Dedicano saggi a un’indemoniata dell’Ottocento o alla Badessa di Stendhal. Cercano nei documenti le tracce di vite emblematiche della condizione femminile. E anche se rivendicano che il metodo storico è uno solo, i lettori le amano sempre di più

Veronica Hamerani, quando questa storia comincia a Roma, nel 1834, è una ragazza di appena diciannove anni che ha il diavolo in corpo. Tecnicamente. Tanto che, Padre Kohlmann, vecchio gesuita forse al suo primo esorcismo, e Padre Manera, giovane gesuita non al suo primo dubbio, sono chiamati a scacciare il maligno dal corpo della giovane. Dell’ossessa. Dell’inferma. Fernanda Alfieri è una storica, insegna all’Università di Bologna e, nell’archivio generale della compagnia di Gesù, si è imbattuta in un manoscritto. Il brogliaccio ritrovato è il diario dell’esorcismo di Veronica Hamerani.

 

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Così, “Veronica e il Diavolo” (Einaudi) è la storia dell’incontro tra due donne, di cui una morta, e della ricostruzione di un pezzo di mondo. I diari dei gesuiti sono la luce grazie alla quale Fernanda Alfieri riesce a descrivere uno spaccato di vita a Roma, a partire dalla vigilia di Natale del 1834. Accanto a Veronica nella sua stanza di ossessa, e al suo esorcismo, è tutto chiaro, nitido, Alfieri vede tutto, ma allontanandosi dalle fonti, tutto torna buio. Così, seguendo i passi dei due uomini della compagnia di Gesù, scorrendo ciò che hanno scritto e ciò che di loro è stato scritto, riesce a illuminare anche donne, uomini, cose oltre la stanza di Veronica, e a restituirci un mondo che prima non c’era, ribadendo, ancora una volta, che il futuro, ciò che non conosciamo, può stare nel passato, può essere già avvenuto e che ciò che possiamo conoscere, può non essere accaduto. Ma uno storico, una storica ha le carte e quella è la realtà.

 

Poiché i libri si parlano, ma anche le persone, ho telefonato a Serena Vitale, scrittrice, slavista, autrice, tra l’altro dei romanzi – entrambi nel catalogo Adelphi – “Il bottone di Puskin” e “Il defunto odiava i pettegolezzi”, e le ho chiesto che differenza c’è, se c’è, tra storia e letteratura. «È semplice per me: dalla storia, anche dalla “petit histoire”, si può fare letteratura, anche grande letteratura (“Guerra e pace” ti va bene? “Il gattopardo”? “I promessi sposi”?) mentre la letteratura può far luce sulla storia ma non diventa storia. La storia può fornire i fatti (io per esempio sono soltanto una “fattografa”) che possono diventare letteratura e talvolta cambiarne le sorti, la letteratura non cambia un bel niente nella storia, con l’eccezione, forse, della letteratura di opposizione ai regimi totalitaristi». Convinta dalla risposta di una delle maggiori scrittrici italiane che si definisce “fattografa”, mi chiedo dove sta per me la differenza, tra i fatti e le loro rappresentazioni, e non lo so e, ovviamente, la risposta non mi basta. Devono essere staccati perché Wittgenstein ha scritto che il mondo è l’insieme dei fatti e delle sue rappresentazioni.

 

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Lisa Roscioni, storica, insegna all’Università di Parma, è autrice, tra gli altri de “La Badessa di Castro” (Il Mulino) e de “Lo smemorato di Collegno” (Einaudi) e dice, nel suo tono scanzonato e profondo, ossimorico, che non c’è storia se non c’è un problema, dice che il passato non esiste, ma è esistito e dunque si lavora con i morti, dice che la verità è un metodo, perché è una ricerca. Così la chiamo e le domando della badessa. Dove sei tu Lisa Roscioni nel libro della badessa? Figura di cui Stendhal ha scritto - la badessa divisa tra l’amore prima di un giovane e poi di un vescovo dal quale ha una bambina e che finirà tragicamente - e nel cui resoconto giudiziario Roscioni si è imbattuta, «cercando altro», alla Brithish Library. «Sono in secondo piano, da storica lo ritengo più interessante. Se avessi romanzato, la storia avrebbe perso la sua verità. Certo, la vita è anche romanzo, costruiamo le nostre vite adattandole a forme culturali, tendiamo a leggere le esperienze che viviamo e i documenti in cui ci imbattiamo, attraverso un immaginario che può essere storiografico o romanzesco. Nel caso specifico della badessa, è la storia di un sacrilegio. Ma è anche una storia d’amore? Non lo sapremo mai. Da questo punto di vista ho una posizione molto rigorosa, forse descrittiva, non potremo sapere mai cosa le persone hanno in testa, non lo sappiamo oggi e non lo sappiamo nemmeno per il Cinquecento o il Seicento, abbiamo tracce che ci dicono qualcosa, ci suggeriscono ipotesi, e su quelle costruiamo. La differenza tra storia e letteratura, che pure si incrociano, è che noi lavoriamo a carte scoperte, se facciamo congetture o ipotesi, o riempiamo vuoti, dobbiamo dichiararlo. Il problema del rapporto con le fonti è che sono reticenti sia per le persone che per i fenomeni. Come storica posso provare a riempire i vuoti e dichiararlo fa parte delle regole del gioco. Il romanzo invece ti autorizza a riempire i vuoti e a lasciare il lettore nell’incertezza su quale sia la verità, e nell’illusione che una verità esista».

 

Le chiedo se esiste una specificità delle donne nella storiografia, nella ricerca, se esiste una specificità nello sguardo delle donne. «Per presa di posizione semi-ideologica ti dico di no. Non penso le donne abbiamo una sensibilità diversa, che colgano aspetti che gli uomini non colgono, mi sembra un discorso pericoloso, non penso sia questo. La capacità di ricerca e ricostruzione dipende da una sensibilità soggettiva, che è al di là del genere, secondo me. Detto questo, ognuno di noi ci mette la propria storia, chi è, da dove viene. E se ci penso tutte le mie ultime ricerche e i miei interessi hanno il comune denominatore della menzogna e del desiderio. Probabilmente perché la mia domanda gira intorno a questo: dov’è la verità, dove la menzogna, e dove il desiderio, visto che senza desiderio il mondo non si muove?».

 

In “Veronica e il diavolo” è il desiderio di conoscenza a muovere le domande di padre Kohlmann? La penna di padre Manera? I genitori di Veronica, che hanno perso tutti gli altri figli, desiderano plausibilmente vederla viva, ma non c’è scritto, sappiamo però che è la mamma a chiamarla per nome e non ossessa o inferma, c’è scritto, e il desiderio di Veronica qual è? Fernanda Alfieri, con la sua assertività interrogativa, ossimorica, non lo dice, perché non lo sa, le carte sono ancora reticenti, ma possiamo chiederle il suo. «Per anni ho combattuto con un desiderio fortissimo, vedere il volto di Veronica, darle una fisionomia, uno spessore, un sentimento, un pensiero di cui fossi certa non dico al cento per cento, ma tanto da consentirmi una congettura. Sono stata frustrata dal non aver potuto fare niente per darglielo io, è un limite fortissimo questo ed è un’occasione perché ti misuri continuamente con le ragioni di un’alterità che non è negoziabile. Non posso prendere Veronica e farla spostare, avrei voluto tanto farle fare un giro da qualche parte, portarla in una vigna, a una festa, a ballare un saltarello, avrei voluto che lei baciasse, ma non potevo farlo, chi sono io per poterlo fare. Se io avessi potuto inventare la storia di Veronica sicuramente sarei stata in una dinamica di ascolto delle ragioni del personaggio. Ma noi lavoriamo sulle persone, non sui personaggi, non possiamo violare la loro alterità, e questo limite è irriducibile».

 

Ma allora, le chiedo, e lo chiedo per me, qual è il rapporto tra verità e storia? «Eh, resta sempre problematico, ma la storia applica una serie di tecniche, filtri, che riconducono la fonte alla sua ragione d’essere, al perché abbiamo questo documento, lo riconducono a un contesto, a dinamiche che sono contingenti, e sottoposte per questo alla scivolosità del contingente, ma sono per questo estremamente vitali, io non parlerei di verità, ma di vitalità, ed è la ragione per cui, sistematicamente, si cerca di eliminare la storia dai programmi scolastici, secondo me, perché la storica, lo storico è in ascolto di un’alterità che non capisce, e questo è un esercizio di sintonizzazione a un’alterità che apparentemente parla una lingua simile alla tua, ma, ascoltando, ti accorgi che il registro è un altro, che quella parola vuole dire un’altra cosa, è un lavoro di umiltà che serve a dar voce a moltissime alterità che ci hanno preceduto e che talvolta sproloquiano, ma hanno sempre qualcosa da dirti, e questo insegna a dare ascolto alle alterità presenti. Se tu fai parlare solo la tua voce, hai fallito».

 

Esiste una voce delle donne, Fernanda? «La storia delle donne, come ramo della storiografia, è nata e ha preso piede a partire soprattutto dagli anni Ottanta. Adesso è un metodo, una sensibilità, partendo dal presupposto che la storia con la S maiuscola è una storia ovviamente parziale, amputata, è una storia che parla di maschi, scritta da maschi, e quindi la grande impresa è stata una impresa epocale, ma non solo per la storia delle donne, ma per la storia giuridica, medica, agraria, medica, è stata l’impresa di una introduzione di uno sguardo altro, altro rispetto all’unico sguardo che esisteva, normativo, che era quello maschile sulle cose, universale, e questo ha fatto sì che necessariamente ponesse la questione delle donne che introducono un’altra prospettiva perché hanno un’altra prospettiva. Ma questo non significa essenzializzare lo sguardo femminile, significa prendere atto che le condizioni di partenza, sono diverse».

 

E capisco che ho sbagliato domanda, non che differenza c’è tra letteratura e storia, ma tra narrativa e storia. La letteratura è una cosa più complessa dove le esitazioni non sono solo sentimentali, ma documentali, di accesso alle carte, del contesto in cui una donna o un uomo studiano e vivono, di forme culturali come dice Lisa Roscioni, di filtri interpretativi come dice Fernanda Alfieri. È una questione di geometria, di orientamento degli assi. Alfieri va verso Veronica, perché Veronica non può spostarsi, è una lanterna, di carte, il movimento è degli animali viventi, Roscioni va verso la badessa, e la badessa, illuminata dai fogli del processo, è immobile e, intorno, il passato che non esiste, ma è esistito, è tutto nero. Chi scrive narrativa immagina un carrello sotto i personaggi, che sono stati o no, un carrello sottostante la fonte luminosa, e lo tira e lo molla, in modo da illuminare non solo l’intorno, ma tutto il resto. È come se avessimo paura del buio.