Il conflitto è mutato: gli Stati Uniti puntano a dare una severa lezione alla Russia e anche il presidente ucraino Zelensky cambia parole d’ordine e chiede l’integrità del territorio, Crimea inclusa. L’Europa intanto continua a non avere un ruolo da protagonista e le opinioni pubbliche si dividono sul continuare a inviare armi

Avanti fino alla vittoria, dice Joe Biden. Avanti fino alla vittoria, dice Vladimir Putin. Già, ma quale vittoria? Cosa è la vittoria? Fin dal lessico appare evidente che la guerra ha mutato di segno, si è incrudelita, sino a diventare un conflitto tra Russia e Stati Uniti da giocarsi sul terreno dell'Ucraina. E in questa fase non c'è alcuno spazio per il negoziato dopo oltre settanta giorni, un tempo lungo per le nostre speranze che finisca, brevissimo per le durate usuali dei conflitti.

 

Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino, dopo aver cercato di frenare gli eccessi verbali di Biden prima dell'invasione, ne ha ormai adottato la linea e parla esplicitamente di voler «ripristinare l'integrità territoriale del suo Paese, inclusa la Crimea», quando due mesi fa si diceva disposto a trattare sullo status della penisola e persino su quello delle Repubbliche secessioniste di Donetsk e Luhansk. E chissà quanto crede davvero nella possibilità di una controffensiva per cacciare l'esercito di Mosca da territori che controlla dal 2014.

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Quanto allo zar del Cremlino, il suo atteggiamento ondivago e contraddittorio impedisce di definire i contorni delle sue pretese. L'Ucraina tutta pareva essere l'obiettivo del blitz fallito, il Donbass e la Crimea quello concreto quando ha dovuto tarare i desideri sulle effettive capacità del suo esercito. E tuttavia l'offensiva verso Odessa pare alludere alla scelta mediana di controllare l'intera costa del mar Nero per poi, magari, allargarsi alla Transnistria, la regione secessionista della Moldavia rimasta sovietica. E questo al netto della sua insopportabile propaganda retorica sull'occidente decadente e corrotto e sui valori della Santa Madre Russia.

 

Rispetto al 24 febbraio, dunque, è cambiato lo scenario bellico. Non più solo la difesa degli aggrediti ma la tentazione di dare una lezione all'aggressore da parte di Washington. Biden ha chiesto l'autorizzazione al Congresso per ulteriori 33 miliardi di dollari di aiuti all'Ucraina di cui 20 per armamenti e si è fatto fotografare, non per caso, nella fabbrica della Lockheed Martin in Alabama dove si producono i missili Javelin, fondamentali per la resistenza di Kiev. Un chiaro messaggio che allude alla possibilità del prolungamento della guerra per mesi se non per anni. Trova, l'inquilino della Casa Bianca, il pieno appoggio dell'Inghilterra di Boris Johnson e di alcuni Paesi est europei come la Polonia e le perplessità, se non proprio la contrarietà dichiarata, di Germania e Francia. Sino a ricalcare, pur in circostanze molto diverse, gli schieramenti del 2003 in occasione dell'invasione dell'Iraq quando un suo predecessore, George W. Bush, si mise a capo di una “coalizione dei volenterosi” a cui non partecipò, con l'eccezione della Spagna, l'Europa occidentale.

 

Sono purtroppo noti i disastrosi effetti di quella mossa, non solo sul terreno mediorientale, ma anche per le ferite che provocò alla coesione europea. Una dinamica, quest'ultima, che rischia di riproporsi a breve perché non si sa quanto a lungo i governi e le opinioni pubbliche alleate potranno reggere l'accelerazione imposta da Washington.

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Il presidente francese Emmanuel Macron aveva già invitato Joe Biden a moderare i toni contro Putin con il quale, presto o tardi, bisognerà comunque trattare. Per stare a casa nostra, Mario Draghi dovrà fare i conti con i malumori dei Cinque Stelle a cui si vanno sommando le perplessità crescenti nella base del Partito democratico dove un certo disagio serpeggia nell'ala sinistra oltre che nell'area cattolica, disagio espresso anche durante la marcia Perugia-Assisi. Mentre il segretario Enrico Letta registra le prime obiezioni dalle sedi periferiche sulla scelta di appoggiare l'ulteriore massiccio invio alle armi. Soprattutto dall'Emilia Romagna arriva il messaggio di diversi circoli: «Tutti vogliono aiutare l'aggredito ma non è chiaro se questa escalation sia finalizzata a trattare o a vincere, c'è una bella differenza». E a corroborare i dubbi si aggiungono due interventi illustri.

 

Uno di papa Francesco nell'intervista al Corriere della Sera che adombra la necessità di valutare le ragioni dell'altro: «Forse l'abbaiare della Nato alle porte della Russia ha indotto il capo del Cremlino a reagire male e a scatenare il conflitto. Un'ira che non so dire se sia stata provocata ma facilitata forse sì». L'altro del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha citato Robert Schuman: «La pace non può essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano».

 

Sforzi creativi. Sembra una parafrasi di ciò che non si vede all'orizzonte: la trattativa. Peraltro invocata dalla maggioranza degli italiani in un sondaggio di Ipsos per “diMartedì”. Il 48 per cento è contro l'invio di armi, il 40 favorevole, il 12 non sa. E ancora il 54 per cento vorrebbe che il nostro Paese creasse una propria posizione assieme all'Europa, per il 33 per cento bisogna stare con la Nato e con gli Usa (il 2 per cento con la Russia).

 

Dopo l'unità d'intenti della prima fase del conflitto in cui l'urgenza sacrosanta era limitare l'espansionismo putiniano, è evidente che Stati Uniti e una fetta dell'Europa hanno interessi divergenti, per ragioni geografiche oltre che politiche. Se l'obiettivo è un serio negoziato, bisogna anzitutto abbassare la febbre bellicista e cercare il modo migliore per ridurre il danno.

 

Evitando l'irrazionalità che spesso è cattiva consigliera e valutando realisticamente le condizioni più propizie per arrivare a un cessate il fuoco. E partendo dal presupposto che non si raggiungerà il risultato se non si permette ai contendenti di poter dire che hanno vinto.

 

L'integrità territoriale dell'Ucraina è praticamente impossibile da ottenere, non la si potrà avere nemmeno ingrassando a dismisura l'arsenale di Kiev. Ci vorrebbe un intervento diretto della Nato o degli Stati Uniti, ipotesi sempre scartata perché sarebbe il preludio a una Terza Guerra mondiale. Vladimir Putin non rinuncerà mai alla Crimea annessa nel 2014 e può invocare come fa, il precedente del Kosovo, riconosciuto per volontà americana da larga parte della comunità internazionale dopo un referendum, già annunciato peraltro anche nella fetta di Donbass che già occupa.

 

Fermarlo dove già sta è l'unica mediazione possibile. Comporta “concessioni dolorose” da parte Ucraina è vero. La formula, “concessioni dolorose”, usata spesso, ad esempio, nel conflitto israelo-palestinese ma mai adottata davvero, è esattamente la riduzione del danno, l'abbassamento del livello di violenza altrimenti destinato ad aumentare. Zelensky e Biden con lui potrebbero comunque vantare di avere bloccato l'invasione e permesso a quel che resta dell'Ucraina di seguire la sua vocazione filo-occidentale.

 

A chi giudica cinico questo ragionamento va ricordato che spesso il meglio è nemico del bene. Se riandiamo ai giorni immediatamente successivi al 24 febbraio, dovremmo constatare che allora Kiev era assediata, l'avanzata russa sembrava inarrestabile ed era in pericolo l'esistenza stessa dell'Ucraina, destinata a diventare una propaggine di Mosca. Nella ridiscussione del nuovo ordine mondiale, si è già posto un robusto alt all'idea primigenia di Putin di far rinascere un impero zarista che avrebbe potuto inghiottire, era il timore, oltre all'Ucraina stessa, le Repubbliche baltiche e persino qualche propaggine più a sud.

 

Non dobbiamo dimenticare, ovvio, che c'è un aggressore e c'è un aggredito e bene si è fatto, si fa, a stare dalla parte delle vittime. Ma viene il momento in cui la palla deve passare dai cannoni alla diplomazia. Nell'impossibilità di immaginare, ad oggi, una trattativa diretta tra Putin e Biden perché le distanze paiono incolmabili, e sarebbe la soluzione auspicabile, sarebbe bello che fosse l'Europa ad elaborare un credibile piano di pace. Sarebbe bello che l'Europa avesse un ruolo da protagonista in una guerra che si combatte sul suo suolo.