Patrimoni depredati
Dalla Sicilia ad Atene: torna a casa il frammento di un fregio del Partenone
Il museo Salinas di Palermo ha restituito il prezioso “frammento Fagan”. Ora la Grecia si aspetta che anche la Gran Bretagna faccia lo stesso
Per la Grecia contemporanea è una ferita che sanguina ancora. Di più, è come se l’offesa mortale inflitta al patrimonio culturale dell’umanità con il grande saccheggio delle opere d’arte del Partenone da parte di inglesi e francesi, a cavallo del secolo XIX, impedisca, tuttora, il compimento dell’ideale universale di democrazia. Per questo, la restituzione definitiva di un piccolo frammento del fregio esterno del Tempio, raffigurante il piede della dea Artemide e uno scampolo della sua veste, da parte del Museo Archeologico di Palermo “A. Salinas”, viene vista come l’annuncio di una nuova era.
Non sarà, forse, un caso che l’ansia di giustizia e di riparazione dei governanti greci abbia trovato rispondenza in quella Sicilia che 25 Secoli fa era più di una colonia greca, se non una vera e propria parte dell’Ellade, separata dal mare. Nonostante il Frammento Fagan, come viene denominato il reperto rimesso ad Atene, rappresenti una frazione minima delle opere d’arte sottratte al Partenone, bene ha fatto la Sicilia virtuosa, se così si può dire, nelle persone della direttrice del “Salinas”, Caterina Greco e dall’assessore ai Beni Culturali della Regione, Alberto Samonà, a battersi per la restituzione definitiva del frammento, dopo una serie di prestiti temporanei datati dal 2008. Sapendo che la restituzione, con il suo valore di precedente, contribuirà a creare una pressione di opinione pubblica sui grandi detentori del patrimonio greco trafugato. Il che è quello che le autorità greche sperano oggi.
Ci muoviamo nell’ambiente opaco degli scavatori abusivi, dei trafficanti di opere d’arte, dei pittori alla ricerca di fama e danaro, o anche nell’ordine inverso, che tra la fine del ’700 e gli inizi dell’800 si resero disponibili ai piani di accaparramento delle opere d’arte del passato, coltivati da aristocratici senza scrupoli e spesso profittando dei loro incarichi pubblici, che languivano incustodite e spesso oggetto di rapina in un paese trascurato e piegato dall’insensibile dominio ottomano, quale era la Grecia di quel tempo.
E qui che, nel 1799, sbarca Lord Thomas Bruce conte di Elgin e Kincardine, dei cui numerosi titoli il racconto storico ci farà grazia per indicarlo soltanto come Elgin. Anzi, per la verità, Elgin sbarca a Istanbul, quale Ambasciatore e Ministro plenipotenziario di Sua Maestà Britannica, presso la Sublime Porta, ovvero il sacro soglio del sultano ottomano Selim III. Ma i suoi piani sono tutti concentrati sulla Grecia e su Atene, di cui ha studiato e compreso appieno l’importanza del patrimonio artistico.
Siamo in quel frangente della cultura europea dove l’esplodere del romanticismo porta con sé una sorta di nostalgia per la cultura classica, romana e, soprattutto, greca, fonte di ispirazione non soltanto poetica, ma anche modello di gusto e di ambientazione. E, seppure tardivamente, Atene, la Grecia vengono inclusi nel Gran Tour dei giovani intellettuali europei.
Nel tragitto di avvicinamento alla sua sede, Elgin si ferma a Napoli e a Messina ospite del collega diplomatico, sir William Hamilton. A Napoli conosce un apprezzato paesaggista, romano di origini ma napoletano di adozione, Giovan Battista Visieri che lo stupirà per la sua abilità manuale e la competenza artistica. Per Elgin è l’uomo giusto cui affidare l’incarico di guidare la campagna del Partenone, che consiste nell’arraffare tutto quello che si può e come si può, alla testa di un manipoli di “esperti” italiani composto da due “architetti” (Vincenzio Balestra e Sebastiano Ittar) e due modellatori di calchi (Bernardino Ledus e Vincenzo Rosati).
Elgin chiede alle autorità ottomane se sono interessate ad ottenere copie dei reperti. La risposta, secondo Elgin, è “no”. E allora lui procede a spese proprie cioè, come vedremo, della moglie. Non si salva nulla: sculture di Fidia e dei suoi assistenti, fregi, decori, iscrizioni, elementi architettonici, le metope. Si scava vicino alle fondamenta del Tempio per tirare fuori i frammenti caduti e spezzati nel bombardamento della Serenissima del 1687. Quello che si può asportare viene asportato. E poi anche quell’incredibile, raffinato esempio di film su marmo, potremmo dire, che è il fregio (di cui fa parte il frammento Fagan) che si sviluppa per fotogrammi, o grandi tessere unite l’una all’altra, per 160 metri, e dove è descritto un grande corteo religioso, con carri e cavalieri, musici e atleti, vecchi e donne, portatori di offerte e animali da sacrificare, che si dipana sotto gli sguardi distaccati degli dei raccolti nella scena principale sopra l’ingresso della cella, mentre viene tessuto e ricamato il peplo che verrà donato alla dea. Composizione unica e straordinaria con ben 378 figure umane e 270 animali.
Come spesso accade quando ingiustizia e prepotenza si fanno legge, la grande rapina del Partenone viene ammantata da una falsa verità. Quella che attribuisce ai predatori la volontà di preservare le opere d’arte, offrendo loro “asilo” in un paese libero, come l’Inghilterra. D’altro canto, lo stesso ha pensato appena qualche anno prima un altro aristocratico europeo, stavolta francese, il conte Choiseul-Gouffier, che si servì di un altro rinomato artista e archeologo, Louis Fauvel, per impossessarsi e spedire in Francia la metope e un’altra parte del fregio.
Don Titta, così veniva chiamato Visieri non si risparmia, da «umilissimo e ubbidiente servitore», qual è, pronto ad ogni comando possa venire, come scrive nelle sue lettere, da vostra Signoria Illustrissima. Il risultato è sorprendente anche per Elgin. Il nobile diplomatico britannico che era arrivato ad Atene dicendo di voler studiare il Partenone e voler fermare con opere appropriate il decadimento architettonico di quello che è stato un faro per l’umanità, estrae e spedisce in Inghilterra 17 statue che abbellivano i due frontoni; 15 metope su 92; 75 metri su 160 del fregio (50 metri sono per fortuna ancora visibili all’ultimo piano del Museo dell’Acropoli); una cariatide dell’Eretteo; quattro lastre del tempo di Atena Nike ed altro ancora. Il tutto, oggi avrebbe un valore inestimabile. Ma nel 1816, per il governo inglese, i marmi di Elgin non valgono neanche metà dell’investimento fatto per portarli via che, a quanto pare, fu di 75.000 Sterline. Elgin dovette accontentarsi di 35 mila, circa due milioni, oggi.
Così, quando il conte decide di rientrare alla base, il vento per lui è cambiato. Viene arrestato e imprigionato per tre anni a Marsiglia. La moglie lo abbandona al suo destino. A restargli fedele è rimasto soltanto Don Titta Visieri che non scava più, ma continua a dipingere senza vergognarsi di farsi vedere ai piedi dell’acropoli con i pennelli e la tavolozza in mano, proteggendosi dal sole feroce con un ombrellino colorato.
È sempre lui, gentile, servizievole, specialmente con i nobili turisti anglosassoni che ne reclamano l’assistenza e non mancheranno di ricordarlo nei loro racconti di viaggio. Come Lord Byron, il grande poeta romantico che stima molto Visieri («an italian painter of first eminence») e gradisce la compagnia del giovane cognato quindicenne di Don Titta. E tuttavia non si lascia irretire, perché è con un grande sospetto che Lord Byron guarda allo stato dell’Acropoli e con intensa commozione verso la città tutta: «Cieco è l’occhio che non piangerà nel vedere le tue mura in rovina (Atene, n.d.r.) e i tuoi santuari saccheggiati da mani britanniche». Una chiara denuncia, che tuttavia non fermerà il corso della storia.
Ci sarebbero voluti ancora un po’ di anni, prima che le autorità museali britanniche si rendessero conto del tesoro su cui avevano messo le mani decidendosi ad aprire la galleria Duveen dedicata ai “marmi di Elgin”. Che, però, per i greci sono sempre stati i marmi dell’Acropoli, testimoni delle storia del mondo e carne della loro carne. Per quanto ancora potrà l’Inghilterra rifiutarsi di prendere atto di questa semplice verità, trincerandosi dietro la legittimità dell’“acquisizione”, per evitare di restituire il maltolto?
Anche il frammento Fagan, di cui non si conosce come sia arrivato in Sicilia, è stato legalmente acquistato dal Museo “Salinas”. E guarda caso, come i marmi di Elgin, non avrebbe dato ai suoi originari proprietari alcun beneficio.
Ma questa è una storia un po’ più misteriosa. Robert Fagan è il figlio di un mugnaio irlandese che approda a Roma, dove per vivere si accontenta di dipingere tristi grisaglie e trafficare in opere d’arte false o rubate, oltre che, a quanto pare, spiare per conto di sir William Hamilton. Con l’arrivo dei francesi, nel 1804 Fagan fugge da Roma e si trasferisce in Sicilia, dove continua con il vecchio andazzo, salvo dedicare molte energie a catturare le simpatie della regina Carolina che, come il marito, re Ferdinando, non ama la Sicilia ma vi si rifugia spesso e volentieri dalla caotica Napoli.
Grazie ai servizi resi ad Hamilton (ricordiamolo, amico di Elgin) e alla simpatie del re borbone, Fagan viene nominato console d’Inghilterra, in Sicilia. Muore nel 1816 a 55 anni, suicida per i troppi debiti contratti, senza rivelare da chi abbia ricevuto il frammento del fregio ellenico con il piede senza dita di Artemide.
Né lo rivelerà la moglie quando si presenterà al regio Museo dell’Università di Palermo per vendere il pezzo. Dal Museo dell’Università, il frammento passerà poi al “Salinas”. Possiamo soltanto ipotizzare che sia stato dato a Robert Fagan come una sorta di pagamento “in natura” per qualcuno dei suoi discutibili servizi. Ma oggi, che è tornato ad Atene, dove è stato rimesso al suo posto tra altri frammenti, inondati dalla luce inconfondibile dell’Acropoli, francamente, che importa?