La decisione di annunciare con largo anticipo la ricandidatura, il linguaggio sobrio, l’assenza di repliche polemiche. La strategia con cui il sindaco del capoluogo lombardo ha vinto largamente alle urne raccontata da un addetto ai lavori

«È un risultato quasi storico». Questa frase, e soprattutto quell’avverbio pronunciato da Beppe Sala dopo essere stato rieletto sindaco di Milano, racconta da sola la storia della sua campagna elettorale. Il risultato, almeno restando all’algebra, è storico sul serio: Sala è stato il primo candidato di centrosinistra ad aver vinto nel capoluogo lombardo senza passare dal ballottaggio, con la più alta percentuale di sempre per un sindaco al primo turno (57.7 per cento, un paio di decimi in più di Gabriele Albertini nel 2001).

 

È una pagina di storia che ovviamente non può piacere a tutti: il centrodestra ha ottenuto il suo peggior risultato di sempre alle amministrative a Milano, con il candidato Luca Bernardo che si è fermato sotto il 32 per cento; le forze politiche più di sinistra della coalizione che supportavano il vincitore non sono riuscite a entrare in consiglio comunale; il Movimento 5Stelle non è riuscito a superare lo sbarramento del 3%, restituendo alla città un quadro politico da Seconda Repubblica. 

 

C’è però quel quasi che racconta un approccio strategico alla campagna elettorale che, nell’Italia della polarizzazione e dell’ipersemplificazione dei messaggi, è diventata un’eccezione ritenuta azzardata anche tra gli addetti ai lavori. Sala ha infatti vinto le elezioni anche grazie a scelte comunicative che mettono in discussione in modo radicale una serie di liturgie della (comunicazione) politica italiana contemporanea. 

 

In primo luogo ha deciso di ricandidarsi con larghissimo anticipo rispetto alla data delle elezioni: l’annuncio è arrivato il 7 dicembre 2020, il giorno di Sant’Ambrogio, il patrono della città. L’Italia era in piena seconda ondata del Covid, la data delle elezioni era ignota, ma Sala ha deciso di fare comunque quel passo in avanti. La mossa si è rivelata decisiva ed è la variabile più sottovalutata dell’intera campagna elettorale: una dimostrazione di forza che il sindaco di Milano ha inteso dare prima di tutto al centrodestra, con cui ha fisiologicamente raffreddato le piste di candidati che sarebbero stati più competitivi del «pediatra con la pistola» Luca Bernardo, scelto più per disperazione che per convinzione. 

 

Secondo, è l’elemento più interessante in ottica nazionale, Sala ha deciso di rifiutare sistematicamente qualsiasi occasione di escalation polemica, anche quando è stato attaccato in modo scomposto dai suoi avversari, come simbolo, ed esempio, del clima che la destra milanese ha cercato di creare in città, valga il titolo di Libero Milano di martedì 5 ottobre, il giorno dopo le elezioni: “Vince Sala. Ci tocca vendere l’auto”, controcanto terrorizzato davanti alle intenzioni ambientaliste del primo cittadino. 

 

Davanti alla ripetizione di slogan semplici, di banalizzazioni clamorose, di «Bernardo asfalta Sala», ripetuto per decine di volte sui quotidiani di area per aizzare una campagna che la destra voleva incattivita e che invece è stata corretta ai limiti del noioso, il sindaco di Milano ha parlato di Recovery Plan, di città in 15 minuti, di trasporto pubblico, di case popolari. Ha scelto la centralità del programma di governo come antidoto all’imbarbarimento del linguaggio, e ha stravinto. Non significa che funzionerà sempre ma vuol dire che si può fare, soprattutto in presenza di un alto gradimento dell’azione amministrativa, intorno al 60 per cento, in questo caso, secondo i sondaggi.

 

Sala rappresenta il terzo esempio eclatante di una via progressista alla comunicazione politica post-grillina e post-salviniana, dopo Antonio Decaro a Bari nel 2019 e Stefano Bonaccini in Emilia-Romagna nel 2020, basata sul ritorno alla complessità come prassi comunicativa. Ecco spiegato quel quasi: si può cercare un’alternativa virtuosa attraverso la moderazione dei toni e la sobrietà nello stile, soprattutto se accompagnata da una significativa radicalità nei contenuti, così come sta accadendo a Milano sui temi della transizione ecologica.

 

A questo proposito deve far riflettere un altro elemento algebrico che potrebbe scomparire davanti all’oggettiva avanzata dell’astensionismo che ha riguardato le elezioni nei principali centri urbani in Italia. Le elezioni milanesi hanno rappresentato una pagina storica per la città anche perché, per la prima volta, l’affluenza è scesa sotto il 50 per cento, al 47.7 per cento, 7 punti in meno di 5 anni fa). Nonostante la contrazione significativa del corpo elettorale attivo, e nonostante la scomparsa della sinistra dal consiglio comunale meneghino, Beppe Sala ha accresciuto la sua platea elettorale di 53mila elettori rispetto al primo turno del 2016 (da 224mila a 277mila, +23 per cento in termini relativi). Certo, nessun sindaco uscente e riconfermato può dirsi del tutto esente da responsabilità se il numero degli elettori è calato, ma anche questo elemento può lasciar intendere che la stagione della brutalizzazione della comunicazione politica potrebbe essere in una fase di stanca. Anche Mario Draghi, forse, sarebbe d’accordo. Quasi. 

 

* Dino Amenduni è socio della società Proforma che ha lavorato alla campagna elettorale di Beppe Sala