Guida l’alleanza del quartiere di Napoli, garantisce la pace e ricicla in hotel. Storia della donna che dopo 7 anni di 41 bis è ora il capo dei capi

«Mi chiamo Licciardi Maria, sono casalinga ma ho sempre lavorato, ho fatto la calzolaia. Detesto la droga, se vedo dei giovani che si drogano mi dispero» (Maria Licciardi, 2003).


Nella mafia siciliana sarebbe impensabile, una donna capo dei capi. E allo stesso modo nelle altre organizzazioni criminali, tutte, tranne una.


«‘A Piccerella», «la mente fine», «bloody Mary», «mamma camorra», Maria Licciardi è stata soprannominata in tanti modi diversi, ma la qualifica che meglio la definisce da vent’anni è un’altra: boss. Licciardi è al vertice del cartello criminale più pericoloso e potente della Campania e non solo: l’Alleanza di Secondigliano.

 

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’A Piccerella oggi è libera, sfuggita ancora una volta alla cattura, nell’ultimo maxi blitz avvenuto nella notte del 26 giugno 2019. All’alba in un’imponente operazione del Ros e dei carabinieri di Napoli furono sequestrati beni per 130 milioni e arrestati 126 affiliati all’Alleanza di Secondigliano, tra i quali figurano personaggi di spicco dei clan Mallardo, Contini, Bosti, Licciardi. Tranne lei, tranne Maria Licciardi, che, avvisata per tempo e coperta da una fitta rete di protezioni, riuscì a fuggire. La sua latitanza però è durata poco, dopo appena due settimane il tribunale del riesame ha infatti revocato l’ordine di arresto: per i giudici, il coinvolgimento della Licciardi è ritenuto poco chiaro rispetto ad alcune intercettazioni ambientali portate tra le prove.


La sua posizione è stata archiviata sebbene alla testa (e alla cassa) del potente sodalizio camorristico di Secondigliano, a sentire gli investigatori, ci sia proprio lei.

 

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Mamma Camorra vive dove ha sempre vissuto, nella roccaforte dei Licciardi a Secondigliano, la Masseria Cardone, dove non c’è degrado, non ci sono vedette né piazze di spaccio. ’A Piccerella non vuole che nella sua zona si venda droga, non vuole vedere tossici per le sue strade, tanto meno le forze di polizia.


Pensare che invece a soli 200 metri, dall’altra parte di Corso Secondigliano, c’è il «Terzo Mondo», come viene chiamato il Rione dei Fiori, dove tra le fatiscenti case popolari si vende droga h24. Tutto intorno alla Masseria Cardone è un Bronx di abbandono e delinquenza: le Case Celesti, l’immenso rione Don Guanella, Monterosa, le Case Gialle dove hanno messo gli sfollati di Scampia e poi i lotti battezzati con una lettera, K,G,P,R dove le persone oneste vivono senza servizi e nella paura, assoggettate alla sopraffazione dei clan.


L’influenza dell’Alleanza di Secondigliano è immensa e va ben oltre Napoli, lambisce e inquina interi settori dell’economia del Paese, estendendo i propri interessi nel mondo. L’holding criminale gestisce un’immane ricchezza accumulata negli anni con il traffico di stupefacenti, le estorsioni, le scommesse clandestine, la vendita globale di capi contraffatti. Una montagna di soldi da ripulire e reinvestire attraverso ramificate attività legali, intestate a incensurati, in settori strategici come quello alberghiero, che valgono per i clan quanto le piazze di spaccio. I villaggi sorti in zone di grande appeal turistico, per esempio. Solleva più di qualche dubbio il caso dell’Hotel Max ad Aversa, in mano alla famiglia del marito di Emanuela Teghemiè, figlia di Maria Licciardi e Antonio Teghemiè, detto Tartufon.

 

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L’hotel Max, dotato di uno spazio per i congressi e ben 35 camere, risulta gestito dal 2016 dalla società Max Hotel, il cui unico socio nonché amministratore è Immacolata Donzelli, zia del marito di Emanuela. La signora Immacolata prima del 2016 era totalmente sconosciuta al fisco, mentre il marito percepiva circa 24 mila euro l’anno, lavorando come dipendente nella raccolta dei rifiuti per il comune di Napoli. Sorprende anche il capitale sociale della società Max Hotel di appena 2.900 euro, un po’ esiguo per una struttura così importante. Complicata a dir poco è anche la vicenda del Gran Hotel Capodimonte di Napoli le cui quote, in un vortice di trasferimenti societari, sono passate dalla cognata della figlia di Maria Licciardi, Loredana Donzelli, al marito e poi a terzi. L’altra figlia di Maria, Regina, gestisce imprese di abbigliamento (non a caso) in Spagna, dove i clan campani sono molto presenti.


Chi è questa donna minuta, classe ’51, che nell’ombra e mantenendo un profilo basso è riuscita a scalare i vertici della camorra?


’A Piccerella è la sorella di Gennaro, capostipite del clan, detto ’a Scigna, capozona di Secondigliano per conto di Luigi Giuliano, il re di Forcella, uno dei capi storici della camorra. I Licciardi erano inizialmente specializzati nel commercio di capi di abbigliamento falsi, poi il salto di qualità nel traffico di stupefacenti: eroina, cocaina, hashish. Gennaro fu tra i fondatori prima della Nuova Famiglia - un sodalizio malavitoso nato per fare la guerra alla Nco di Raffaele Cutolo - e poi negli anni ’90 dell’Alleanza di Secondigliano, con Edoardo Contini e Ciccio Mallardo. Com’è andata a finire è cronaca: i cutoliani sono stati sterminati e il cartello di Secondigliano si è preso Napoli.


Se è innegabile che la rilevanza di Maria Licciardi all’interno del sodalizio si fa decisiva con la morte in carcere di Gennaro nel 1994 e l’assenza per detenzione e latitanza degli altri due fratelli, è anche vero che la propensione al comando le è in qualche modo connaturale.


Interessante quanto riferito da importanti collaboratori di giustizia: Pasquale Avagliano ha detto che Maria Licciardi era la «regia occulta» del clan. Lo stesso Gennaro, che era detenuto, gli avrebbe riferito che gli affari criminali erano da lui discussi, in occasione dei colloqui carcerari, solo con la sorella Maria. Un altro collaboratore, Salvatore Conte, racconta che Maria era «la mente fine» dell’organizzazione. Luigi Giuliano la definì addirittura «la mamma della camorra».


Inquietante l’episodio di Giuseppe Misso, boss del rione Sanità, che dal carcere aveva respinto l’invito di Gennaro ’a Scigna ad aderire al loro cartello. Un affronto insopportabile, a cui segue quello di sua moglie Assunta Sarno che durante un’udienza si sarebbe rivolta a Maria Licciardi, dicendo che quando il marito Misso fosse uscito di galera, Gennaro ’a Scigna gli avrebbe dovuto pulire le scarpe. Era troppo. Poco dopo, il 14 marzo del 1992, sulla bretella autostradale Caserta-Napoli, un commando di killer raggiunge l’automobile su cui viaggiava Assunta Sarno con altre persone. Muore trucidata a colpi di kalashnikov. Per gli investigatori, tra i mandanti dell’omicidio della donna ci sarebbe anche Maria, che invece verrà assolta.


Maria Licciardi, la «mente fine» della cupola, si occupa degli aspetti più strategici, come trattare l’acquisto di droga, fornire assistenza legale e sostegno alle famiglie durante i periodi di detenzione degli affiliati. Pratiche necessarie per assicurarsi il rispetto dell’omertà. Il suo controllo sul territorio è totale: si passa da lei per dirimere in modo diplomatico o meno questioni personali, come crediti da esigere, debiti da estinguere, infedeltà coniugali da chiarire. A Secondigliano, al dominio della Piccerella non sfuggono nemmeno i sacramenti: è cosa sua il sistema di «comparaggio», che serve a irrobustire i vincoli criminali, attraverso la scelta dei padrini per battesimi e cresime.


Su tutto, però, c’è un episodio che meglio di ogni altro chiarisce la posizione di vertice che occupa la Licciardi sin dagli anni ’90: il pentimento di Costantino Sarno, feroce boss di Miano. «Stiamo tutti per affogare nel fiume Sarno», manda a dire Vincenzo Licciardi dal carcere di Parma dove è recluso. L’Alleanza trema: quella collaborazione è una minaccia per la sopravvivenza del cartello criminale, bisogna costringere Sarno a desistere, facendo pressione sui parenti. A quel punto il boss di Miano indica in Maria Licciardi l’unica persona che avrebbe potuto gestire la sua ritrattazione: è lei che avrebbe dovuto firmare il patto per la sua salvezza e quella della sua famiglia; è lei per il gotha di Secondigliano la garanzia che dopo aver comprato il suo silenzio, Sarno non li avrebbe traditi di nuovo. Nessun altro gode di quel credito e di tanto rispetto. Il 15 gennaio 1998, in zona Masseria Cardone, la polizia ferma una Nissan Micra. Dentro c’è proprio Maria Licciardi e sotto al sedile posteriore dell’automobile c’è una busta con 300 milioni di lire in contanti. Per gli inquirenti si tratta della prima tranche del compenso deciso per la ritrattazione di Costantino Sarno. La Dda di Napoli chiede l’arresto di Licciardi per associazione mafiosa e lei dal quel momento scompare, entrando nella lista dei trenta criminali più ricercati d’Italia. Costantino Sarno intanto ritratta tutto. È il salto decisivo per la Piccerella, è la sua consacrazione al vertice dell’Alleanza. Dopo due anni di ricerche in tutta Italia, a Melito, gli agenti della Squadra Mobile riescono a catturarla, in realtà non si era mai mossa dalla sua zona. Per lei si aprono le porte del carcere duro, per sette anni, da dove continuerà - come emerge dalle conversazioni captate durante i colloqui con il marito - ad impartire ordini, a provvedere alle «mesate» per i parenti dei detenuti e a controllare gli affari del clan.

 

Uscita dal carcere, Licciardi torna al suo posto, alla Masseria Cardone, da dove tuttora gestisce senza far rumore gli equilibri interni alla federazione, garantendo la pax mafiosa con l’altro grande cartello che domina la città, quello dei Mazzarella. «La comoda rappresentazione di una camorra ormai allo sbando, ridotta a una serie di gruppuscoli, appare smentita dalla realtà. Il numero degli omicidi di camorra risulta chiaramente indicativo del raggiungimento di un sostanziale equilibrio mafioso», scrive il procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo. Se oggi a Napoli si spara meno che in passato è solo perché i cartelli camorristici, sempre più potenti, hanno bisogno della pace per fare affari.