I dati sono chiari: il Recovery Fund deve aiutare soprattutto il Mezzogiorno. E ne è convinta anche l’Europa

Sostiene Mario Draghi: nel Sud il reddito è il 55 per cento del Centro Nord, negli anni Settanta era il 65; qui, nel decennio 2008-18, gli investimenti pubblici si sono dimezzati; e da qui, ogni anno, fuggono in 160 mila verso lavoro, università, migliori condizioni di vita. Altrettanto drammatico, in contemporanea, l’appello di Daniele Franco, ministro dell’Economia: a colmare il ritardo non basta un piano di sei anni (il Recovery), occorre una strategia complessiva di politica economica e sociale. Vaste programme.


Ascoltiamo ora Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. Riassunto: senza Sud non si esce dal Covid-19. Qui - un dato per tutti - c’è appena il 30 per cento dei lavori per infrastrutture e, per sovrappiù, tre quarti di queste sono opere incompiute. Conclusione: il Sud non è solo un capitolo del piano di ripresa del Paese, ma «il vincolo, la discriminante attraverso la quale debbono passare tutte le scelte di politica economica». Prima della loro, s’era alzata pure la voce di Fabio Panetta, consigliere della Bce: il Sud è «il grande inespresso dell’economia e della società italiana», «un motore inceppato da decenni»; illusorio pensare di uscire dal declino tirandosi dietro un Sud inerte; un Paese non regge se una parte guadagna il doppio dell’altra. Amen.


Un insolito coro. E il ritorno sulla scena di una protagonista a lungo dimenticata: la questione meridionale, «l’eterna quistione» come la chiamava già un secolo fa Antonio Gramsci. Certo lo impongono i numeri, già drammatici e ora insostenibili causa pandemia: non sarà facile recuperare i 390mila posti di lavoro svaniti nell’anno del virus – di giovani, donne e precari -, quanti se n’erano perduti lungo gli anni neri della crisi 2009-13; gli occupati sono solo quattro su dieci, peggio che nell’Italia di dieci anni fa a rischio default; e quando poi ci sarà il rimbalzo del dopo Covid, stima la Svimez, il Sud crescerà tre volte meno del Centro Nord, aggravando così un divario secolare.


L’altra ragione per cui suona l’allarme Mezzogiorno sono i 190 miliardi del Recovery. E già si teme che al Sud ne arrivino meno di quanti ne occorrano per colmare il divario. La Commissione europea vorrebbe che si concentrasse qui il grosso dei progetti, ma il precedente dei ristori/sostegni non lascia ben sperare: su cento miliardi, al Nord ne sono andati 70. Comunque preoccupa ancora di più che i fondi, tanti o pochi, siano spesi presto e bene, e non in sussidi a pioggia. Problema generale, del Sud in particolare (“Draghi, attento al burocrate”, L’Espresso n. 11).


Quanti ancora si interrogano sul tema sono infatti convinti che la storica lontananza dal Nord dipenda in gran parte dalla maggiore inefficienza, dal malfunzionamento delle istituzioni: perché al Sud la macchina pubblica è stata spesso appaltata a classi dirigenti locali deboli, e tollerando che esse rispondano ai cacicchi, non allo Stato. Che molte volte latita. Come dimostra l’inesorabile degrado delle Regioni, del sistema sanitario, dell’istruzione... La “quistione” non è solo economica.


C’è un’altra singolarità in questo ritorno di attenzione per il Sud. Non sono più le forze politiche a sventolarlo come bandiera dopo averne fatto il problema centrale della costruzione di un’Italia unita: dissolta la Repubblica dei partiti con le sue deformazioni finali, e superata la lunga fase in cui la spesa pubblica era sterco del diavolo, è ora una generazione di tecnici prestati alla politica a farsene carico. È quasi un ritorno alle origini, quando furono i Beneduce i Menichella i Saraceno i Morandi a progettare e a guidare l’intervento straordinario. Solo che allora erano state le grandi chiese politiche a sceglierli e a delegare loro il compito.

 

Ora i Draghi i Franco i Visco i Panetta si muovono, come dire?, con spirito istituzionale, e soprattutto su impulso di Bruxelles, perché anche per l’Europa c’è oggi una questione meridionale: l’Italia. Davvero difficile dire se la contingenza sia o no favorevole. Potrebbe però essere l’ultima occasione per ricominciare.