Nel pieno dell’emergenza sanitaria ed economica, dopo un lungo anno di paralisi, la politica implode. E la crisi giunge a un punto di svolta che non ammette appello

Nel 1977, era un pomeriggio romano di gennaio di quell’anno di piombo, due figure attraversarono via Nazionale, di fronte al palazzo Koch, sede della Banca d’Italia, per entrare nel teatro Eliseo che sta di fronte, dall’altra parte della strada. «Vado a un convegno», disse il professor Franco Modigliani al giovane che lo accompagnava. Entrarono. Nella sala affollata stava parlando Enrico Berlinguer, davanti a una platea di intellettuali. Passò alla storia come il discorso dell’austerità, la parola d’ordine che il segretario del Pci lanciava nel dibattito pubblico, mentre il suo partito era impegnato nel difficile momento dell’unità nazionale con la Dc di Aldo Moro, nella stagione dell’inflazione a due cifre e del terrorismo rosso, alla vigilia dell’attacco dell’Autonomia contro il segretario della Cgil Luciano Lama all’università di Roma. Il futuro premio Nobel Modigliani era lì ad ascoltare Berlinguer. Con lui il suo allievo neppure trentenne, Mario Draghi.

Chissà se gli sarà tornato in mente questo episodio remoto di quarantaquattro anni fa mentre percorreva in macchina, la mattina di mercoledì 3 febbraio, quei pochi metri che separano il palazzo di Banca d’Italia dal palazzo del Quirinale, dove Sergio Mattarella lo attendeva per incaricarlo di formare il nuovo governo. Una missione impossibile, dopo lo sfascio del sistema politico che va ben al di là degli stracci volati dentro la vecchia maggioranza giallorossa che sosteneva il governo Conte. La mossa di Mattarella ha colto di sorpresa tutti i notabili vecchi e nuovi, ma è stata lungamente ipotizzata nei mesi precedenti. Quando l’ex governatore di Banca d’Italia, ex presidente della Banca centrale europea, alternava brevi soggiorni a Roma, nell’abitazione ai Parioli e, negli ultimi mesi, in un ufficio in Banca d’Italia, con viaggi a Milano e Padova e lunghi fine settimana in campagna, a Città della Pieve dove Matteo Renzi, da presidente del Consiglio, andò nel 2014 a incontrarlo atterrando in elicottero in un campetto di calcio e rovinando la riservatezza del faccia a faccia: ufficialmente per parlare della riforma del mercato del lavoro, il jobs act, in realtà per accertarsi che Draghi non puntasse a diventare presidente della Repubblica (ambizione smentita). In campagna aveva trascorso, un mese fa, le feste di fine anno. L’ultimo momento tranquillo, mentre il governo Conte procedeva inesorabilmente verso la crisi. Politica, per la guerra tra il premier nel bunker di Palazzo Chigi e il killer politico seriale Matteo Renzi. Sullo sfondo, però, di una emergenza sanitaria, economica, sociale senza precedenti, con il rischio di perdere i fondi europei del Recovery Plan.

Una riserva della Repubblica, in una situazione paradossale. L’italiano più stimato nelle cancellerie internazionali e nei centri di potere finanziario, l’uomo che aveva estratto il bazooka per salvare l’euro, finito nelle fiction (“I diavoli” di Guido Maria Brera), nella Treccani e perfino nei graffiti sui muri («Sei bella come un Whatever it takes») era in patria una figura da marginalizzare, temuta, forse ostacolata. Oggetto di scetticismo nei palazzi romani, o, peggio, di ironia da parte del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «L’ho proposto per la Commissione europea, ma l’ho visto un po’ stanco» (in realtà la proposta era avvenuta in piedi, durante l’ultimo vertice europeo con il presidente della Bce, in modo a dir poco affrettato e improvvisato: Draghi aveva cortesemente declinato). Da tempo l’ex numero uno di Francoforte aveva lanciato qualche segnale. Aveva smentito in privato ogni ritorno alla Goldman Sachs, dove era stato vicepresidente nel 2002, dopo un decennio di direzione generale al ministero del Tesoro. Una sola uscita pubblica, al meeting di Comunione e liberazione di Rimini, il 18 agosto, a parlare di giovani generazioni e di una distinzione, quella tra il debito “buono” finalizzato alla crescita, e il debito “cattivo”, che suona come un indizio sicuro sul programma del futuro governo. Ma tra esegeti, agiografi e il sospetto che circondava ogni sua mossa, Draghi si era alla fine rifugiato nella sua dimensione più naturale, il silenzio. E rischiava di assomigliare sempre di più a Émile Beaufort, il protagonista del romanzo di George Simenon “Il presidente”, costretto ad aspettare una chiamata che non arrivava mai. In una situazione bloccata, simile alla strada che percorre la costiera amalfitana, con una singola macchina che può rallentare l’intero traffico e nell’impossibilità di superare.
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Il sorpasso, invece, è arrivato. Per l’implosione della maggioranza innescata dal partito di Matteo Renzi, certo. Ma soprattutto per l’incapacità di tutti gli altri attori politici di uscire dalla trappola in cui si erano cacciati. Il Pd condannato a ripetere che non c’era alternativa a Conte, l’unico punto di equilibrio, dopo essere stato definito punto di riferimento del progressismo italiano e europeo, nientemeno. Il Movimento 5 Stelle, balcanizzato e senza guida politica, incollato soltanto dalla permanenza al potere dei suoi notabilini, i Di Maio e i Bonafede. Ancora pochi minuti prima che Mattarella fischiasse la fine della ricreazione dai due partiti arrivava la pressione per un nuovo incarico a Conte. La crisi politica si era trasformata in crisi di sistema e stava per intaccare il funzionamento delle istituzioni, dopo un anno di paralisi parlamentare e settimane di inutile caccia a costruttori, ricostruttori, responsabili e irresponsabili.

Ora la crisi è al punto di svolta, senza possibilità di appello. Il 1992-93, con le inchieste Mani Pulite e la svalutazione della lira, fu considerata la nostra guerra di Algeria, così la definì lo storico Pietro Scoppola, e arrivò la fine dei partiti che sembravano immortali e l’inizio della Seconda Repubblica berlusconiana: Carlo Azeglio Ciampi fu il primo presidente del Consiglio non parlamentare a entrare a Palazzo Chigi, direttamente da Banca d’Italia. Nel 2011 Giorgio Napolitano nominò senatore a vita Mario Monti e lo proiettò alla guida del governo sulle macerie del berlusconismo. Ma l’operazione non riuscì, restò dimezzata dalla inerzia dei leader di allora a riformare la politica con una nuova legge elettorale e un cambiamento della legge sul finanziamento dei partiti. Due anni più tardi il nuovo movimento di Beppe Grillo conquistò otto milioni di voti, il Pd di Pier Luigi Bersani fu espugnato dal sindaco di Firenze Matteo Renzi che subito si trasferì a Palazzo Chigi, la legge elettorale fu eliminata da una sentenza della Corte costituzionale e il finanziamento pubblico fu semplicemente cancellato.

Scenari
Nella zuffa da cortile piomba il preside: arriva Mario Draghi
3/2/2021
Draghi ha una storia diversa da Ciampi e da Monti. È passato nella sua vita dalle grandi banche di affari internazionali private alle istituzioni pubbliche come Banca d’Italia e la direzione generale del ministero di via XX Settembre, dove arrivò trent’anni fa, nel febbraio 1991, con il ministro del Tesoro Guido Carli, nominato dal governo Andreotti. Aveva occasione di frequentare ogni settimana il presidente del Consiglio in quell’anno che precedeva l’ingresso nel sistema di Maastricht, ma anche il crollo di quella classe dirigente e l’inizio della stagione più travagliata e discussa delle privatizzazioni con il fantasma della riunione al largo di Civitavecchia sullo Yacht di Sua Maestà Britannia, come recitava l’esclusivo cartoncino di invito, compilato dai misteriosi organizzatori, i British Invisibles, fatti apposta per alimentare il romanzone del complotto della massoneria internazionale. Draghi salì in effetti a bordo per poco tempo, ma bastò secondo i complottisti a dare il via libera al piano di privatizzazioni dell’industria pubblica italiana, la svendita alla finanza internazionale dei pezzi pregiati. Nasce lì la leggenda nera del Draghi uomo dei poteri forti e transnazionali. «Draghi è il numero uno, il futuro papa del movimento capitalistico italiano, della nuova religione tecnocratica, un leader riconosciuto per tale da quanti, ad alto livello, industriale o bancario, rappresentano un movimento per la successione ai partiti, nella futura Europa tecnocratica», scrisse con un certo qual buon intuito l’agenzia ufficiosa Tac diretta dal vetero-democristiano Norberto Messina, ex consigliere di amministrazione dell’Efim, che oggi forse sarebbe un iscritto al Movimento 5 Stelle.

Quella classe dirigente al tramonto sapeva tutto e non faceva nulla, restò travolta dalle inchieste. Draghi restò al Tesoro, nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, fino all’arrivo di Ciampi al ministero di via XX Settembre, nel 1996, con il governo dell’Ulivo presieduto da Romano Prodi, impegnato nella cavalcata per portare l’Italia nell’euro. Di Ciampi Draghi ha tratteggiato lo «stile di comando», in una commemorazione del 2016, oggi utile per capire come sarà il Draghi capo del governo: «Nel corso di quella esperienza la fermezza degli obbiettivi veniva trasmessa con garbo nei modi, l’ampia fiducia data ai suoi collaboratori si accompagnava a un preciso controllo dei risultati, l’umanità del tratto non faceva velo all’equità del giudizio. La delega ai suoi collaboratori era ampia, così come lo era la difesa del loro operato, quando questi erano oggetto di attacchi che considerava ingiustificati», disse Draghi. Il governo Prodi, diverso da tutti i precedenti (e successivi), per due motivi: «La prima è la libertà dall’emergenza, la stabilità è essenziale per fare riforme ben disegnate. La seconda è la durata del governo, circa due anni, più lunga di quella dei quattro esecutivi precedenti, che non durarono, nella pienezza delle funzioni, per più di un anno. E per due requisiti che erano mancati agli esecutivi precedenti: il governo Prodi era l’espressione diretta di una consultazione elettorale e per gran parte del suo mandato non ha visto i suoi membri cadere per motivi giudiziari». E concluse: «Mai dimenticando di affermare che lui non era un politico, Carlo Azeglio Ciampi ha restituito alla politica la sua dignità più alta». Quasi un autoritratto, riletto oggi, e un programma di lavoro.

Non è un politico di professione, Draghi, ma della politica ha un rispetto sacro. A chi gli ha offerto in passato incarichi di governo ha sempre risposto che non avrebbe fatto politica senza passare da un voto popolare. Lo spiegò anche a Prodi che lo voleva ministro dell’Economia nel suo secondo governo, nel 2005. Fu invece nominato governatore di Banca d’Italia dal governo Berlusconi, dopo lo scandalo che aveva travolto Antonio Fazio, il primo numero uno di palazzo Koch con un mandato a termine, al suo posto andò Tommaso Padoa Schioppa. Della politica conosce manovre, astuzie, cinismi, come ha potuto accorgersi, a sue spese, il potente numero uno della Bundesbank Jens Weidmann. È un uomo globale, ma anche profondamente romano. Un cattolico romano che va a messa e che ha studiato nel liceo dei gesuiti, in anni difficili per la sua vita, rimasto orfano di entrambi i genitori da adolescente. Di recente inserito da papa Francesco nella Pontificia Accademia delle Scienze sociali, ma politicamente laico.

Un riformista destinato alla solitudine, come il suo maestro amato Federico Caffè, scomparso nel 1987 a Roma. La sua scuola informale, ribattezzata dagli allievi il “laboratorio”, era fondata sullo studio del keynesismo e sul primato della politica economica come capacità dello Stato di incidere e di cambiare la vita delle persone. All’inizio della pandemia a Keynes Draghi sembrò riferirsi quando scrisse sul “Financial Times” che il Covid-19 «era una tragedia di proporzioni bibliche» e che occorreva «un cambio di mentalità», come in tempo di guerra: «La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono vittima. E il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti ci sia di avvertimento».

Ora la guerra si è spostata all’interno del sistema politico e istituzionale. E serve un percorso che porti alla nascita del nuovo governo e poi all’approvazione e alla realizzazione del Piano di Ripresa, con oltre duecento miliardi da spendere. E il patto di fine legislatura: l’elezione del successore di Mattarella tra un anno, la possibilità di indire elezioni anticipate per l’autunno, prima che il semestre bianco del presidente arrivi a rendere impossibile lo scioglimento anticipato, con una nuova legge elettorale. Draghi potrebbe accompagnare questo percorso, per poi salire al Quirinale per la seconda volta in un anno, ma questa volta come successore di Mattarella. Per i partiti, o quel che ne resta, è l’ultima corsa, per chiudere con i disastri dell’anti-politica, per aprire la Terza Repubblica, per ridare dignità alle parole destra e sinistra. Mentre governa un non-politico, realista e disincantato. «Il riformista preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del “sistema”», scriveva Caffè. L’uomo delle passioni fredde Draghi sottoscrive.