Nuovi cittadini
I migranti minorenni sono sempre di più, e sempre più a rischio
Gli arrivi aumentano per colpa della guerra. Il sistema dell’accoglienza è saturo. Chi compie 18 anni viene lasciato a sé stesso. E le reti criminali sono pronte ad assoldare nuova manovalanza
Mohamed D. non è più minorenne, non è più solo: ha vent’anni ed è già vecchissimo. È arrivato in Italia cinque anni fa, su un barcone. Era partito dalla Costa d’Avorio insieme a un amico: «Mi ha pagato il viaggio, l’ho visto morire in mare», ricorda. Oggi Mohamed lavora come secondo chef in un ristorante nel centro storico di Genova, e con l’associazione Defence for children dà una mano a chi sta passando quello che ha vissuto lui. Ma questa è la fine della storia: per arrivarci ha attraversato tutte le caselle del percorso a ostacoli di un minore straniero non accompagnato in Italia. Ha dormito su una panchina, ha mangiato alla mensa dei poveri. È stato portato in questura, preso in carico dal Comune e finito in un albergo nella zona dello spaccio, in via Pré, perché i posti in accoglienza erano saturi: «Stavamo in giro tutto il giorno. Se vuoi rovinare la tua vita è molto facile. La mia fortuna è stata trovare la mia tutrice, che io chiamo mamma Tutina: mi ha dato tanto. Ed è andato tutto bene».
Ma non va sempre tutto bene, per un minore straniero non accompagnato che arriva in Italia: per legge la presa in carico spetta ai Comuni, ma il sistema sta andando in tilt. E non perché i numeri – seppur in crescita, con la ripresa degli sbarchi e i nuovi flussi dall’Ucraina – siano esorbitanti: secondo il report mensile del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali aggiornato al 31 luglio, sul territorio sono oltre 16 mila. A gennaio erano 11.500. La loro protezione in Italia è garantita da una legge tra le migliori a livello europeo, la 47 del 2017: che, però, viene applicata in parte e in modo disomogeneo.
La concentrazione nelle grandi città, la cronica insufficienza di posti Sai (il sistema accoglienza integrazione che garantirebbe una presa in carico più strutturata), la carenza di progetti educativi, il pantano burocratico che rende lenta e tortuosa l’assegnazione di tutori legali rischiano di trasformare questi ragazzi molto vicini alla maggiore età in fantasmi urbani. E di innescare fratture sociali.
Come è accaduto a Milano, la città con la maggiore concentrazione: 1.200 a fronte di 400 posti Sai. «Siamo schiacciati su un approccio emergenziale, il rischio che si accendano micce è fisiologico», spiega Lamberto Bertolé, assessore al Welfare del Comune di Milano. Come succede a Genova, dove il tema è diventato un caso: oltre 400 minori, l’80 per cento in più rispetto all’anno precedente, l’allestimento in fretta e furia di centri di accoglienza che provocano la sollevazione di un quartiere dopo l’altro, scontri e risse, tanto che la giunta di centrodestra del sindaco Marco Bucci ora invoca aiuti dal Viminale.
A causa della guerra, la maggior parte dei minori stranieri soli oggi proviene dall’Ucraina: 5.577, al 31 luglio. Un flusso parallelo che si è andato a sovrapporre a quello degli sbarchi, che resta sempre il principale: sono 1.066 i minori soli arrivati in Italia a luglio con i barconi, come Mohamed. Sul territorio si trovano poi soprattutto egiziani (2.842), seguiti da tunisini (1.382) e albanesi (1.327). Stando agli ultimi dati ministeriali, è la Sicilia la regione che ospita di più (3.045), seguita dalla Lombardia, con 2.875. Un’accoglienza che ricade tutta sulle spalle dei Comuni: perché nonostante a livello nazionale la rete Sai sia stata ampliata – a giugno per i minori i posti erano 6.634, la concentrazione più alta in Sicilia con 1.716 - la coperta è sempre corta.
Così accade che ad Agrigento le accoglienze Sai siano 112 e i ragazzini 1.200: come a Milano. «Una sproporzione rispetto alla reale capacità di un territorio che rende impossibile una presa in carico adeguata», spiega Pippo Costella, direttore di Defence for children international, associazione che ha realizzato il secondo rapporto nazionale sull’applicazione della legge 47 del 2017.
A Milano il primo filtro, la porta di accesso al sistema è in viale Sarca. Molti si presentano qui con un bigliettino in tasca, con su scritto il nome del centro di accoglienza dove pensano di essere destinati: effetto del passaparola. «Perché così tanti da noi? Quando un sistema offre risposte diventa più attrattivo e i numeri crescono». Lamberto Bertolè, un passato da operatore sociale e da insegnante, nella giunta di Beppe Sala si è trovato a ricoprire nell’ultimo anno un ruolo complicato.
Perché a Milano gli arrivi sono cresciuti a livelli esponenziali. «La mia priorità è non lasciare fuori nessuno, il carico sulle spalle del Comune è alto: e non è solo un tema economico. La quota di rimborso agli enti è aumentata: dai 45 euro per migrante al giorno siamo passati, in estate, a 60. Ma il punto è che la concentrazione nelle grandi città impedisce di seguire con qualità le persone. Ogni regione dovrebbe distribuire meglio gli arrivi su tutto il territorio».
A Genova, nel sestiere del Molo al porto antico, c’è un edificio imponente: nato come asilo notturno per persone senza dimora ai primi del Novecento grazie alla donazione di Luigi Massoero. È qui, all’ex Massoero, che il Comune durante l’estate ha sistemato in via temporanea una ventina di minori stranieri non accompagnati. Dopo una serie di furti, assemblee serali infuocate indette dai residenti della zona e l’episodio di un cittadino armato di spranga che minacciava di fare irruzione perché sosteneva che alcuni ospiti avessero molestato la figlia, il centro è stato sgomberato e i minori spostati. Dove? In centri analoghi allestiti in altri quartieri, dove puntualmente si sono accese proteste a effetto domino. «Non possiamo andare avanti così, abbiamo bisogno di strutture di prima accoglienza governativa», sbotta la neoassessora ai Servizi sociali Lorenza Rosso.
Il chiostro fiorito, il giardino, il ponte San Giorgio incorniciato dalla finestra, come una cartolina: sembra un collegio, la comunità di prima accoglienza Terra e quella di emergenza Il Campetto, quaranta posti in tutto nell’ex convento dei Cappuccini dove il Ceis - Centro di solidarietà Genova onlus - ha aperto da pochi mesi un centro. I ragazzi giocano a biliardino, il laboratorio creativo è tappezzato di disegni: riesce difficile immaginare che anche qui ci sono state tensioni, un operatore è stato minacciato con il coltello da adolescenti poco più che bambini con vite dolorose alle spalle.
«Vorrebbero lavorare, hanno fretta di mandare soldi alle loro famiglie che si sono indebitate per farli partire. Ma si scontrano con tempi infiniti: ospitiamo ragazzi che dovrebbero restare due mesi e sono qui da febbraio perché le seconde accoglienze sono sature», dice Chiara Cavallante, responsabile della comunità Terra. «Sono fragili dal punto di vista psichico, portano i segni di percosse, è necessario il supporto della sanità. E nel lungo periodo, comunità educative più idonee», spiega Enrico Costa, presidente del Ceis.
Il 43 per cento dei minori stranieri non accompagnati, in Italia, ha 17 anni. E la vicinanza alla maggiore età rende tutto più complicato. «In partnership con il Comune e altre organizzazioni portiamo avanti un progetto post-18», racconta Monica Durigon della cooperativa Esserci di Torino, che gestisce un centro per minori a Rivoli all’interno della rete Nomis. Per evitare il salto nel buio dei diciotto anni, la cooperativa ha aderito al progetto nazionale Never alone, per portare all’autonomia lavorativa ed esistenziale i ragazzi. Perché per questi bambini già adulti l’infanzia è finita da un pezzo: ma è da maggiorenni che rischiano di perdersi. Soli, davvero.