«La ‘ndrangheta è merda e dove c’è la Lega non c’è la ‘ndrangheta», dice il leader dal palco di Zambrone. Ma nella regione, non è esattamente così. A partire dalle amicizie pericolose del suo numero due, Cataldo Calabretta

Cambia la campagna elettorale, non il copione. Mentre si scaldano i motori per le regionali, Matteo Salvini torna in Calabria per arringare le ormai sparute truppe. Fra abbandoni, addii e scissioni, il popolo del Capitano si è di parecchio ridotto e agli Stati generali della Lega – una sorta di congresso in villaggio vacanze con soggiorno in struttura (a pagamento) obbligatorio  –  gli ospiti chiamati a discutere del futuro del Carroccio in Calabria non erano poi tantissimi. 

Ma per Salvini, approdato a Zambrone per l’occasione, il tempo sembra quasi essersi fermato e il plot del suo personalissimo show rimane identico, dalla foto golosa con granita e brioche agli strali contro la ‘Ndrangheta. Peccato che dall’ultima campagna elettorale con bellicose dichiarazioni antimafia in copia conforme, la Lega in Calabria si sia più volte preoccupata di smentire il proprio leader.

 «Nei prossimi cinque anni dovrete provare a dare la possibilità di tornare a milioni di calabresi che portano competenze e onestà. Dico onestà non a caso – ha sottolineato il Capitano dal palco di Zambrone -  perché ho passato il mio primo Ferragosto da ministro dell’Interno a San Luca per dire che la ‘ndrangheta è merda e dove c’è la Lega non c’è la ‘ndrangheta: state lontani che ci fate schifo».

In Calabria in realtà, non è esattamente così. E non solo per le ormai note, ma sempre ingombranti parentele del deputato leghista Domenico Furgiuele, genero del “re dell’autostrada” Salvatore Mazzei, condannato per estorsione aggravata dal metodo mafioso e il cui nome emerge fra i clienti del suq di sentenze aggiustate aperto dall’ormai ex giudice della Corte d’Appello di Catanzaro, Marco Petrini.

Fra toga e tv, la sfavillante carriera del leghista Calabretta
Anche chi oggi è stato scelto per guidare il partito dilaniato da una permanente guerra interna, forse ha qualche ingombrante compagnia da farsi perdonare. A partire da Pasquale Malena, imprenditore del cirotano condannato a 12 anni e 9 mesi per accuse di mafia nel maxiprocesso Stige, fin troppo spesso visto accanto a Cataldo Calabretta, diventato prima commissario liquidatore di Sorical – la disastrata società regionale che si occupa della gestione idrica –  ed (ennesimo) subcommissario del Carroccio in Calabria, poi. 

Cataldo Calabretta con Elisa Isoardi nel 2018

Noto ai più in Calabria come agente della ex fidanzata di Salvini, Elisa Isoardi, e di altre starlette, legale e consulente nel rapporto con i media del comandante Francesco Schettino, Calabretta è stato per anni  faccia nota di salotti tv, dalla Rai a Mediaset, dove ha fatto persino il grande salto da ospite fisso a conduttore. Battesimo del fuoco? “Grand tour d’Italia” su Rete4, road show sulle eccellenze italiane, in cui però pare non sia mai riuscito a inserire il cugino, grande produttore di vino Cirò. Massimo exploit, la conduzione del galà del festival di corti “Tulipani di seta nera”, in onda su Rai Uno in seconda serata.

Al numero due della Lega in Calabria però non piace essere ricordato solo per la sua vita fra tv e annesso jet set. Rivendica i suoi trascorsi accademici, vanta un dottorato e si presenta come professore, anche se l’ateneo è virtuale come le lezioni dell’Università telematica in cui insegna. 

In ogni caso, l’impegno sui libri o in tv non lo ha mai distolto dalla politica, per cui ha sempre avuto un debole. Forse anche per questo si è dedicato alla transumanza fra tutte o quasi le sigle del centrodestra, dal Pdl dell’allora governatore Peppe Scopelliti – che lo ha nominato consulente giuridico prima di finire in carcere per aver taroccato il bilancio del Comune di Reggio Calabria nei suoi anni da sindaco – alla lista “Forza Italia per Wanda Ferro”, in cui, da candidato, Calabretta ha sostenuto la storica dirigente della destra calabrese oggi in Fdi, all’epoca candidata governatrice per il centrodestra. Alla causa però contribuisce con un magro bottino, a stento 900 voti, mentre i primi eletti superano i diecimila. 

In Lega ci arriva passando dalla porta principale, grazie al rapporto diretto con Salvini all’epoca della liason con la Isoardi, ma una candidatura non l’ha strappata mai. In compenso, il Capitano in persona lo avrebbe voluto alla guida del Carroccio in Calabria o in Giunta al posto di Spirlì. Ipotesi naufragate per resistenze locali e nazionali. Per la Lega, il cerino è rimasto in mano al bergamasco Cristian Invernizzi, per due anni “costretto” al personale purgatorio di fare da balia ai salviniani calabri, e alla vicepresidenza della Regione ci è finito Spirlì. 

 

Le amicizie pericolose del subcommissario

Nel frattempo, Calabretta ha tirato volate altrui, come quelle del suo ex pupillo Vincenzo Sofo, cresciuto fra i ranghi della destra evoliana, più noto per la bionda compagna Marion Le Pen che per l’impegno politico e andato via qualche mese fa dalla Lega per approdare in Fdi. Qualche anno fa invece l’attuale subcommissario della Lega è stato spedito ad aprire la campagna elettorale dell’avvocato crotonese pro-vita e ipercattolico Giancarlo Cerrelli – noto per le teorie sull’omosessualità come malattia o sulle donne naturalmente chiamate ad occuparsi della famiglia – che oggi lo vede come fumo negli occhi e gli ha palesemente dichiarato guerra. 

Insomma le amicizie non sembrano portare fortuna al docente, avvocato e agente dei vip. E adesso anche quella con Malena sta provocando più di un mugugno. Calabretta si difende. “È una persona che vive la tragedia di un processo”. In realtà il giudizio si è concluso con una condanna a 12 anni e 9 mesi, le carte dell’inchiesta sono piene di contatti e affari con i clan cirotani, e l’evoluzione di quelle famiglie – avevano spiegato i magistrati all’epoca degli arresti – “ testimonia una mutazione genetica della ‘ndrangheta. Non possiamo più parlare di infiltrazione dei clan nella vita economica, ma siamo di fronte a una immedesimazione tra ‘ndrangheta e imprenditoria”. Ma per Calabretta “non si può rinnegare un amico per questo” e comunque “si tratta solo di una condanna in primo grado”.  E poi, specifica, Malena “non ha la tessera della Lega”. Peccato che sia presenza fissa ad iniziative, gazebo e banchetti nel cirotano,  sia stato iperattivo durante tutte le ultime campagne elettorali e regolarmente – dice chi frequenta la Cittadella – si fa vedere negli uffici che sono stati riservati alla Sorical nel palazzo della Regione. 

 

Inciampi fra affari e politica

Fin troppo vicino ai clan della Piana di Gioia Tauro per i magistrati era anche il ginecologo Antonio Coco, candidato per la Lega alle ultime regionali finito ai domiciliari nell’inchiesta Chirone e aspirante “grande tessitore” di strategie elettorali. Ne discuteva, seduto ad un noto ristorante di Reggio Calabria, con Domenico Laurendi, arrestato come elemento di vertice del clan Alvaro di Sant’Eufemia, deputato anche ai rapporti con i mondi politici, massonici e istituzionali. Il dottore Coco però – emerge dall’inchiesta aveva anche ottimi rapporti con altri clan. 

Grazie a lui – è l’ipotesi dell’accusa – le ditte dei Piromalli, gli storici padroni della Piana di Gioia Tauro, potevano imporre materiali e forniture nei reparti di Ginecologia, ovviamente in cambio di compenso. Per la procura antimafia di Reggio Calabria “integra plasticamente la tipica ipotesi del professionista posto al servizio dell’associazione di stampo mafioso, in quanto completamente asservito, con comportamenti che trasgrediscono nell’illecito, ai bisogni ed alle esigenze della cosca di riferimento”. Quando il Riesame ha annullato i domiciliari, il dottore l’ha festeggiato come se fosse un’assoluzione. Ma per la procura rimane indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e di voto di scambio.

Sono ormai storia nota le parentele del deputato leghista Domenico Furgiuele, inciampato anche personalmente in un’inchiesta antimafia con la sua azienda “Terina”, ma riuscendo a dribblare accuse che abbiano a che fare con i clan. Tuttavia mai il parlamentare leghista ha spiegato perché la sua ex impresa – si è affrettato a lasciare ogni carica formale appena eletto – abbia finito per affittare il ramo d’azienda della principale azienda del suocero – attrezzature e commesse incluse – poco prima che il tribunale gli togliesse tutto. 

 

Il terreno accidentato della Giunta

E se all’interno del partito c’è materiale sufficiente per collezionare rossori, anche la Giunta e la maggioranza che il leghista Nino Spirlì si è trovato a guidare dopo la morte di Jole Santelli di certo non sono un bel biglietto da visita. A poco più di un anno e mezzo dall’insediamento del Consiglio regionale – e con la pandemia nel mezzo a paralizzarne le attività – un ormai ex consigliere, Domenico Creazzo, l’ex presidente del Consiglio, Mimmo Tallini, e l’assessore al Bilancio  in carica, Franco Talarico, sono stati arrestati con accuse di mafia. 

Nessuno è della Lega, Creazzo è stato sospeso ancor prima di essere proclamato, Tallini si è dimesso, Talarico invece non ha mai inteso lasciare il baricentrico assessorato al Bilancio. E da capo della Giunta non risulta che Spirlì sia turbato più di tanto dalla presenza in squadra di un assessore indagato per associazione a delinquere aggravata dal metodo mafioso e scambio elettorale politico mafioso, né abbia esitato a riaccoglierlo dopo i mesi passati ai domiciliari. Per i magistrati, con il supporto dell’imprenditore dei clan Antonio Gallo, Talarico aveva puntato sulle truppe cammellate delle famiglie di ‘ndrangheta reggine per imporsi alle politiche del 2018.  Accuse che il Riesame ha deciso di prendere con le molle, ma a cui la procura antimafia di Nicola Gratteri crede, tanto da aver chiuso le indagini senza modificare di una virgola i capi di imputazione. 

Passaggio che evidentemente a quel Salvini a cui “la ‘ndrangheta fa schifo” è sfuggito, se è vero che dal palco celebra esattamente quella squadra di assessori che “ha approvato una bellissima legge per l’assegnazione dei beni confiscati alle associazioni attive nel sociale” per poi scagliarsi contro l’antimafia “dei chiacchieroni, ma non voglio fare nomi e cognomi: Saviano. Davvero non voglio fare nomi e cognomi altrimenti poi si offende e fa i tweet”.  Anche questi, insulti da copione ormai rodato e riproposto uguale a se stesso con il fuso orario di un paio d’anni. Ma la realtà e gli inciampi dei suoi rischiano di rendere complicato al Capitano continuare a recitarlo.