Il regista americano Jon Alpert ha seguito per 36 anni Rob, Freddie e Deliris, sprofondati nell’eroina e nelle rapine, nella prostituzione e nel carcere. E ora racconta le loro vicende nel film “Life of Crime: 1984 - 2020”

A un certo punto la piccola Kiky, che ha solo 9 anni, dice a sua madre Deliris, da molto tempo dipendente dall’eroina: «Mamma decidi: o scegli di amarmi oppure di continuare con la droga». L’aut aut è uno dei tanti momenti scioccanti, commoventi, incredibili di “Life of Crime: 1984 - 2020”, il nuovo film di Jon Alpert, leggenda del giornalismo americano e documentarista, che per 36 anni ha seguito, a volte per settimane, a volte a distanza di mesi o anni, la vita di tre giovani di Newark in New Jersey: Rob, Freddie e appunto Deliris, sprofondati lentamente nella droga e nel crimine, tra furti, rapine, spaccio, prostituzione e molti anni trascorsi in carcere, lasciando famiglie disastrate e disperazione.

Il film, che dopo la première allo scorso festival di Venezia arriva il 18 dicembre su Sky Documentaries e on demand su NOW, è quasi uno di quei polizieschi di successo che vanno di moda nelle serie tv, mescolato a un agghiacciante reality in cui Alpert testimonia cadute e resurrezioni dei suoi tre protagonisti. «Negli anni Ottanta New York era piagata dal crimine e la tv rispondeva con show sulla polizia, che a me non piace molto perché ho preso molte manganellate in testa in vita mia», ricorda Alpert. «Invece di fare un documentario sui poliziotti mi interessava capire chi fossero i criminali e cosa li spingesse a delinquere, e così è nato questo progetto».

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“Life of Crime: 1984-2020” è la summa di due documentari usciti per HBO nel 1989 e 1998 e una terza puntata che non sarebbe dovuta mai uscire: «A un certo punto mi sono stancato di raccontare tutta questa sofferenza e mi sono interessato ad altri progetti, anche perché sapevo che i tre protagonisti erano morti di overdose», racconta Alpert, «senonché un giorno mi chiama una donna e mi dice di essere Deliris, di essere pulita da quattro anni e mi chiede di andarla a filmare, per fornire la testimonianza che si può uscire dalla dipendenza».

 

Quello che colpisce del documentario è quanto Alpert sia riuscito a entrare intimamente a contatto con i soggetti del suo film, al punto da riprenderli ad esempio mentre si iniettano l’eroina, mentre Fred entra in un negozio a rubare posate d’argento, mentre Deliris si prostituisce e quando, durante una riunione di famiglia, uno degli amici di Rob picchia e insulta la moglie incinta, generando in chi guarda uno stato di orrore misto a incredulità, anche se, visto che i protagonisti sapevano di essere filmati, ci si chiede quanto le loro azioni fossero spontanee oppure in parte esagerate per l’adrenalina della messa in scena.

«Il mio compito è avvicinarmi il più possibile alla verità», dice Alpert: «Ho imparato che se stai abbastanza a lungo con le persone, questa salta inevitabilmente fuori». Certo, entrare a così stretto contatto con i soggetti del proprio film, implica rischi e responsabilità: «Ci sono stati momenti in cui sono intervenuto per ripagare la merce rubata, per evitare che fosse commesso un crimine violento, come quando ho girato il volante nell’auto guidata da Rob prima che investisse un ragazzo per rubargli lo stereo, o quando ho posato la telecamera per evitare il peggio, come quando Mike picchiava la moglie», spiega: «Ma non ho montato queste scene perché avrebbero spostato l’attenzione sulle mie azioni. In alcuni momenti poi ho avuto anche paura, come quando Rob mi ha puntato una pistola alla tempia e, pur facendomela sotto, ho finto di essere calmo, sorprendendolo e invitandolo a ritrarla».

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Settantatre anni, originario di Port Chester, Jon Alpert prima di reinventarsi documentarista è stato uno dei più importanti reporter d’America, capace di catturare immagini esclusive o in anteprima in luoghi apparentemente inaccessibili, e di vincere per questo vari premi Emmy e Columbia duPont, dati al meglio del giornalismo televisivo: è stato il primo giornalista a realizzare un reportage a Cuba dopo la rivoluzione, il primo a entrare in Cambogia per documentare il genocidio compiuto da Pol Pot, uno dei pochi in grado di entrare nell’Ambasciata americana a Teheran durante la crisi degli ostaggi, l’unico americano a rimanere in Nicaragua per testimoniare la vittoria dei sandinisti.

La sua fame di notizie è stata ben accolta in patria finché Alpert non ha iniziato a toccare gli interessi nazionali, come quando, per primo, ha intervistato Saddam Hussein, svelando la strage di civili iracheni effetto delle bombe a stelle e strisce durante la Guerra del Golfo, più volte negata dalla Casa Bianca. «Quando facevo il giornalista tv ero davvero bravo», sottolinea Alpert:  «Probabilmente migliore che come regista. Non c’era un luogo, anche pericoloso, dove non riuscissi ad arrivare spesso prima degli altri, uscendone vivo e spesso con uno scoop. E avrei continuato a fare quel mestiere, perché potevo toccare con mano gli effetti tangibili dell’informazione sulla consapevolezza delle persone e sul cambiamento della politica estera, che in quegli anni era deprecabile. Solo che a un certo punto i miei reportage erano talmente scomodi che sono stato messo su una lista nera: i miei servizi sulla Guerra del Golfo ad esempio sono stati trasmessi e premiati in Italia e censurati negli Usa. Ed è stato allora che, trovandomi senza lavoro, la nascente HBO mi ha chiesto di realizzare documentari».

L’incredibile exploit di “Life of Crime“ non è l’unico lungo pedinamento posto in essere da Alpert: nel 2017 è stato presentato sempre a Venezia (ed è ora disponibile su Netflix) “Cuba and the Cameraman“, in cui ha raccontato la vita dell’isola dal 1975 al 2016, documentando la sua incredibile amicizia con Fidel Castro, che si fidava di lui, tanto da farlo volare sul proprio aereo nel primo viaggio negli Usa avvenuto nel 1979. «Credo che nessun filmmaker abbia mai realizzato due film del genere. Girare un documentario non è semplice e il tempo è un elemento importante, anzitutto perché amplifica il tuo ruolo di osservatore, ma anche perché mostra che devi essere in un posto quando accade qualcosa», dice Alpert con evidente piglio da reporter.

«I documentari in cui intervistano persone che sedute davanti alla telecamera raccontano fatti di 10 anni prima sono utili e informativi, ma non fanno per me. Io voglio avere accesso a ciò a cui gli altri non hanno accesso e mostrare eventi che altrimenti nessuno potrebbe documentare». Ecco perché ad esempio è stato pizzicato nel 2018 dal New Yorker sulla pista di hockey a Sochi, dove si svolgeva una gara di beneficenza a cui partecipava Vladimir Putin, che lui voleva avvicinare.

«Naturalmente è fondamentale la passione, perché se non ti innamori di una storia non puoi seguirla così a lungo o mettendo a repentaglio ciò che hai di più caro, come ho fatto portando mia figlia Tami ancora bambina quando andavo a casa di Rob, Freddie e Deliris».

Quello che non è cambiato mai è il suo stile da cinema verità, che trasmette l’impressione di totale autenticità: «Quando filmi è fondamentale stabilire il contatto con gli occhi dei soggetti, quindi se tieni la cinepresa sulla faccia è più difficile», aggiunge Alpert: «Per questo io la impugno vicino al corpo e così posso guardare il soggetto e al tempo stesso stargli molto vicino, anche se mentre riprendo a chi mi guarda sembro un po’ strano. Quando cammino sono impacciato, ma mettimi una cinepresa in mano e divento un ballerino, mi muovo meglio di Fred Astaire».

Autore di documentari sui soggetti più vari, la criminalità e l’immigrazione, i veterani di guerra e la crisi dell’auto e altro ancora, Alpert da quasi cinquant’anni lavora anche come attivista: nel 1972 ha fondato a New York con la moglie Keiko Tsuno il Downtown Community Television Center, che tenta di aiutare ragazzi provenienti dai ceti meno abbienti a emanciparsi grazie all’inserimento nella professione televisiva, attraverso workshop o la disponibilità gratuita di strumenti tecnici utili per la realizzazione di reportage o documentari.

«Una delle cose che chiediamo per diplomarsi alla fine dei corsi è quella di prendere una telecamera e realizzare la propria autobiografia», dice Alpert: «A volte scopriamo che questi giovani hanno un genitore in prigione oppure padre e madre eroinomani o magari sono senzatetto. Se vivi in certi quartieri dove la droga circola liberamente, non vieni da una buona famiglia, i tuoi non hanno un lavoro e non vai a scuola è più facile finire preda a tua volta della tossicodipendenza e commettere reati. Il problema è che la prima cosa che fa il Governo federale è tagliare i fondi alle scuole primarie e secondarie, alla musica, all’arte, a tutto quanto dà alle persone una possibilità di affrancarsi dalla propria condizione disagiata, ed è per questo che durante la crisi economica di New York che negli anni Settanta ha portato alla bancarotta, abbiamo avviato il nostro centro. Il successo è tale che il cento per cento dei ragazzi che escono dalla nostra scuola poi si iscrivono al college. Mentre giravo “Life of Crime“ un giorno ho incontrato Freddie e gli ho chiesto per quale motivo mi permettesse di seguirlo e documentare la sua misera esistenza quasi in diretta, e lui mi ha risposto che quella gli sembrava la cosa più costruttiva mai fatta in vita sua. Spero, mi disse, che un giorno altre persone guarderanno questo documentario e sarà più facile per loro non ripetere gli errori che ho commesso io».