Diritti mancati
Catalina, Zorina, Adriana, le braccianti invisibili calpestate dal nostro Paese
Piegate sui campi, sette giorni su sette per una paga misera. Vittime di molestie sessuali, sfruttate e senza diritti. Dopo il rapporto denuncia di ActionAid “Cambia terra” abbiamo lasciato a loro la parola
Violenze e discriminazioni nei campi, all’ombra di un capitalismo prossimo a viaggiare sulle gambe volanti dei droni. E due anni di pandemia hanno peggiorato inesorabilmente la situazione. Vittime preferenziali, le donne, soprattutto straniere. Lavorano senza pause, senza un bagno dove andare, magari senza nemmeno una bottiglietta d’acqua. Donne invisibili quelle che raccolgono la frutta e la verdura che atterra ben levigata sulle nostre tavole, alla mercé di salari da fame e in nero. Il loro guadagno medio si attesta infatti sulle settecento euro al mese, pur lavorando dieci ore al giorno, sei giorni su sette: in busta paga viene segnato meno dell’indispensabile. Uno sfruttamento dal retrogusto medievale per tutte loro.
Prevaricazioni massicce e sommerse, diritti elementari calpestati, molestie sessuali e aggressioni. Della serie, la schiavitù non è stata abolita veramente dappertutto. È dal 2016 che ActionAid indaga sulle inconcepibili condizioni femminili occupazionali e di vita in agricoltura in certe frange della Puglia, della Basilicata e della Calabria, dove il caporalato muove una considerevole economia illegale. Nel suo ultimo rapporto, intitolato “Cambia terra”, l’organizzazione ha intervistato decine di operaie agricole comunitarie di origine rumena e bulgara. Impiegate nell’arco ionico, l’area che comprende le province di Matera, Taranto e Cosenza. E le loro testimonianze sono agghiaccianti.
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Catalina (nome di fantasia). Ha trentadue anni, è arrivata in Italia dodici anni fa con i genitori. Vorrebbe terminare l’università, Economia e Commercio, se potesse permetterselo. «Non lavoravo nei campi da tre anni. Ho dovuto ricominciare per via della pandemia, ho perso il posto da ragioniera. È difficile trovare qualcos’altro se si è rumene come me. Comincio a lavorare alle sei del mattino, preparo il terreno per piantare le fragole. Sto sempre piegata e adesso che sono incinta è molto faticoso. È logorante, ma sono obbligata ad andarci, ho bisogno di soldi. Secondo il ginecologo dovrei smettere subito: alle volte mentre lavoro sento dei crampi, dice che corro il rischio di perdere il bambino. Guadagno trentotto euro al giorno. C’è chi lavora senza soluzione di continuità, dal lunedì alla domenica. Ho provato a cambiare settore, cercando un posto come segretaria od operaia nei magazzini di impacchettamento, ma ho ricevuto in cambio solo avances sessuali. “Sei giovane e bella, usciamo insieme” mi dicevano, e se avessi accettato mi avrebbero dato forse il posto. Ma a questo punto è meglio zappare. Purtroppo mi è accaduto lo stesso anche nelle serre. All’inizio sono cortesi, poi diventano sempre più insistenti. Sono italiani, sanno delle nostre difficoltà economiche, pensano che siamo delle morte di fame pronte a tutto. Mi viene l’ansia e tanta rabbia. Avrei voluto denunciare tante volte. Ho conosciuto parecchie altre ragazze nella mia situazione». La rappresaglia, la ritorsione, la lista nera è dietro l’angolo.
Racconta Annarita Del Vecchio, psicologa e collaboratrice di ActionAid in Puglia: «Le rumene in particolare sono considerate donne facili, poco di buono, pericolose perché si crede che vengano a rubare i mariti delle italiane. Molte si ribellano, ma quando rispondono ai tentativi di abuso con il rifiuto restano disoccupate. I molestatori restano impuniti perché non ci sono denunce».
C’è un figuro soprannominato “l’uomo delle cime di rape”. Imperversa nella zona di Ginosa Marina, è un caporale che molesta le donne che lavorano per lui. Nel barese esiste invece una tecnica codificata. La mattina, quando nelle piazze sopraggiungono i furgoni per portare le operaie nei campi, la “prescelta” viene fatta salire davanti, nello spazio accanto al guidatore. Sul cruscotto vengono apposti un cornetto e un caffè caldo. Se mangi la colazione simbolicamente offerta, vuol dire che accetti la molestia sessuale implicita e quindi otterrai l’ingaggio di giornata. Ma se rifiuti, il giorno dopo rimani a casa.
Zorina (nome di fantasia). Lavora in Calabria. Viene dalla Bulgaria ed è una stagionale da molti anni. «Io ho denunciato, non ho avuto paura. Stare nei campi annichilisce l’autostima, ti svuota e ti annulla, perché siamo considerate degli oggetti. Le donne non socializzano con nessuno quello che accade, pensano che il sistema in cui si trovano sia normale. Il problema delle molestie è che le lavoratrici non se le aspettano, non conoscono i loro diritti, non ricevono informazioni adeguate e così restano per lo più in silenzio».
Adriana (nome vero, leader di ActionAid in Calabria). È originaria della Romania. Ha lavorato per anni nei campi, oggi è una colf. «Quante violenze fisiche e psicologiche avvengono. Le donne che le subiscono non conoscono bene la lingua, non hanno una famiglia oppure hanno un marito complice del datore di lavoro abietto. Sono soggetti molto fragili e vulnerabili e più la società le isola e marginalizza, più diventa arduo rispondere alle angherie del capo o del caporale che approfittano dello spaesamento di queste donne, del fatto che non abbiano accesso ai servizi, non sappiano a chi indirizzarsi. La loro debolezza così si accentua e si connette a una perdita di identità culturale e morale. Si arriva a sentirsi degli scarti della società, escluse dal consorzio civile. Ad abituarsi al peggio, restando sotto il torchio dello sfruttatore e carnefice. Uno dei problemi di cui non si parla mai è quello della maternità. Come se noi non avessimo diritto a esser madri. La gestione dei figli è davvero difficile. In campagna si inizia a lavorare molto presto, alle due o tre di notte, e allora ci tocca prendere i bambini ancora addormentati e portarli a casa di estranee che ne accudiscono cinque, sei o dieci nelle loro case. Li tengono fino al pomeriggio. Non potremmo certo portarli all’asilo in piena notte. Siamo costrette perciò a ricorrere a soluzioni informali, pericolose, destinate a lasciare in loro pesanti strascichi». In alternativa, non avendo una rete familiare di sostegno in loco, vanno con loro nelle serre, dormono dentro cassette di legno. Quelli che non erano stati lasciati giocoforza in patria, da nonni e zii. In Calabria esistono asili nido dedicati irregolari, a pagamento e in nero con personale per nulla qualificato. «Non interessa a nessuno dove lasciamo i nostri bambini. Non conta se ci mancano, se non li vediamo per mesi. Le braccianti sono invisibili, sono solo dei numeri. A volte dobbiamo anche rinunciare al nostro nome se è difficile da pronunciare, per potere avere un impiego ne troviamo un altro, più facile per gli italiani» conclude Adriana.
Spiega Grazia Moschetti, responsabile dei progetti ActionAid nell’Arco Ionico: «Il modello agricolo attuale non è sostenibile, né per le lavoratrici a rischio o in condizioni di sfruttamento, né per le tante imprese che rispettano le regole nonostante le molte difficoltà che il mercato e la concorrenza sleale impone loro. Abbiamo bisogno di cambiare prospettiva, mettendo al centro i bisogni delle lavoratrici agricole come cittadine e come persone che a oggi sono escluse dai più basilari servizi di welfare e più in generale dai processi democratici delle comunità di appartenenza. Servono spazi pubblici di confronto dedicati alle donne, costruiti da loro e supportati da tutte le parti in causa, dalle imprese alle associazioni. Solo con il contributo di tutti - come sta accadendo nell'Arco ionico - possiamo coltivare relazioni positive dentro e fuori i luoghi di lavoro. Le operaie agricole non possono più essere escluse o lasciate ai margini degli interventi delle istituzioni, a oggi attuati senza una chiara prospettiva di genere. Continuare a farlo significa non mettere fine deliberatamente alle violazioni dei diritti e alle violenze che subiscono».