L’occupazione ha quasi recuperato i livelli pre Covid, ma oltre la metà dei nuovi contratti sono a tempo determinato o part time. Ma le aziende non trovano personale: «Effetto dei bassi salari, non del reddito di cittadinanza»

Vista da Firenze, una delle capitali italiane del turismo, la situazione sta in questi termini: «Cerco personale per l’estate, ma non lo trovo. Eppure offro contratto e salario adeguati. Niente da fare. E allora sono costretto a tagliare sugli orari di apertura», si lamenta Aldo Cursano titolare dello storico “Caffè Le Rose” e di altri due ristoranti nel capoluogo toscano. A Brescia, nel cuore del Nord produttivo, gli industriali locali faticano a reperire lavoratori specializzati, soprattutto giovani, da inserire in fabbrica. «È un’emergenza su cui bisogna intervenire con la massima rapidità», dice Elisa Torchiani, a capo dell’impresa chimica di famiglia e vicepresidente di Confindustria Brescia.

 

I numeri confermano l’allarme lanciato dagli imprenditori. Nell’Italia appena uscita dal tunnel della pandemia il mercato del lavoro ha il motore in panne. Aumenta l’occupazione, a marzo 800 mila posti in più rispetto a un anno prima, ma la crescita per oltre la metà riguarda dipendenti a termine. Questo esercito di nuovi precari trova un impiego per la quasi totalità nel settore dei servizi, in negozi, bar o uffici, per posizioni a basso valore aggiunto che non richiedono particolari qualifiche o specializzazioni. Ancora non basta, però. E infatti, come segnalano le statistiche più recenti, in questi ultimi mesi ha fatto segnare nuovi record anche il numero dei posti vacanti, che nel primo trimestre del 2022 sono quasi raddoppiati rispetto al 2019, prima del Covid.

 

Adesso, il totale delle posizioni lavorative non coperte nelle aziende con più di 10 dipendenti sfiora il 2 per cento. Questo dato andrebbe incrociato con i risultati di un’altra indagine appena pubblicata dalla Commissione Europea. La ricerca di Eurostat segnala come l’Italia sia di gran lunga il Paese dell’Unione che conta sul maggior numero di cittadini che potrebbero lavorare ma non cercano un’occupazione. Siamo al 10 per cento circa della popolazione tra i 15 e i 74 anni, più del doppio rispetto a Spagna e Grecia, dove pure il numero complessivo dei non occupati è simile a quello italiano.

A quanto pare, insomma, le imprese faticano sempre di più a coprire i vuoti in organico, ma allo stesso tempo si è allargata la fascia degli inattivi. A Brescia, per esempio, una recente ricerca della Confindustria locale condotta su un campione di 178 imprese locali con circa 18 mila dipendenti segnala che la quasi totalità delle aziende (tra il 97 e il 98 per cento) dichiara di avere difficoltà nel reperire tecnici e operai specializzati. I due terzi circa degli imprenditori interpellati denuncia quello che nella ricerca viene definito un “gap qualitativo” dei candidati, che, quindi, non avevano le competenze richieste dall’azienda.

 

Domanda e offerta di lavoro non si incontrano. Un fenomeno che gli studiosi identificano con una parola, “mismatch”. C’è un problema di formazione, come sottolinea la ricerca di Confindustria Brescia. «Va migliorata la collaborazione con la scuola per orientare gli studenti verso i percorsi di studio più adeguati per l’ingresso in azienda», afferma Torchiani. Il dato di partenza non è granché confortante: solo il 27 per cento del campione di aziende bresciane che ha partecipato all’indagine si affida agli istituti tecnici per trovare giovani da assumere, mentre il 44 per cento preferisce il passaparola e i rapporti personali.

Italian Job
«Non puoi andare in bagno. Falla nel secchio o tienitela per 13 ore»: storie di ordinari soprusi sul posto di lavoro
18/5/2022

Per spiegare le crescenti difficoltà nel reclutamento di personale viene spesso tirato in ballo il lavoro nero, oppure, da qualche anno, anche il reddito di cittadinanza. In sostanza, non ci sarebbe alcun incentivo a trovare un posto per chi può contare su una retribuzione garantita dallo Stato oppure sbarca il lunario grazie un’occupazione nel mare magnum del sommerso. «Non credo che i problemi denunciati da molti imprenditori siano da attribuire in particolare al reddito di cittadinanza», dice Francesco Seghezzi, presidente del centro studi Adapt. «Di sicuro - continua Seghezzi - anche per effetto di un sistema di controlli molto laschi, c’è chi arrotonda illegalmente il reddito di cittadinanza con uno stipendio in nero, ma questo nulla c’entra con il rifiuto di regolari offerte di lavoro. L’assegno pubblico è in media così modesto, all’incirca 550 euro al mese, che dubito sia sufficiente per convincere un gran numero di persone a rinunciare a un’occupazione in regola». Nel caso degli stagionali, secondo il presidente di Adapt, «sono i salari estremamente bassi e le condizioni disagiate di lavoro che tengono lontani i lavoratori».

 

Il ristoratore Cursano, che è anche presidente di Confcommercio Toscana, si è fatto un’idea diversa. «I giovani non rispondono alle chiamate delle aziende, non si fanno avanti, soprattutto - spiega l’imprenditore - in settori come quello della ristorazione o dell’ospitalità dove spesso si lavora in orari scomodi, alla sera e nei weekend». E in molti casi, secondo Cursano, il reddito di cittadinanza e il sussidio di disoccupazione (Naspi), offrono quel minimo di entrate «che permettono a molti disoccupati di fare a meno di un impiego, almeno fino a quando non trovano qualcosa di più gratificante e meno faticoso».

La bomba sociale
Inflazione e salari in calo: la mancia del governo non basta. E il peggio deve ancora venire
9/5/2022

Difficile negare, però, che in Italia il mercato condanna centinaia di migliaia di lavoratori alla sottoccupazione, costretti pur di avere uno stipendio, a ripiegare su posizioni inferiori alle loro qualifiche o alle loro aspettative. In questa chiave va letta, per esempio, la quota rilevante di part-time involontario, che riguarda quei dipendenti che sarebbero pronti a lavorare a tempo pieno, ma devono accettare un orario più breve per non perdere il posto. Questa categoria rappresenta, dice Seghezzi di Adapt, «almeno la metà del totale dei lavoratori part-time».

 

Senza dimenticare che l’occupazione a tempo parziale viene in molti casi integrata con un compenso in nero per le ore supplementari non dichiarate. «Le difficoltà di reclutamento denunciate da molte imprese sono sicuramente reali», dice la sociologa del lavoro Marianna Filandri, docente all’università di Torino. «Ma la narrativa corrente che attribuisce tutta la responsabilità al lavoratore è frutto di una visione parziale che imputa tutta la responsabilità al soggetto più debole, al disoccupato», afferma Filandri. Secondo la studiosa, autrice di testi sulla sociologia delle disuguaglianze economiche, c’è un problema “sistemico” che dipende anche dalla struttura del nostro tessuto economico, fondato su piccole e medie imprese che fanno più fatica a trovare sul mercato profili adeguati e in molti casi anche a offrire retribuzioni adeguate. «Aziende di dimensione modesta spesso rinunciano a investire e tagliano sui salari dei dipendenti per rimanere competitive», questa in sintesi l’analisi di Filandri.

[[(gele.Finegil.Image2014v1) GETTYIMAGES-923716798-2048X2048_ALTA]]

Se questa è la situazione, non è una sorpresa che lo shock imposto dalla pandemia fatichi a essere riassorbito. Il numero degli occupati che a marzo (ultimo dato disponibile) era appena superiore a 23 milioni, non è ancora tornato, sia pure per poco, ai livelli pre-Covid, cioè i 23,1 milioni di lavoratori di marzo 2019. Inoltre, ed è questo il dato che gli analisti considerano più significativo, il numero delle ore lavorate per addetto rimane inferiore a quello registrato prima del 2020 e si trova ai livelli più bassi in Europa, frutto della quota rilevante di part-time e sottoccupati vari. È questa la conferma, l’ennesima, che la ripresa economica si fonda in buona parte su impieghi a termine e molto spesso poco qualificati. Non per niente, come segnala l’Istat, nell’ultimo anno l’occupazione femminile è cresciuta in misura maggiore rispetto a quella maschile. Proprio tra le donne, infatti, si concentra gran parte del lavoro a tempo parziale.

 

L’onda lunga della precarizzazione non sembra destinata a rientrare a breve. Anzi, come dice il sociologo Antonio Casilli, professore dell’Istituto Politecnico di Parigi, «un Paese popolato da piccole medie aziende che investono poco in formazione del personale e in tecnologia è destinato a produrre soprattutto lavoratori poco qualificati e a bassa produttività». Un’ipoteca sul futuro di un Paese che ha ben poco da offrire ai giovani.