La svolta decretata da Achille Occhetto fu un atto politico con grande impatto sui rapporti umani. Con scontri violenti anche sul piano personale. Come ricorda Goffredo Bettini

Goffredo Bettini
Livorno, Gennaio 1921. Tra gli stucchi e gli addobbi del Teatro Goldoni risuona la profezia disarmata di Filippo Turati. Il grande vecchio del socialismo italiano si rivolge ai compagni comunisti che hanno appena abbandonato il congresso contrapponendo il canto dell’Internazionale all’Inno dei lavoratori, compiendo così una rottura anche simbolica tra i socialisti ancora maggioritari ma divisi, confusi, velleitari e i comunisti di Amadeo Bordiga, minoritari settari, dogmatici. Qualche centinaio di metri più là, nel teatro San Marco nel quartiere Venezia, dove oggi sorge un asilo nido, coprendosi con gli ombrelli per la pioggia che copiosamente cade dai soffitti, i delegati della frazione comunista stanno fondando Il PCd’I, sezione italiana dell’Internazionale Comunista. 

Dice Turati: «Fra qualche anno - io non sarò forse più a questo mondo - voi constaterete se la profezia si sia avverata… Se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata… voi sarete forzati, a vostro dispetto - ma lo farete con convinzione, perché siete onesti - a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe». Turati, spiega lo storico Marcello Flores che ha appena pubblicato  “Il vento della rivoluzione. La nascita del Partito comunista italiano” (Laterza) scritto assieme a Giovanni Gozzini, «esprime una previsione che è frutto delle sue convinzioni politiche. I rivoluzionari sono incapaci di governare ma, minacciando soltanto la rivoluzione senza farla, metteranno in moto una reazione violenta. Molto difficile dargli torto, oggi. Ma molto difficile dargli ragione allora».
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 «A far vincere il fascismo fu l’incapacità del socialismo di comprendere e interpretare l’immane tragedia sociale e dargli una prospettiva politica. E questo vale anche per i tempi nostri», dice il filosofo Mario Tronti. «Non accetto che gli eredi del Pci raccontino il ’21 come la vittoria postuma di Turati. Ha gioco facile allora Matteo Renzi che vuole addirittura celebrarla con Tony Blair. Forse noi, i vinti di quella storia,  dovremmo per un volta provare a scriverla dalla parte degli sconfitti e non dei vincitori».

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«Le socialdemocrazie erano allo sbando e votando i crediti di guerra avevano ceduto al nazionalismo, in particolare in Italia i massimalisti spaventarono gli italiani minacciando la rivoluzione senza saperla fare. Il ’17, al contrario, è un lampo che illumina la storia del Novecento, perché per la prima volta mostra possibile il rovesciamento dei rapporti di forza tra chi sta in basso e chi sta in alto. E il ’21, in Italia, è il riflesso di quel lampo. L’Urss, che in seguito degenerò in modo tragico, diventa tuttavia paradossalmente un incoraggiamento formidabile per le lotte anticoloniali, mentre in Occidente la paura del comunismo spinge il capitalismo ad accettare il compromesso socialdemocratico. Il ruolo di riequilibrio dell’Urss, malgrado gli orrori di Stalin, era riconosciuto fino al ’56 dal Psi di Nenni, quanto dal Pci di Togliatti», concorda Goffredo Bettini, principale teorico dell’alleanza organica tra Pd e M5S, promotore di un’area dem che si chiamerà “Le Agorà: socialismo e cristianesimo”.

Bettini a 30 anni è già nella mitica direzione del Pci, poi ispiratore del modello Roma, coordinatore del Pd alla sua fondazione, pupillo di due mostri sacri del comunismo come Pietro Ingrao e Paolo Bufalini (la sinistra e la destra del partito), figlio di quel comunismo romano che fu insieme plebeo e colto, Casa della Cultura e Gobbo del Quarticciolo, un partito borgataro e intellettuale e che forse per questo piaceva a Pier Paolo Pasolini, con il quale, da dirigente della Fgci di Gianni Borgna, Bettini instaurò un intenso dialogo. Per lui il Pci è stato molto più che una scelta politica; piuttosto «un principio ordinatore dell’anima, totalizzante, formativo e spesso duro e crudele».
 
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E questa durezza, come vedremo tra poco, Bettini l’ha conosciuta personalmente. La sua generazione cresciuta con Berlinguer, a differenza di quella dei fondatori e dei togliattiani ha potuto formarsi nella democrazia e dentro un partito in vertiginosa ascesa. E saranno loro, guidati da Achille Occhetto, a sciogliere il Pci. Ma come si diventa comunisti negli anni ’70? «Non lo sono diventato tanto per le letture di Marx, di Gramsci, di Togliatti, oppure dei libri sulla rivoluzione sovietica, Trotsky su tutti,  che leggevo al mare, a Senigallia, immaginando  la Russia degli anni ’20 e ’30, con quelle luci gialle che illuminavano i palazzi di Mosca e San Pietroburgo, dove accadevano fatti che stavano cambiando il mondo. Sono diventato comunista», spiega Bettini, «quando, provenendo da una famiglia borghese e dal contesto del suo ordine protettivo, cominciai a dover camminare da solo e a scoprire la durezza della vita. La politica mi è entrata nel sangue mentre avvertivo il declino inesorabile e malinconico della mia famiglia e della classe sociale che rappresentava. Nel contempo provavo un sentimento di vicinanza con le sofferenze dei più deboli. Forse anche perché l’adolescenza mi fece scoprire le mie fragilità e debolezze. Il Pci, cui aderii a 14 anni mentendo sulla mia vera età, diventò per me una comunità di affetti, la mia nuova casa, abitata soprattutto da persone solide e accoglienti provenienti dalle classi popolari».

Su questa comunità si abbatté come un cataclisma il 1989, Bettini è favorevole allo scioglimento del Pci, ma paga un prezzo molto alto: «La sera prima del Comitato Centrale decisivo mi chiama al telefono Pietro Ingrao, il mio maestro, e mi dice con voce severa: “Goffredo, se voti per il Sì da domani saremo avversari politici», racconta il dirigente dem. In un recente e prezioso volume che racconta la storia del Pci romano (“Il Pci a Roma. Tracce di una storia che parla ancora”. A cura di Enzo Proietti, Edizioni Bordeaux) Bettini ricorda così quel momento: «Con la testa votai sì a quella scelta… ma il mio cuore era nettamente per il No: avvertivo con fastidio la sottovalutazione del significato che il Pci, al di là di quella parola “comunista”, aveva in tanta parte dei lavoratori italiani; in quanto insediamento sentimentale, culturale, sociale, storico, decisivo per la democrazia italiana. Ritenevo inaccettabili le parole persino sprezzanti che furono pronunciate: “bambolotto di pezza”, “atto gioioso e fecondo” (Mussi e Occhetto ndr)».   

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Differenze nel modo di affrontare la crisi del socialismo reale  che erano già emerse, come spiega questo racconto inedito di Bettini: «Quando Occhetto, che era ancora vicesegretario, fece la proposta sulla ricollocazione storica della Rivoluzione d’Ottobre e pose le radici della sinistra non nel ’17 russo ma nella rivoluzione francese, organizzai un’enorme assemblea a via dei Frentani, sede della federazione romana, con una relazione di Mario Tronti che criticò quella formulazione. Il giorno dopo Repubblica dedicò un paginone a questo dissenso e vi fu, poi, un piccolo carteggio tra me e D’Alema: perché io mi lamentavo di essere stato in qualche modo processato dal gruppo dirigente, mentre lui in modo amichevole mi criticava per non aver spiegato a Occhetto il senso della mia iniziativa romana. In verità, ero convintissimo della formulazione di Berlinguer sull’esaurimento della spinta propulsiva dei Paesi del socialismo reale, mentre mi sembrava un po’ confusa l’intenzione di ritornare ai principi della Rivoluzione francese e ridimensionare l’evento del ‘17».  Dai “pizzini” emerge dunque un D’Alema che difende Occhetto, contrariamente alla vulgata ufficiale? «Sì, dicendomi in sostanza: se abbiamo scelto lui come vicesegretario ora dobbiamo andare avanti ed essere leali con lui, per farlo diventare segretario». 

L’89 fu un colpo di maglio anche sulla vita personale di Bettini: molti suoi amici sono per il No, ma la sua lettura “di sinistra” della svolta lo rende inaffidabile per gli occhettiani: «A tutto questo si aggiunse una vera e propria crisi esistenziale. Il Pci rappresentava il mio lavoro, il mio motivo di gratificazione e di impegno umano, la mia famiglia. Crollato quel mondo crollai io stesso in una depressione profonda, mi accorsi che il partito era cambiato, in peggio: la nostra comunità già cominciava a non ricordare la storia delle persone, la loro dedizione, e non rispettava più i momenti di debolezza; i miei furono aggrediti con spietato accanimento. Ebbi circa tre anni di sofferenza e di apnea, mi sono curato, ma alla fine ne sono uscito grazie alla politica che è il solo mestiere che so fare. Era il ’92 e cominciammo a pensare al modello Roma».

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Ma questa è un’altra storia, mentre il centenario cade in mezzo a una sinistra ancora una volta alla ricerca di una bussola: «In questi anni la sinistra ha subito troppo il liberismo e l’egemonia conservatrice», afferma Bettini, «magari chiamandoli riformismo. Che diventa, per questo, una parola totalmente priva di senso, anzi una parola maledetta, perché mal detta. Il vero significato del riformismo progressista è gradualmente cambiare i rapporti di forza nella società. Il Pd è ancora prigioniero di un mancato  chiarimento strategico, ora più che mai necessario tra coloro che agiscono accettando l’egemonia degli avversari e chi invece si orienta con la bussola dell’uguaglianza. Penso che si debba ricostruire un partito che sappia ingaggiare un corpo a corpo con la società per attraversare il malessere e dargli forma, svettando sul magma informe e ribollente che sta sotto la crosta». 

Bettini pensa che tutto questo si debba fare in alleanza strategica con il M5S: «Il Pci romano combatté il “plebeismo” che era un fenomeno molto radicato anche all’interno della sinistra, frutto della composizione sociale della città. Oggi certo è tutto diverso, ma se non attraversi la massa di persone che si sentono perdute, sradicate, indifese, se non hai empatia con la loro sofferenza, se non dai forma al loro rancore, spiani la destra al populismo di destra. Il Pci, quello romano in particolare, seppe tenere insieme l’aristocrazia del pensiero e il popolo in un rapporto intimo che oggi è saltato e che bisogna ricostruire, mentre ora ci si preoccupa di stare sempre e comunque al governo».

È quello che continuate a fare: Il Pd è quasi ininterrottamente al governo dal 2011 senza aver mai vinto un’elezione: con Monti, con Berlusconi, ora con Conte e Di Maio, obietto. «Sul governo non ci possono essere scelte ideologiche, si sta al governo se è utile al paese, altrimenti non ci si sta, non può essere un feticcio»,  dice Bettini e conclude con un richiamo alla nostalgia. «Intendo la nostalgia così come la intendeva Benjamin. Non come rimpianto dei tempi passati. Al contrario come il rimpianto dei sogni, degli ideali e delle convinzioni che hai provato e che sono rimasti inappagati. La nostalgia di ciò che non hai realizzato e vissuto, ma che hai immensamente amato. Il futuro, i mirabolanti progetti dell’avvenire, i programmi salvifici sono il pane quotidiano delle élite intellettuali e dirigenti. Il popolo si muove se intuisce che può riprendersi la vita che gli è stata tolta».  (3-continua)