Le relazioni dei tecnici del Parlamento lanciano l’allarme sui documenti consegnati dal governo Draghi e sui primi tre decreti che non hanno copertura di spesa. L’Italia intanto deve ancora utilizzare 28,7 miliardi di fondi Ue 2014-2020: non a caso nel Piano sono previsti 50 miliardi di progetti da anni in campo e che erano già finanziati

Mancanza di veri e «chiari obiettivi di spesa nei territori». «Almeno 50 miliardi di euro di progetti vecchi» e in alcuni casi in campo già da vent’anni. Documenti poco trasparenti, numeri ballerini e «nessuna certezza sul quaranta per cento delle risorse al Sud per provare a ridurre i divari tra le aree regionali». Per non parlare del  rischio che dopo l'euforia per il fiume di denaro in arrivo da Bruxelles ci sia un pesante «indebitamento delle casse pubbliche».

 

I tecnici degli uffici Bilancio del Parlamento hanno messo nero su bianco in diverse relazioni consultate dall’Espresso tutte le falle e le anomalie del Piano di ripresa e resilienza, mentre esperti e docenti di economia ascoltati nelle commissioni lanciano l’allarme sull’assenza di trasparenza e di certezze sui reali obiettivi del più grande programma di investimenti per l’Italia dai tempi del piano Marshall. Il Pnrr al momento è una nebulosa che forse soltanto il presidente del Consiglio Mario Draghi e alcuni dei suoi ministri conoscono nel dettaglio. Per il resto non se ne sa molto, anche se dopo aver letto i documenti consegnati a deputati e senatori gli esperti di Camera e Senato lanciano un altro allarme: il governo Draghi ha approvato tre decreti legge che «non hanno copertura di spesa e non rispetterebbero le norme in materia di finanza pubblica». 

 

NUMERI POCO CHIARI, PROGETTI VECCHI
In diversi dossier l’Ufficio parlamentare di bilancio e i centri studi dei due rami del Parlamento pongono molti punti interrogativi e chiedono chiarimenti e numeri certi al governo. Si conosce l’ammontare complessivo del Piano, pari a 235 miliardi di euro: 191 miliardi arrivano dall’Europa, di cui 120 sono prestiti che andranno restituiti. Altri 30 miliardi li mette lo Stato con un fondo aggiuntivo. E, ancora, 15 miliardi arrivano da programmi europei diversi.

 

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L’Italia è l’unico Paese dell’Ue che ha deciso di mettere tutti i fondi a disposizione in un unico programma che sta sotto le regole della spesa dei fondi comunitari: cioè con realizzazione dei progetti entro il 2026. Una data molto stringente, pena lo stop ai finanziamenti. Altri Paesi, come la Francia, non solo hanno ridotto al minimo la parte riguardante i prestiti, ma hanno diviso i programmi in fondi nazionali che possono essere realizzati con una tempistica più lunga. L’Italia ha voluto tutto e subito per decisioni politiche, prima del governo Conte II e poi del governo Draghi.

 

Chiaro, comunque? Assolutamente no. Per spendere rapidamente il governo ha per esempio previsto di utilizzare i cosiddetti “progetti sponda”, cioè già finanziati e in fase avviata di spesa con altre risorse e che adesso vengono caricati sul Pnrr: ma qual è la cifra del Piano per questi piani vecchi, che quindi non porteranno nulla di più al sistema Paese se non consentire di liberare risorse in bilancio? Nemmeno gli uffici del Parlamento lo sanno. In una relazione consegnata ai primi di novembre i tecnici dell’Ufficio bilancio e il servizio studi del Senato chiedono chiarimenti. Secondo le ultime tabelle consegnate dal governo la cifra per progetti esistenti da caricare sul Pnrr è pari a 45,1 miliardi: ma qualcosa non torna. Si legge nella relazione: «Tale conclusione non è coerente con il complesso dei dati forniti dai documenti disponibili che evidenziano un totale di spesa per progetti non nuovi intorno ad almeno 50 miliardi di euro. In ordine a queste differenze riscontrate appare quindi necessario acquisire ulteriori elementi di valutazione, posto che tali informazioni non sono ricavabili in modo univoco dalle fonti richiamate».

 

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Nei documenti del governo si fa poi riferimento a 183 miliardi di spesa complessiva aggiuntiva, e anche qui i conti non tornano. Come scrivono i tecnici di Camera e Senato: «Le predette indicazioni non sembrano allineate alla versione aggiornata dal Pnrr: in tale versione infatti continua ad essere indicata in 182 miliardi la spesa complessiva aggiuntiva, nonostante l’incremento da 53 a 77 miliardi della componente prestiti per nuovi progetti. Ciò lascerebbe supporre un diverso criterio di calcolo. Ma entrambe le ipotesi non sembrano in linea con la metodologia di calcolo della spesa addizionale indicata nello stesso Piano. In proposito andrebbe quindi acquisito un chiarimento».


Nemmeno i tecnici del Parlamento ne vengono a capo. Qualche domanda in più si può fare sulle infrastrutture, le uniche descritte in maniera puntuale nelle bozze del Piano: per esempio la velocizzazione della linea ferroviaria Palermo-Catania-Messina e la linea Bari-Napoli. Ma queste due infrastrutture erano già state finanziate: la prima con delibera Cipe del 2013 per 6 miliardi di euro, la seconda con un investimento della Banca europea per 2 miliardi. Le risorse del Pnrr sono aggiuntive a queste cifre o sono sostitutive? E nel caso fossero risorse sostitutive, i soldi liberati dove andranno? Chi assicura che verranno utilizzati sempre per le stesse aree geografiche? Nel Pnrr non ci sono risposte a questi interrogativi.

 

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INCERTEZZA SUL DEBITO
Gli uffici segnalano anche il rischio di nuovo indebitamento a partire dai prossimi anni e che comunque al momento, nelle carte del governo, non c’è chiarezza su questo aspetto di non poco conto per il futuro del Paese: «Dalle indicazioni contenute nel Piano non è possibile desumere l’entità in valore assoluto della destinazione a spesa corrente o in conto capitale ovvero a compensazione di minori entrate delle risorse Pnrr. Tale riparto è infatti evidenziato solo in termini di incidenza sul Pil e senza distinzione tra progetti nuovi ed esistenti. Non sono disponibili dati aggiornati, espressi in valore assoluto, che indichino la ripartizione annuale delle spese previste». Tradotto: nessuna chiarezza su come il Piano nel suo complesso impatterà sull’indebitamento.
Nel frattempo però sono stati approvati in Consiglio dei ministri tre decreti legge: rafforzamento strutture e snellimento procedure; assunzioni a tempo determinato con oneri a carico del Pnrr; lotta contro gli incendi boschivi. Le spese previste? Non sono state nemmeno indicate: «Si evidenzia che tale forma di copertura, non indicando l’ammontare e la modulazione annua dell’onere posto a carico delle risorse Pnrr, potrebbe introdurre margini di indeterminatezza nella individuazione e nella ricognizione degli impieghi delle medesime risorse per le finalità del Piano. La stessa appare inoltre derogare alla disposizione della legge di contabilità e finanza pubblica che prevede che ciascuna legge che comporti nuovi o maggiori oneri indichi espressamente per ciascun anno e per ogni intervento la spesa autorizzata».

 

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CAPACITÀ DI SPESA DELL’AMMINISTRAZIONE

Se oggi si chiede a un deputato, a un esponente di governo oppure a docenti ed esperti di economia che hanno letto le bozze del Pnrr quali sono i reali obiettivi del Piano nessuno sa dare un risposta chiara. Per obiettivi si intende la realizzazione concreta degli interventi. In sintesi: quanti asili nido e dove si vogliono aprire, visto che dopo la costruzione delle aule occorre poi assumere gli insegnanti? Di quanto si vuole aumentare la frequenza dei treni nelle tratte di nuova realizzazione, visto che i soldi vanno a Ferrovie ma poi le carrozze le deve mettere Trenitalia? Quante pale eoliche e pannelli fotovoltaici si vogliono installare? Di quanto si vuole ridurre l’impatto energetico delle abitazioni?


Per dare risposte a queste domande occorrerebbe una precisa indicazione dello stato attuale dell’arte, di chi deve spendere le risorse tra i vari enti territoriali e statali, e per fare cosa nel dettaglio. Invece al momento tutto resta nel vago. In una seconda relazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, datata 20 ottobre, si legge in maniera molto chiara: «In alcuni casi gli allegati al Pnrr non contengono informazioni sufficienti circa le procedure di attuazione di specifiche linee, non indicando un soggetto attuatore o non consentendone l’identificazione tra i numerosi attori istituzionali coinvolti». Una delle poche certezze è che, secondo le stime del governo, la pubblica amministrazione dovrà aumentare la sua capacità di spesa annua attuale per almeno10 miliardi di euro: una cifra che «pone certamente un interrogativo circa la capacità delle strutture coinvolte nella realizzazione degli interventi».


Proprio in questi giorni l’Ance, l’associazione dei costruttori aderenti a Confindustria, ha elaborato uno studio nel quale sottolinea come della programmazione dei fondi Ue 2014-2020 l’Italia debba ancora spendere 28,7 miliardi, e che sul Fondo di coesione territoriale stanziato sette anni fa «pari a 47,6 miliardi a oggi il livello di spesa sia pari al 7,5 per cento, cioè appena 3,6 miliardi». Non riusciamo a spendere già oggi quello che abbiamo, figurarsi con altre risorse aggiuntive.


Ma adesso a rafforzare la pubblica amministrazione di ministeri, in Comuni e Regioni arriveranno i nuovi assunti con il Pnrr, si dirà. Bene, per il Comune di Napoli in arrivo sono quattro esperti. Quattro di numero, come ha detto in audizione alla Camera il professore di economia dell’Università di Bari Gianfranco Viesti, che sta analizzando gli effetti del Pnrr. Con quattro esperti un Comune che ha visto più che dimezzare la dotazione organica negli ultimi quindici anni cosa può fare?

PUNTO INTERROGATIVO MEZZOGIORNO
C’è poi il tema delle risorse al Sud necessarie a ridurre i divari di cittadinanza e territoriali tra le aree del Paese: un nodo fondamentale del Pnrr, visto che l’Europa ha dato molti soldi all’Italia proprio a questo scopo. «Al Sud andrà certamente il 40 per cento delle risorse, 80 miliardi di euro», ha assicurato la ministra Mara Carfagna dopo l’approvazione di un suo emendamento in Parlamento. Per i tecnici di Camera e Senato anche su questo fronte qualcosa non torna. Scrivono nella relazione del 20 ottobre: «Per quanto riguarda il Mezzogiorno la regola del 40 per cento dovrebbe essere applicata in un contesto in cui la modalità di attuazione delle politiche pubbliche sia ordinatamente e chiaramente orientata all’individuazione delle priorità e all’identificazione di obiettivi specifici». Per far questo occorrerebbe avviare subito una ricognizione dei fabbisogni delle regioni del Sud, per capire cosa serve, e un censimento delle infrastrutture presenti e di quelle necessarie a raggiungere l’obiettivo di avvicinare questo pezzo del Paese al resto d’Italia e all’Europa in termini di servizi ai cittadini.


In ogni caso prima dell’assegnazione delle risorse andrebbero fissati «i criteri di selezione e valutazione che saranno applicati, le modalità per la presentazione delle richieste, i criteri di riparto e le modalità di monitoraggio». Ma di tutto questo non c’è traccia: «Nella realtà, tuttavia, appare complesso integrare in modo coerente la regola del 40 per cento con i criteri di attribuzione delle risorse alle varie linee di intervento». Così concludono gli esperti del Parlamento: «Sembrano emergere due ordini di criticità: da un lato l’eventualità che i bandi vedano una partecipazione di soggetti attuatori che non permetta di allocare risorse secondo la regola del 40 per cento; dall’altro la possibilità che una graduatoria che consenta di ottemperare alla regola del 40 per cento implichi l’accettazione di progetti di qualità non soddisfacente al momento della loro valutazione. Inoltre nel dibattito pubblico sul Piano è stata affermata la necessità di assegnare priorità ai progetti cantierabili vale a dire in stadio avanzato di definizione. Se però venissero selezionati i progetti “già pronti” si potrebbe rischiare di pregiudicare un altro degli obiettivi strategici del Piano, ovvero di essere un’occasione per favorire un riequilibrio dei divari territoriali».


Insomma, tra il Pnrr e la realtà c’è una voragine e finora il governo Draghi non ha detto come intende colmarla.