Le riforme, il faro di Bruxelles sui fondi, le 700 mila aziende a rischio insolvenza. Dietro la candidatura di Mario Draghi al Colle c’è anche il peso di una poltrona, quella di Palazzo Chigi, che scotta troppo

Non c’è solo l’aspirazione alla più alta carica della Repubblica, come giusto che sia. Ma c’è anche la voglia di lasciare una poltrona che nel 2022 sarà molto calda per tutti. Se resterà presidente del Consiglio Mario Draghi dovrà affrontare mesi di grande tempesta, senza il paracadute avuto fino a oggi per chi è stato chiamato alla grande impresa di salvare il Paese e all’inizio del lavoro ha avuto tutti i venti a suo favore. Adesso è passato un anno dal suo insediamento e dovrebbe cominciare la fase della concretezza: e su questo fronte il futuro rischia di non essere roseo anche per l’ex presidente della Banca centrale europea. A far paura c’è in primis l’incertezza sulla pandemia, ancora non sconfitta, anzi tornata ai livelli dello scorso anno per le ricadute che sta causando al sistema sanitario e a quello scolastico. Inoltre nel 2022 sono in arrivo scadenze che fanno tremare i polsi: a dicembre ci sarà la seconda fase di valutazione di Bruxelles sul reale utilizzo dei fondi prestati dall’Unione europea all’Italia; prima si dovranno avviare almeno 50 riforme, da quella sugli appalti a quella della burocrazia, del fisco, della concorrenza e del Csm; e, ancora prima, cioè già adesso, si dovranno trovare in bilancio dai 10 ai 30 miliardi di euro per ridurre il caro bollette non solo per le famiglie, ma anche per le attività produttive, mentre secondo Unimpresa 700 mila aziende sono a rischio insolvenza da qui ai prossimi dodici mesi.

Draghi vuole lasciare la presidenza del Consiglio: non solo per il treno che passa adesso e che lo porterebbe al Quirinale, coronamento di una carriera, di una vita pubblica, ma anche perché l’aura di efficientismo rischia di svanire in questo anno appena iniziato. Non a caso nelle ultime settimane il premier attraverso i suoi collaboratori più fidati ha fatto trapelare, per escludere il ricorso al voto di fronte al momentaneo no dei partiti a un governo tecnico guidato dal suo delfino Daniele Franco, di poter anche nominare perfino un governo politico non appena messo piede al Quirinale, con nomi come quello di Giancarlo Giorgetti, Renato Brunetta o Luigi Di Maio, entrati nel suo cerchio magico ristrettissimo: «Abbiamo la sensazione che Draghi le stia provando tutte pur di lasciare Palazzo Chigi, Di Maio è convinto di poter fare questo salto e gliel’ha fatto credere il premier», ragiona un senatore grillino. A dimostrazione che l’entourage di Draghi sta mettendo in campo tutte le soluzioni possibili pur di lasciare una sedia che scotta e che scotterà per chiunque vi si siederà nei prossimi mesi.

 

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PNRR A RISCHIO
Una delle principali grane nell’anno appena iniziato è il Piano di ripresa e resilienza. L’Italia è l’unico Paese che ha scelto di puntare tutti i fondi a disposizione su questa programmazione, che ha vincoli e limiti stringenti. Inoltre il nostro Paese ha accettato di prendere il massimo dei prestiti in campo, per una somma che equivale a quella che hanno richiesto i principali partner europei messi assieme, oltre 120 miliardi di euro che dovremo restituire da qui ai prossimi anni. Se il Pnrr fallisce nel creare una ripresa strutturale e tagliare le catene che hanno da anni frenato il Paese, l’Italia rischia davvero di finire nel pantano per i prossimi decenni.

 

Il 2021 tutto sommato per il governo del supertecnico è filato liscio, Draghi e i suoi ministri hanno annunciato nella conferenza di fine anno di aver raggiunto tutti gli obiettivi imposti da Bruxelles per avere la prima tranche del Piano per 24 miliardi: ma erano tutti obiettivi procedurali.

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Per avere la seconda tranche da 40 miliardi nel 2022 il governo dovrà raggiungere 102 target. E tra questi ci sono le riforme: tra le altre, la delega fiscale, quella sulla concorrenza e la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Solo su questi tre temi pensare che i partiti, nell’anno che porta alle elezioni, si metteranno d’accordo sulle proposte di Palazzo Chigi è davvero difficile: non a caso le due deleghe per concorrenza e fisco sono già imbrigliate nelle commissioni del Parlamento, con Pd, Lega e 5 Stelle che sostengono tesi difficilmente conciliabili: solo per fare un esempio, sulla riforma del Csm e il ritorno alla toga per i magistrati che hanno fatto una esperienza politica, Lega e 5 Stelle sono per misure rigide, il Pd per misure più leggere, ma se il partito di Salvini è favorevole al sorteggio per una parte dei componenti del Csm, il Pd non ne vuol sentire nemmeno parlare. Se si va sulla riforma del Fisco lo scenario peggiora ancora, tra flat tax totem della Lega e taglio tasse solo alle fasce deboli chiesto da dem e 5 Stelle.

 

Poi ci sono gli obiettivi di spesa del Pnrr e qui il governo Draghi sta già mettendo le mani avanti. Il ministro della Infrastrutture Enrico Giovannini in una delle ultime commissioni Ambiente della Camera lo ha detto chiaramente. A chi gli faceva notare il rischio che su alcune linee, come quella della riqualificazione urbana per le Città metropolitane (che da sola vale 2 miliardi di euro) molti enti soprattutto al Sud non sono in grado di presentare progetti alla scadenza dei bandi fissata per il 30 marzo, il ministro ha risposto senza giri di parole: «Sappiamo che ci potrebbero essere problemi di spesa, Bruxelles ha fissato a dicembre 2022 una verifica per rimodulare le somme non impegnate e utilizzarle in altri interventi». Tradotto: a dicembre il governo, con un Mezzogiorno che non riesce a garantire l’impegno delle somme per mancanza di progetti e assenza di una burocrazia minimamente efficiente, potrebbe essere costretto a riscrivere parte del Pnrr per miliardi di euro, con i sindaci del Nord capeggiati dal primo cittadino di Milano Giuseppe Sala che si sono detti pronti a spendere le risorse che si libereranno. Il Pnrr al momento funziona sì, ma solo sulla carta: se lo scorso anno questo bastava per avere applausi e consensi, in questo 2022 non basterà più.

 

CRISI ECONOMICA E PANDEMIA
Poi c’è il tema non meno delicato della ripresa economica. Dopo il tonfo del 2020 l’Italia lo scorso anno ha segnato livelli di crescita del Pil superiore alla media europea. Un rimbalzo promettente, ma che va messo in sicurezza per garantire non solo una maggiore occupazione ma anche una riduzione del deficit che crescerà nei prossimi anni, anche per effetto dei prestiti chiesti all’Ue nel Pnrr. Le avvisaglie dei centri studi dicono che l’Italia cammina su un filo sottile, sottilissimo: almeno 700 mila aziende rischiano il crac per diversi motivi. Il primo è l’aumento dei costi dell’energia. Un senatore della Lega molto vicino a Matteo Salvini non a caso prevede un futuro nero per qualsiasi governo in questo anno e scommette comunque sulle dimissioni di Draghi entro l’estate: «Abbiamo fatto i conti, che sono poi quelli che circolano anche a Palazzo Chigi. Servono 30 miliardi di euro per calmierare il caro energia non solo per le famiglie ma anche per le aziende. Il governo invece al momento prevede di fare ulteriore deficit per avere 10 miliardi solo per le famiglie. Il conto per le aziende sarà salatissimo e dopo il primo trimestre del 2022 inizieranno i problemi seri di tenuta della produzione».

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A questo scenario si aggiunge un altro grande scoglio da superare in questo primo trimestre. L’Abi, l’Associazione bancaria italiana, dopo aver preso atto che nel decreto ristori non ci saranno proroghe alla moratoria sulla restituzione dei crediti a rischio, iniziata nel marzo 2020 e scaduta lo scorso dicembre, ha fatto i conti: ci sono 25 miliardi di euro di crediti a rischio e delle due l’una, o vanno in crisi le banche con quel che ne consegue, oppure migliaia di attività chiuderanno i battenti. E c’è di più. Il governo nel decreto ristori ha anche ridotto le garanzie dello Stato ai prestiti delle piccole imprese: le aziendine dovranno versare una quota al fondo di garanzia e per i prestiti fino a 30 mila la garanzia pubblica si riduce dal 90 all’80 per cento. Secondo l’Abi questo scudo non basta, considerando che la pandemia continua a creare problemi alla ripresa economica. Nei primi mesi di questo nuovo anno il governo dovrà dare risposte: trovando ulteriori risorse, facendo nuovo deficit oppure dicendo semplicemente «no, questo è il massimo che possiamo fare». In ogni caso si tratta di scelte molto delicate, che richiederebbero un ampio consenso politico che qualsiasi governo dopo l’elezione del Capo dello Stato di sicuro non avrà.

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Infine c’è un’altra incognita, la più grande di questo anno alle porte: la pandemia continuerà a colpire il Paese o andrà scemando? Anche su questo fronte il muro di efficientismo del governo Draghi, e del generale Francesco Figliuolo, inizia ad avere crepe di non poco conto per l’opinione pubblica e non solo. Sul fronte sanitario, molte Regioni non hanno speso i soldi per realizzare nuove e vere terapie intensive: in Sicilia è bastato superare la quota di 100 ricoverati Covid-19 intubati per far andare in tilt tutto il sistema sanitario; oppure hanno problemi irrisolti di medicina territoriale, come la Lombardia di Attilio Fontana. Alla fine le grane però arrivano sempre al governo centrale, chiamato a prendere misure di contenimento del virus per tutto il Paese senza avere alcuna leva diretta sulla sanità ormai gestita dalle Regioni dopo la riforma del Titolo V della Costituzione voluta dal centrodestra berlusconiano e leghista. Sulla scuola inoltre, chiusa l’era dei banchi a rotelle, è seguito poco o nulla: nessuna assunzione di personale in più, nessun investimento infrastrutturale per migliorare l’affollamento nelle aule, nessun investimento sulla aereazione dei locali e sulla Dad.

Nel 2021 c’era da salvare il Paese, almeno questa era la narrazione principale. Nel 2022 si attendono risposte, dal governo Draghi o da chiunque prenderà il suo posto. Intanto il premier gioca la carta del Quirinale. La sedia di Palazzo Chigi si sta già riscaldando troppo anche per lui.