Le armi
La guerra in Ucraina è anche uno scontro tra droni. Che arricchisce il genero di Erdogan
Entrambe le fazioni stanno facendo uso degli aeromobili pilotati da remoto. Sia quelli commerciali in mano ai civili e alla resistenza (prodotti in Cina ma facili da intercettare, di cui infatti ora è stata bloccata la vendita nei teatri di guerra), sia quelli militari a disposizione degli eserciti e prodotti da Turchia e Stati Uniti
Nella guerra in Ucraina è stato dispiegato ogni tipo di armamento. Tra questi, anche gli aeromobili a pilotaggio remoto (Apr) usati nei conflitti sia per la ricognizione (cioè per individuare cosa poi colpire con altri sistemi d’arma), sia per individuare un obiettivo e poi centrarlo direttamente con quanto in dotazione all’apparecchio stesso. Prima dell’invasione russa, dei droni militari avevamo sentito parlare quasi esclusivamente per il loro uso nella caccia ai terroristi in giro per il mondo: è il «diritto di uccidere» statunitense nato con la «guerra al terrore» scatenata durante l’amministrazione repubblicana di George W. Bush, in seguito all’attentato alle Torri Gemelle di New York del 2001. Da allora la tecnologia si è evoluta molto e grazie alla comparsa sul mercato degli smartphone, che contengono al loro interno anche strumenti digitali in uso nei droni militari, quali giroscopi e Gps, tra i prodotti di consumo sono arrivati a poco prezzo anche gli aeromobili a pilotaggio remoto.
Tra le novità del conflitto in Ucraina c’è proprio l’impiego degli Uav (Unmanned aerial vehicle) civili commerciali, secondo la dizione inglese. Quelli, per intenderci, che chiunque può liberamente acquistare sul mercato internazionale, spendendo da centinaia a qualche migliaia di euro. «Il ruolo dei droni, sia civili sia militari, è fondamentale», tiene a specificare a L’Espresso Stefano Orsi, autore di un articolo ben documentato sull’argomento per la rivista specializzata italiana DroneZine: «Forniscono innanzitutto un occhio dall’alto alle truppe terrestri. Anche quelli militari, indipendentemente dalla loro dimensione, nascono per fare operazioni di ricognizione e sono dotati di camere molto potenti e ben posizionate».
Nel suo servizio Orsi ricorda inoltre che «esistono i droni civili commerciali, che si possono acquistare facilmente e sono già stati utilizzati anche in altri conflitti». Messi in commercio soprattutto per la mappatura del territorio, ad esempio per vedere le zone di un disastro naturale, lo stato di salute delle piante o riprodurre edifici in tre dimensioni, anche questi ultimi possono dare in guerra un riscontro immediato della posizione del nemico o anche solo aiutare a scegliere potenziali vie di fuga.
«Sono in grado di fornire lo stesso servizio di quelli militari da ricognizione, con minore autonomia, ad una quota molto più bassa, ma con costi ridotti e facilità d’impiego», conferma Orsi. «Pur avendo telecamere senza ingrandimenti particolari, per intenderci senza zoom, la definizione delle loro immagini è comunque alta», assicura l’esperto. Facile a questo punto capirne le possibili potenzialità in una guerra di quartiere o per il controllo del territorio come, ad esempio, per individuare, monitorare e poi far attaccare con maggiore precisione il nemico. «In una missione di guerriglia urbana, dove necessitiamo solo di sapere immediatamente, da una parte o dall’altra, dove è situato l’obiettivo, possono svolgere tranquillamente il loro lavoro ad un costo molto basso, favorendo le truppe di terra o l’aviazione con una immediata e fedele visuale dall’alto», analizza Orsi.
In seguito al conflitto in Ucraina sono così nati dei gruppi organizzati e coordinati, formati da civili, operatori professionali o semplici appassionati, che fanno volare i propri droni condividendo poi le immagini ottenute. «Qui però si apre un altro discorso», denunciano da DroneZine. «Il 70 per cento del mercato dei droni commerciali è in mano al principale produttore cinese di questo comparto, la Dji, che per i propri apparecchi ha inventato il sistema Aeroscope: tramite uno speciale ricevitore radio permette di sapere dove si trovano i loro velivoli e anche gli altri», spiega Orsi. «Intercettando il segnale e utilizzando protocolli da loro inventati, Aeroscope ti dice dove si trova l’apparecchio, dove sta volando, la posizione Gps del radiocomando e quindi anche di chi lo pilota». Il 16 marzo, il vice premier ucraino Mykhailo Fedorov ha scritto in un tweet che le forze armate russe «stanno usando sistemi Dji per indirizzare i loro missili». Orsi aggiunge che «abbiamo notizia di come sia stato identificato un drone e sia poi arrivato un missile, non di grandissima portata, per distruggerlo». La risposta di Dji a Fedorov non si è fatta attendere. A poche ore da quel tweet, il produttore cinese ha indirettamente ammesso il problema, chiarendo, sempre a mezzo Twitter, che la loro remote identification non si può disabilitare, esponendo gli operatori civili ad un grande rischio. Ma la faccenda è andata avanti fino all’annuncio del blocco delle vendite dei propri droni sia in Russia che in Ucraina.
Questo per quanto riguarda gli aeromobili a pilotaggio remoto commerciali, in particolar modo quelli della citata e ormai diffusissima Dji. Ma a due mesi dall’ingresso delle truppe russe in Ucraina, ad aver confermato le proprie potenzialità in una guerra, ci sono ovviamente innanzitutto i droni militari. Ancor più se armati e quindi in grado di colpire direttamente il nemico. In base alle notizie pervenute dal campo, un ruolo determinante nella resistenza delle forze ucraine lo avrebbero avuto i droni d’attacco militari Bayraktar Tb2. Venduti all’Ucraina dall’azienda privata anatolica che li produce, la Baykar technologies che ha come direttore tecnico e progettista Selçuk Bayraktar (laurea negli Usa e genero del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan): dal 2014 si sono già visti in azione in Libia (dove sono stati ritenuti determinanti per fermare l’avanzata verso Tripoli del generale Khalifa Haftar), in Siria durante il tentativo del governo di Damasco di riprendere il controllo della provincia di Idlib in mano ai qaedisti e nel Nagorno-Karabakh (aiutando le forze azere nella guerra contro l’Armenia).
Costano molto meno di quelli statunitensi (a quanto è dato sapere poco più di un milione di euro) e sono ben armati, molto leggeri e versatili (appena 600 chilogrammi di peso) e facilmente manovrabili. I Tb2, a quanto pare, in questo conflitto si sarebbero rivelati persino in grado di tenere testa ai sofisticati sistemi di guerra elettronica dei russi. Contattata da L’Espresso, la Baykar technologies ha preferito non rilasciare dichiarazioni in merito. Ma per il ministero degli Esteri turco è una libera vendita da parte di un’azienda privata, almeno sulla carta non legata al governo di Ankara.
Gli stessi ucraini, con la loro Dae dynamics, producono un drone ad ala fissa con tecnologia stealth (invisibilità ai radar) in grado di trasportare, con varie ore di autonomia, tre bombe nel raggio di quasi 50 chilometri. Kiev avrà inoltre a breve a disposizione 100 droni statunitensi Switchblade, parte del nuovo pacchetto di aiuti militari Usa da circa 800 milioni di dollari di valore. Li chiamano «droni kamikaze», perché, come chiarisce a L’Espresso la ditta produttrice AeroVironment (sede ad Arlington, Virginia), gli Switchblade 300 che gli Stati Uniti stanno inviando in Ucraina sono essi stessi un’arma: «Progettati per colpire bersagli oltre la linea di vista con effetti letali sono un sistema missilistico vagante collaudato in combattimento. Si possono dispiegare da un tubo, da piattaforme terrestri, marittime, mobili o aeree». In pratica, un volta sparati in aria, aprono le ali e restano in volo per circa 10 minuti (da qui il termine “vagante”, in inglese loitering) per poi lanciarsi sui bersagli individuati nel raggio di 10 chilometri come kamikaze per cercare di distruggerli direttamente con l’esplosivo che hanno a bordo (equivalente ad una testata da 40 millimetri). Piccoli al punto da poter essere trasportati da un soldato della Fanteria in un uno zaino, pesano meno di tre chili e sono stati studiati e progettati per colpire sia i veicoli corazzati, sia il personale a bordo. La AeroVironment ne vende anche una versione potenziata, lo Switchblade 600, da 23 chilogrammi di peso e portata potenziale estesa a 80 chilometri di distanza. A quanto è dato sapere l’esercito ucraino è stato già formato negli anni scorsi dagli Stati Uniti al loro uso: fin dal 2007 Washington aveva attivato nel nord-ovest dell’Ucraina (al confine con la Polonia) il Yavoriv training center, bombardato dai russi a inizio invasione.
La AeroVironment, sull’invio degli Switchblade agli ucraini, ovviamente non commenta: «Non possiamo parlare a nome del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti», risponde a L’Espresso. Fatto sta che, a quanto è dato sapere, anche le forze armate russe hanno nel loro arsenale droni kamikaze, come il Kub e il Lancet. Intanto, proprio perché nei conflitti è ormai guerra di droni, la Marina Usa ha appena testato con successo un nuovo sistema d’arma. Si chiama Layared laser defense ed è un sistema laser alimentato a corrente elettrica in grado di abbattere un aeromobile a pilotaggio remoto. Lo ha sviluppato la statunitense Lockeed Martin, che sostiene sia una novità in grado di aprire nuovi scenari.