I conti pubblici
Sos salute: per il Servizio sanitario nazionale è l’ultima chiamata prima del collasso
Venti miliardi con il Pnrr nelle casse delle regioni. Una grande occasione da non sprecare. Ma occorrono personale e strategie. E per ora nulla è stato fatto (Foto di Laura Lezza per l’Espresso)
Galleggiare, come ha galleggiato negli ultimi vent’anni, non sarà più possibile. Per il Servizio sanitario nazionale i 20,23 miliardi del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, sono uno spartiacque: se saranno investiti adeguatamente la sanità pubblica diventerà un traino per l’economia, ma se sprechi e inefficienze avranno la meglio, il servizio collasserà, trascinando nel baratro il bilancio pubblico italiano. Aut aut. Le premesse non sono incoraggianti perché, come spiega Milena Vainieri, docente di Economia e responsabile del Laboratorio management e sanità alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, se le Regioni non sapranno conquistare nuove competenze gestionali sarà difficile spendere presto e bene il denaro concesso dall’Europa: «Le risorse che arriveranno sono più o meno pari a quelle messe a disposizione delle Regioni negli ultimi 20 anni dal Sistema sanitario nazionale (19 miliardi), attraverso gli accordi di programma per gli investimenti. In passato, complessivamente, solo il 65 per cento delle risorse disponibili sono state oggetto di accordi Stato-Regione. Vuol dire che gli enti locali non sono riusciti a presentare dei progetti per spendere il restante 45 per cento dei finanziamenti. Ci domandiamo se stavolta le Regioni saranno in grado di presentare piani di investimento in un quarto del tempo. E qualora ci riuscissero, saranno poi in grado di impegnarli in modo efficiente?».
Nell’ultimo ventennio, il Molise ha speso il 18 per cento delle risorse messe a sua disposizione, mentre sono sotto la soglia del 50 per cento Abruzzo, Puglia, Sicilia, Sardegna e Calabria. Il Lazio si ferma al 56 per cento. Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana sono riuscite a investire i tre quarti del denaro e solo la provincia autonoma di Bolzano ha pienamente raggiunto l’obiettivo. Qui sta il punto, perché anche con i soldi del Pnrr, il ministero della Sanità e quello dell’Economia possono dare delle indicazioni di massima, ma essendo la Sanità una materia in capo alle Regioni, spetta a loro elaborare i piani e metterli in atto.
Va avanti da decenni il controverso rapporto tra Stato e Regioni nella governance sanitaria, fra chi vorrebbe centralizzare alcune funzioni e chi difende a spada tratta l’autonomia dei territori. Addirittura, nelle prime fasi di stesura del Piano nazionale di ripresa e resilienza, si era ipotizzato di accentrare le spese attraverso Consip, la centrale di acquisti che fa capo al ministero dell’Economia, mentre ora si ipotizza un modello di concertazione, in cui si condividono gli obiettivi e ogni territorio fa da sé. È anche stata costituita una cabina di regia che, tuttavia, non è ancora operativa perché non è chiaro come si intenda agire per investire i venti miliardi per la sanità. Implicitamente, il premier Mario Draghi ha già fornito una soluzione, preannunciando commissariamenti a piene mani degli assessorati, qualora le Regioni non fossero in grado di investire in modo adeguato. «Un centralismo feroce sarebbe controproducente, come ci insegna l’esperienza di 40 anni di Servizio sanitario nazionale.
D’altro canto non tutte le Regioni hanno dimostrato adeguata lungimiranza: quindi serve la capacità dello Stato di misurare la bontà degli investimenti locali. Se questi 20 miliardi saranno spesi in modo dissennato, ovvero senza una visione strategica, capace di rivoluzionare il modello di sanità territoriale attraverso la transizione digitale, allora c’è il rischio, molto concreto, di far morire il sistema sanitario nazionale», afferma Federico Spandonaro, professore di Economia all’Università di Roma Tor Vergata e presidente di Crea, Centro per la ricerca economica applicata in sanità, che spiega come dopo anni di tagli, con la pandemia ci si sta abituando a spendere in deficit, cosa che non può durare a lungo: «Se la sanità tornerà a generare decine di miliardi di debito, come avveniva in passato, si toglieranno risorse per altri investimenti, per esempio la scuola o le infrastrutture.
Se il Servizio sanitario nazionale non sarà in grado di anticipare lo tsunami della digitalizzazione e non saprà offrire servizi avanzati, allora sempre più pazienti sceglieranno di rivolgersi alla sanità privata (che certamente saprà sfruttare la leva dell’innovazione), aumentando le disuguaglianze e perdendo l’occasione di trasformare il Ssn in un volano di crescita.
E allora, un secondo asse di investimento dovrebbe essere il finanziamento di laboratori di ricerca per la sanità, capaci di attrarre finanziamenti privati, che garantiscano insediamenti produttivi e quindi reddito e occupazione, così da far crescere la nostra economia. Se invece la sanità non sarà in grado di produrre ricchezza, e dovessimo rassegnarci alla stagnazione degli ultimi anni, non ci sarà futuro per la nostra società», conclude Spandonaro.
Ma quanta forza hanno le Regioni per mettere a punto una simile rivoluzione negli ospedali e nella medicina territoriale? «Poca e a geometria variabile», risponde il professor Francesco Longo, ricercatore del Cergas Bocconi, Centro di ricerca sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale, che spiega: «Da un lato il blocco delle assunzioni, dall’altro i bassi salari hanno svuotato gli assessorati di personale competente». In base alle elaborazioni del Cergas circa il 40 per cento del personale è poco qualificato e svolge mansioni di routine, anche se «teoricamente l’assessorato alla Salute dovrebbe svolgere un ruolo di indirizzo strategico verso le aziende sanitarie e quindi dovrebbe avere competenze sofisticate. La percentuale di personale non qualificato dovrebbe essere prossima a zero, mentre in alcune regioni sfonda il 60 per cento», si legge nel report Cergas realizzato per l’Espresso. Il 70 per cento dei dipendenti ha superato i 50 anni e solo il sei per cento è under 40: «L’elevata anzianità è un ostacolo al reclutamento di giovani funzionari, più motivati e predisposti all’innovazione». Solo un terzo dei colletti bianchi ha una laurea e «con le nuove assunzioni si stanno replicando le logiche del passato, continuando a reclutare personale sotto qualificato». Inoltre, più della metà delle posizioni dirigenziali è vacante o affidato a personale delle aziende sanitarie o dei ministeri centrali. «Sono le Regioni il perno delle scelte strategiche della Sanità e ci si aspetterebbe che, come nelle aziende private, la retribuzione dei dirigenti della capogruppo fosse superiore a quella delle aziende controllate. Al contrario, negli assessorati, a capo delle aziende del Ssn si applica il contratto delle amministrazioni locali, mentre negli ospedali il più generoso contratto dei medici. In base alle nostre indagini, la retribuzione media di un dirigente in Regione è di 110 mila euro, negli ospedali 138 mila euro. I talenti sono fuggiti dalle Regioni, per lavorare negli ospedali e nelle aziende sanitarie locali, lasciando sguarnita la cabina di comando», spiega Longo.
Qualche nuova risorsa potrebbe venire dal piano di assunzioni annunciato dal ministro della Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta, visto che mille delle 24mila nuove reclute saranno arruolate dalle Regioni. Resta poi da capire quanti saranno destinati all’assessorato alla Salute: «Essendo la sanità l’80 per cento del budget regionale, avrebbe senso destinare almeno il 70 per cento del nuovo personale a quell’area specifica, ovvero assumere circa 35 esperti di policy e management sanitario in ciascuna Regione», dice Longo. Senza personale adeguato sarà impossibile per i territori ricorrere a competenze specifiche di ideazione, sviluppo e controllo dei progetti d’innovazione.
L’accentramento immediato delle funzioni, come è successo per la gestione dell’emergenza Covid-19, rischia di esasperare il rapporto, già teso, fra Stato e Regioni: «La Costituzione prevede una legislazione concorrente fra le Regioni in materia di tutela della salute. E non è certo il momento di mettersi a riformare la Costituzione, perché i tempi sono stretti e l’Italia non può permettersi di sprecare l’opportunità di spendere i finanziamenti del Recovery Fund», afferma Eugenio Anessi Pessina, docente di Public Management all’Università Cattolica di Milano e direttore del Cerismas, Centro di ricerche e studi in management sanitario, che continua: «Si dovrà cercare di far funzionare il sistema così com’è sapendo che ci sono performance molto differenziate fra una regione e l’altra. Anche pensare di accentrare le decisioni non è la soluzione, piuttosto bisogna dare alle Regioni l’opportunità di partecipare al processo di Recovery Plan e, laddove non procedessero come necessario, scatterebbe un esercizio di potere sostitutivo».
La faccenda non solo è complessa, ma è anche drammaticamente pericolosa perché, qualora non si riuscisse a raggiungere gli ambiziosi obiettivi concordati con Bruxelles, sulle spalle delle future generazioni peseranno non solo i debiti contratti per avviare il Pnrr (il 60 per cento dei finanziamenti è stanziato a debito), ma anche la restante quota, che non verrà sganciata dall’Europa: «Il denaro del Pnrr viene erogato a consuntivo dei progetti e delle opere compiute e se il sistema sanitario non riuscirà a spenderlo presto e bene, allora verrà accollato sulle spalle del governo italiano, ovvero delle giovani generazioni», dice il professor Longo della Bocconi che, insieme ad altri 15 docenti esperti di management sanitario, ha consegnato un dossier al ministro Roberto Speranza per far luce sulle problematiche che rischiano di far saltare gli obiettivi previsti dal Pnrr. Nel report presentato, dal titolo Proposte per l’attuazione del Pnrr in Sanità: governance, riparto, fattori abilitanti e linee di realizzazione delle missioni, vengono offerti al ministero una serie di consigli per evitare che il default del Sistema sanitario nazionale: «Lo Stato deve fare cinque cose: delineare gli indirizzi strategici, dare i giusti incentivi alle Regioni, affinché presentino progetti di sviluppo adeguati; monitorare prima, durante e dopo l’efficacia dei piani, i loro effetti e il raggiungimento degli obiettivi; contribuire all’acquisizione e formazione di risorse professionali in grado di elaborare i progetti; infine, offrire, approvare le modifiche normative necessarie affinché gli investimenti non si schiantino contro il muro della burocrazia», sintetizza Anessi Pessina della Cattolica. Una rivoluzione da realizzare in cinque mesi, dal momento che entro la fine dell’anno i progetti dovranno essere spediti a Roma e poi a Bruxelles. E per ora nulla è stato fatto, né l’assunzione del personale nelle regioni, né la creazione di comitati di controllo, né la sburocratizzazione delle procedure. Si attendono miracoli.