’amore in piena regola, pubblicata su La Stampa: «Vieni con noi, raccogliamo la parte migliore dei tanti che sono intorno al partito… Sono felice che mi hai risposto e mia moglie comunque non ne è gelosa. Baci e ancora baci». Lei ha replicato più o meno così: «Vieni tu qua, nella casa dei riformisti. C’è posto per tutti».

Del resto, il vecchio cuore rosso di Bobo non può che palpitare per una che si racconta così: «La mia posizione all’Inps è stata aperta quando avevo 14 anni. A diciotto i caporali vennero a minacciarmi con le pistole alla Cgil di Brindisi». Quando è diventata ministra qualche cialtrone le ha contestato il titolo di studio (la licenza di terza media). Lei non si è arrabbiata, ha augurato che a nessuna bambina capiti quello che è capitato a lei e ha rivendicato di aver supplito con l’impegno e lo studio in quei luoghi che sono stati la sua vita: il Pci e la Cgil. Lei è Teresa Bellanova, 62 anni, bracciante a quattordici anni, ministra delle Politiche agricole nel Conte-2, presidente di Italia Viva, il partito di Matteo Renzi.

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Altro che avvocati del popolo, altro che abbraccio con i populisti per sentire il calore del popolo perduto. A lei non serve tutto questo: è una che viene dal popolo, una donna che si è emancipata dalla sua condizione attraverso le lotte, lo studio, l’impegno politico e sindacale: «“Il popolo perduto” è un bel titolo per un film di Nanni Moretti. Chi ci dice che il popolo perduto si aggiri tra i 5 Stelle? E se fosse nell’astensione? Se fosse nella Lega? In Forza Italia? Qui non si è perduto solo il popolo. Sono le classi dirigenti della politica ad essersi perdute se credono di intercettare qualche straccio di consenso con operazioni tra vertici dalle basi fragilissime. È necessario tessere relazioni tra “perduti”, ma questo non si può più fare partendo dalle sigle. Non resta che farlo partendo da quella vecchia cara cosa che è la politica. Innanzitutto: chi sei? I tuoi alleati e i tuoi avversari possono celarsi dietro molte più sigle di quante non ne immagini Bettini».

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Nel suo ultimo giorno da ministra, martedì 12 gennaio, al culmine di una giornata di fortissima tensione politica Teresa Bellanova parla con L’Espresso. Quando le chiedo cosa pensi dell’idea del Pd di consegnare a Conte il ruolo di nuovo Prodi risponde così: «Non mi arrischierei a consegnare una storia così densa, problematica, complessa, affascinante e contraddittoria come quella che state raccontando in questa inchiesta e del centrosinistra di questo Paese a chi ha esitato persino a condannare, se non in forma che definire tiepida è già una concessione, i fatti di Capitol Hill. A chi ha definito quello di Trump “governo del cambiamento” alla stregua di quello giallo verde con Salvini. Significa proprio non aver capito niente o molto poco».

Organizzatrice delle lotte contro il caporalato a diciotto anni; sindacalista dei braccianti prima e dei tessili poi; negli anni Duemila in segreteria nazionale della Cgil come responsabile del Mezzogiorno; nel 2006, mentore Massimo D’Alema, approda in parlamento. Nel Pd si colloca nella sinistra e sostiene Bersani, ma oggi Teresa Bellanova è in Italia Viva, una ministra delle politiche agricole capace ancora di commuoversi quando annuncia, dopo l’approvazione della legge contro il lavoro irregolare: «Da oggi lo Stato è più forte del caporalato».

Raccontando la storia di Teresa Bellanova, di come abbia incontrato e cosa sia stato il Pci nella sua vita, mi è tornato in mente quanto scrive Mariuccia Salvati nell’introduzione alla biografia di Alfredo Reichlin (“Alfredo Reichlin, una vita” a cura di Mariuccia Salvati, Treccani editore): «È soprattutto attraverso il prisma delle vite singole e plurali che un’epoca si lascia cogliere come insieme». Senza questo prisma le celebrazioni del centenario della fondazione del Pci che si annunciano copiose, non riuscirebbero a raccontare la complessità della storia che comincia dal tragico errore del ’21.

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Reichlin, forse il più colto e raffinato dirigente del Pci, esponente di quella generazione di giovani appartenenti alle classi alte (tra cui Giorgio Napolitano e Pietro Ingrao) dei quali Togliatti fece l’ossatura del partito nuovo nel 1944, ha avuto un ruolo importante nella formazione della giovane Teresa: «Se penso a figure come Alfredo Reichlin, che in Puglia c’è arrivato nel ’63 e ci è rimasto fino al ’73, o anche a Beppe Vacca, ecco direi che è stata una classe dirigente straordinariamente importante anche per la formazione culturale che ha saputo generare. Intere classi dirigenti si sono davvero abbeverate a quella scuola».

Com’è diventata comunista Teresa Bellanova? «Da piccola, piccolissima. Ero proprio una bambina, ancor prima del lavoro in campagna. Accompagnavo mio padre e mio nonno a diffondere l’Unità. Poi l’ho incontrato nelle assemblee di partito, in sezione; ci andavo con mio padre e mia madre. Quelle sezioni erano veramente luoghi di formazione e di cultura, con le riunioni di sabato pomeriggio, domenica mattina, domenica sera. La lettura, il commento, l’analisi degli articoli sui giornali importanti, L’Unità, Rinascita, il Corriere della Sera. Una grande scuola».

Per la ministra non esistono eredi del Pci, ma lei, sorridendo, rivendica il suo percorso politico attuale legandolo proprio alla sua esperienza di comunista pugliese, la terra di Giuseppe Di Vittorio, il leader della Cgil che ebbe il coraggio di condannare l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, ma anche la terra dell’“école barisienne”, come ironicamente veniva definita l’intellighenzia comunista radunata attorno a Beppe Vacca.

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Nella memoria di Teresa Bellanova quel partito è un impasto di identità e riformismo concreto: «Innanzitutto voleva dire sentirsi forti di una identità, una riconoscibilità, una appartenenza, una differenza portata con orgoglio di cui essere fieri. Il Pci pugliese non è mai stato un Pci settario. Il Pci ti permetteva di capire che la politica è passo dopo passo, che una persona sfruttata non prende i sassi tirandoli addosso agli sfruttatori ma sceglie di cambiare lo stato di cose esistente. Chi dice che il Pci fosse un monolite sbaglia, era fatto di tanti pezzi dove potevano convivere e coesistere pur con tutte le differenze, Ingrao, Amendola, Napolitano: una ricchezza straordinaria. Distante anni luce dalla sterile contrapposizione amico-nemico che io considero un grave impoverimento e che nulla ha a che spartire con la cultura riformista che io invece rivendico come una delle eredità più forti del Pci e di figure come Lama, Berlinguer, lo stesso Reichlin».

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Una lezione cui, come ha scritto all’innamorato Bobo, ritiene di essere coerente: «Per me Italia Viva è la casa dei riformisti. La vita insegna che per rimanere fedeli a sé stessi a volte, se viene richiesto dallo spirito del tempo, bisogna avere il coraggio dei nuovi inizi». Una lezione che rivendica proprio nelle ore in cui Italia Viva viene accusata di irresponsabilità nazionale: «Non vedo altra ragione nel nostro operare che la responsabilità nazionale. Il riformismo che abbiamo l’ambizione di incarnare è questo. La responsabilità nazionale non si misura sulla subalternità a una deriva pericolosa ma sulla qualità della proposta politica. L’esperienza straordinaria ma anche tragica di Enrico Berlinguer ce lo ha insegnato una volta per tutte».

Mario Tronti mi ha detto di essere inorridito dall’idea di Renzi di celebrare il centenario della scissione di Livorno con Tony Blair. Lo farete davvero?: «Forse è una provocazione, ma si tratta di scegliere tra la memoria di un “come eravamo” e l’analisi di un percorso da Livorno all’assunzione di un’ideologia che definirei post-liberale. Questo è quello che è accaduto. A un capo Gramsci ma anche Bordiga; all’altro Blair. In mezzo di tutto, da Stalin a Togliatti, ai vari marxismi italiani ed europei, alle relazioni di Berlinguer con Palme, con Mitterrand e il lungo rapporto con l’Urss che si assottigliava senza mai recidersi, fino alla Bolognina e ai tanti rivoli nei quali si è disperso un monolitismo molto più apparente che reale. Meglio riflettere che celebrare».

Fu D’Alema a scoprirla politicamente e lei oggi è presidente del partito di Renzi che il suo antico mentore definisce l’uomo più impopolare d’Italia che vuole abbattere l’uomo più popolare (Conte). «Mi sfugge il nesso tra politica e popolarità», replica. «Più appropriato sarebbe il nesso tra politica e consenso. Ma non menerei scandalo se una forza politica minoritaria come Italia Viva cercasse di condizionare una maggioranza costituita da forze politiche numericamente superiori ed eterogenee. Intanto ricordo che questo governo non esisterebbe se Matteo Renzi non se lo fosse letteralmente inventato. Con ogni probabilità senza quel “colpo di testa” oggi saremmo governati dall’ultima compagine trumpiana del pianeta, isolati in Europa e nel mondo e con un’aggravante: se il trumpismo negli Stati Uniti ha rischiato la tragedia, qui aveva tutti i numeri per finire in farsa. Quanto alla popolarità mi pare categoria evanescente, impalpabile. Azzarderei: “Della stessa materia di cui sono fatti i sogni”. Ne hanno fatto esperienza Berlusconi, Monti e, ahilui!, lo stesso D’Alema». (4-continua)