Messico
Lo torturano e sbattono in carcere 21 anni per omicidio. Ma la “vittima” è viva. L’assurdo caso Valdovinos
Il presunto ucciso ero sparito e inscenando la propria morte ha fatto intascare i soldi dell’assicurazione alla famiglia. L’arrestato ha ammesso la propria responsabilità a causa delle sevizie: “Oggi Mi batto per i diritti umani, perché non accada più”
Tepexpan è una città nel centro del Messico, a pochi chilometri della capitale. È famosa soprattutto per la scoperta di uno scheletro di epoca precolombiana. Il 26 maggio 2000, Manuel Ramírez Valdovinos aveva 22 anni, insegnava musica e si era trasferito lì da poco. Stava festeggiando con parenti e amici la nascita di suo figlio. Tramontato il sole, un commando di uomini armati fa irruzione nella sua abitazione. «Dove è Manuel?», ripete urlando uno di loro. Tutti i presenti sono terrorizzati. Manuel viene picchiato, ammanettato e trascinato via con la forza con la testa coperta su un furgone anonimo. Tornerà libero solo 21 anni dopo.
L’anno scorso Manuel è stato finalmente rilasciato, graziato da un’amnistia, anche se per il Messico rimane ancora un omicida. L’aspetto più sconvolgente è che - stando alle numerosissime prove e testimonianze - l’uomo che, secondo l’accusa, avrebbe ucciso non solo sarebbe ancora vivo e residente negli Stati Uniti, ma sarebbe anche l’autore di un omicidio. Avrebbe inscenato la sua morte per scappare dalla giustizia e, contemporaneamente, far incassare alla famiglia l’assicurazione sulla vita.
Quando riusciamo a raggiungerlo telefonicamente, Manuel Ramírez Valdovinos esordisce con un «hola amigo», poi, durante il racconto, dosa rabbia e voglia di combattere per la verità. «Il mio Paese si è preso gioco di me, fregandosene dei diritti umani. Ora che sono libero non cerco vendetta ma giustizia. Mi hanno strappato dalla mia famiglia e ho perso tutto. Sono stato torturato da innocente e sto ancora soffrendo le conseguenze di questa ingiustizia». Nonostante tutto, crede ancora nella possibilità che il diritto prevalga. «Ci credo, e continuerò a lottare anche a rischio della mia vita. I diritti umani devono essere universali». Questa incredibile storia di malagiustizia messicana è stata recentemente raccontata con una lunga inchiesta dell’Economist. Il giornalista Matthew Bremner ha seguito il caso di Ramírez per quasi tre anni. «È l’emblema di come il sistema giudiziario messicano non funzioni per niente», dice Bremner.
Negli ultimi due decenni, insieme al suo avvocato, Ramírez non ha mai smesso di combattere. Ha presentato una denuncia contro lo Stato del Messico alla Commissione interamericana dei diritti umani (Iachr) che pochi mesi fa l’ha accolta: ora il Tribunale internazionale sta indagando per violazione dei diritti umani. Torniamo alle 20.30 del 26 maggio 2000, l’ora e il giorno dell’arresto. Da lì a poco, Ramírez si ritrova in un posto «buio e piccolo» dove nota «due enormi tamburi d’acciaio, batterie per auto, manette e secchielli di ghiaccio». Insieme a lui, vengono presi altri due uomini: suo cognato e un conoscente. Il primo, Vera, smetterà presto di cercare di provare la sua innocenza, mentre il secondo, Sánchez, morirà in carcere nel 2014. Manuel racconta di essere stato «spogliato, legato, torturato e minacciato». I rapitori, che poi si scoprono essere poliziotti, gli hanno chiesto più volte di confessare l’omicidio di Emmanuel Martínez Elizalde, un ragazzo che conosceva appena.
Ramírez continua a negare le accuse e volano pugni e schiaffi. Uno degli agenti va a prendere una batteria e collega gli elettrodi ai testicoli di Manuel che in poco tempo perde coscienza. Quando si risveglia, viene portato in una caserma di polizia. Ricorda che il comandante, rivolto al padre della presunta vittima, dice: «Ci hai chiesto di trovare un colpevole e lo abbiamo fatto». Poi finisce in una stanza dove altri agenti continuano a ripetergli che deve «confessare l’omicidio». Altrimenti, gli viene detto, sua moglie e suo figlio «pagheranno il prezzo della sua testardaggine». A quel punto cede e firma un foglio bianco dove poi gli agenti inventeranno la sua confessione.
Non c’è un avvocato presente, i poliziotti hanno mano libera. Un anno dopo viene condannato a 41 anni di carcere. Secondo numerosi esperti e consulenti forensi interpellati dall’Economist, il rapporto di polizia sul presunto omicidio di Elizalde riporta numerose discrepanze. Gli indizi non corrispondono, le prove presentano irregolarità lampanti e, durante il processo a Ramírez, le testimonianze dell’accusa si contraddicono tra loro. Diverse ambiguità riguardano proprio il cadavere della presunta vittima. Nel 2002 la madre di Ramirez riceve una busta anonima contenente foto che ritraevano Elizalde vivo. Nel frattempo, nel processo di appello, emergono elementi sulla responsabilità di Elizalde per un omicidio. E soprattutto confermano che è vivo. Il quadro va delineandosi e inizia a spiegarsi il motivo per cui si è finto morto: farla franca per il delitto che ha commesso e frodare l’assicurazione.
L’accumularsi di nuove testimonianze costringe le autorità, nell’agosto del 2003, a riesumare il corpo di quello che dovrebbe essere Elizalde. Si scopre che i resti appartengono a un’altra persona. Con il tempo, grazie alla determinazione di Ramírez, il suo caso inizia a interessare l’opinione pubblica. Intervengono alcuni politici come Pedro Carrizales, poi morto in un incidente stradale sul quale Ramírez ha più di un dubbio («lo hanno ucciso»). Vengono organizzate manifestazioni e proteste per fare pressione sul governo. Il presidente Andrés López Obrador promette pubblicamente di interessarsi alla vicenda che riserva parecchi profili di imbarazzo: la disinvoltura delle indagini, l’ostinata ricerca di un colpevole per chiudere il caso della finta morte di Elizalde, l’ostinata omissione di qualsiasi indagine sul presunto omicidio, la sistematica manipolazione delle prove. E, su tutto, il sospetto di un giro di corruzione. Oltre naturalmente, alle sevizie denunciate da Ramírez. Si arriva al maggio dell’anno scorso quando viene organizzata un’imponente marcia e uno sciopero della fame.
Poco dopo, il 16 luglio 2021, Manuel viene rilasciato. Tornato in città, come prima cosa, compra una torta per il compleanno del padre. «Non ho avuto giustizia, sono libero grazie alla pressione della società. Per questo sono molto arrabbiato», spiega Ramírez: «Non cerco né denaro né potere. Vorrei solo che il mio caso di ingiustizia e tortura venisse riconosciuto e arrivasse a costituire un precedente, così che in Messico o in America Latina non possa mai più succedere una cosa del genere. Spero nell’indagine avviata dalla Corte dei diritti umani. Tutti devono avere diritto a una vita libera dalla violenza e dall’ingiustizia». Per cambiare il sistema, spiega, «serve una legge che sanzioni duramente chi viene corrotto mentre ricopre un ruolo pubblico. Devono patire il carcere perché capiscano cosa abbiamo passato noi. Quasi tutti i detenuti che ho conosciuto lamentavano processi farsa frutto di torture come il mio. In Messico la pena non ha alcuna finalità di rieducare il condannato. Io ho resistito per 21 lunghi anni solo nella consapevolezza di essere innocente. Anche se vivevo nella morsa dell’ingiustizia che provoca impotenza. Adesso voglio andare fino in fondo».
Nell’informativa che l’Iachr ha trasmesso al Tribunale internazionale si chiede che «lo Stato messicano sia dichiarato responsabile a livello internazionale della violazione dei diritti umani a causa della detenzione, tortura, persecuzione e condanna nell’ambito di un procedimento penale che non ha rispettato le adeguate garanzie giudiziarie». Il Messico ha provato a opporsi definendo il ricorso «fuori tempo». I giudici hanno però dato ragione a Ramírez. «Non cerco di cambiare il mondo ma vorrei che le persone capiscano. Non dovrebbe succedere a nessuno quel che è accaduto a me».