Il vento francese non soffia qui, dove i progressisti hanno perso la connessione con il popolo. Il j’accuse dell’ex presidente di SEL

In Francia è tornata la sinistra: questa è la notizia. Nuova, radicale, vitale, libertaria, pacifista, egualitaria. Capace di raccogliere l’entusiasmo dei più giovani e persino di riconnettersi con quella classe operaia che non è mai morta, nonostante i suoi tanti necrofori. Una sinistra di sinistra. Che usa un linguaggio chiaro, impugna una bandiera che non è un feticcio ma una speranza, si congeda senza rimpianti dalle compromissioni con il liberismo e con i suoi apologeti. Una sinistra che combatte corpo a corpo sia contro il radicalismo xenofobo dei sovranisti che contro l’estremismo di centro di Macron, ovvero del riformismo delle contro-riforme. Un soggetto plurale, quello guidato da Jean-Luc Melenchon, che irrompe nella transizione francese riuscendo a costruire un suo “popolo” tutt’altro che minoritario, una moltitudine che reagisce agli incantamenti della manipolazione populista e che accetta la sfida per il governo senza per questo morire di governismo. Perché il vento francese non soffia in Italia?

 

Penso sia urgente un discorso di verità: aspro, scomodo, necessario. Rileggendo la storia recente e guardandosi attorno. Tornando al luglio del 2001, ai giorni incandescenti del G8 di Genova, alle piazze affollate di una straripante domanda di «riforma intellettuale e morale»: lì c’era un protagonista mondiale, un blocco sociale in nuce, l’agenda di una vera transizione sociale ed ecologica. Ma la sinistra di governo non capì e disertò. Invece dieci anni dopo capì e ugualmente disertò: quando ai referendum 27 milioni di italiani votarono per la difesa dei beni comuni e dell’acqua pubblica, si teorizzò che l’acqua è pubblica ma la brocca no, dev’essere privata, e che le privatizzazioni sono moderne e necessarie, perché tutto si misura col metro costi-benefici. Anni su anni di imbarazzi, di contrordine compagni, di soggezione ai totem e ai tabù della rivoluzione liberista. Culminati con la nascita del governo Monti: cioè impedendo che dalla crisi del berlusconismo si potesse uscire con il voto e con uno sbocco a sinistra. E così spingendo l’Italia verso una virulenta reazione populista. Come se un dio capriccioso avesse disegnato un destino infelice per la sinistra: l’impedimento a esistere senza travisamenti. De te fabula narratur.

 

Portiamo dunque sulle spalle il peso di una sconfitta molto più grande e più grave di quanto non dica un esito elettorale. Gli exit poll del senso comune certificherebbero una crisi verticale della politica, anche se io credo che la crisi riguardi la sinistra e non la politica. La politica esiste persino quando si auto-commissaria o si traveste da tecnica: ciò che invece è sparito nel gorgo di un riformismo subalterno è la potenza di un pensiero critico, di una autonomia culturale, di una weltanschauung, che dovrebbero essere il fondamento, l’anima e la ragione sociale della sinistra.

 

Qui siamo, prosaicamente. Felici di aver conquistato Verona, ma con l’angoscia che gli amici di CasaPound e i razzisti padani possano tornare al potere. Per questo occorre mettere a fuoco la caduta della partecipazione democratica, la debolezza del sindacato, la delegittimazione dei corpi intermedi, le mappe di una democrazia desertificata e ridotta al rango di “votificio”. Il voto contiene un vuoto clamoroso di rappresentanza. Se la sinistra si annulla nella rincorsa del centro, nel nome di un’alleanza che appare una resa, se si appanna la sua autonomia intellettuale, allora svaniscono i suoi riferimenti naturali.

 

Quella resa è figlia del galleggiamento opportunistico sulle onde corte del giorno per giorno. La sinistra che fa il surf e non conosce le profondità. Che si è disconnessa dalla materia nuda e cruda dei rapporti di produzione, ha smesso di conoscere la fabbrica dei lavori e dei saperi, ha rubricato scuola e lavoro come competenze specialistiche e politiche di settore, ha subìto un approccio retorico alla «questione sociale», ha con incomprensibile leggerezza riposto in archivio la «questione meridionale».

 

La categoria del ritardo - quello meridionale sulla velocità settentrionale, quello del lavoro sulla modernità del Capitale - ha surrogato qualsivoglia analisi del capitalismo italiano, del suo modello di sviluppo, delle sue compromissioni con la corruzione e con le mafie, delle sue virtù e dei suoi vizi. La sinistra ha smesso di vedere e di conseguenza non è stata più vista: evasa dai suoi domicili naturali, confinata nella Ztl del terziario e dei professionisti. E se qualche volta è tornata in fabbrica, lo ha fatto per celebrare l’epopea dell’impresa. La fine delle ideologie è stata questa cosa qui: l’assunzione del punto di vista del mercato come se fosse scienza neutra o pura natura, l’eutanasia del principio-speranza nella vita pubblica, l’abolizione dell’idea conflittuale di alternativa, l’espulsione del dolore del lavoro dalla politica. Davvero, ci siamo persi.

 

Eppure fatichiamo ad accorgercene, ci accontentiamo di scommettere sulle debolezze dei nostri avversari, ci basta vincere un ballottaggio, conquistare dieci campanili, per galvanizzarci e tornare a non vedere ciò che è sotto i nostri occhi: la metà degli elettori si astiene, la crisi sociale svuota di senso le agorà della democrazia, il populismo reazionario semina paure e odio negli individui senza riparo. E poi pesano tutti i rendiconti amari della realtà. Il lavoro che è solitudine e competizione. La città che è speculazione, rendita, cumulo di rifiuti. La formazione e la ricerca che sono spesso altra solitudine, nella perdita di valore sociale del lavoro intellettuale. L’ascensore sociale che è fermo da diversi lustri. In un contesto globale di accumulo di crisi: quella finanziaria internazionale, con il suo esito nefasto in termini di politiche di austerità; quella climatica; quella demografica; il ciclo pandemico del Covid e dei suoi derivati; la guerra in Ucraina e ciò che essa ha rivelato di un mappamondo avvelenato dai nazionalismi, dai sovranismi, dalla folle corsa al riarmo. Dinanzi a queste crisi di sistema, qual è stato il pensiero della sinistra?

 

Papa Francesco, profeta della parresia, ha parlato, individuando con puntigliosità le radici del male, denunciando il cannibalismo di quel turbo-capitalismo finanziario che estrae ricchezza dall’impoverimento della vita. La sinistra, quella del dovere teologico del governare, ha invece balbettato luoghi comuni, dispensando prediche. E dunque qui siamo, prigionieri del nostro rimosso, forse del nostro rimorso.

 

Che fare? Proviamo a ripartire dallo spaesamento in cui abitiamo come profughi del «secolo breve», dai perché della perdita della «cassetta degli attrezzi» con cui costruivamo il nostro stare al mondo, dalla rottura drammatica della «connessione sentimentale» col mondo del lavoro salariato e delle giovani generazioni, persino dal rischio di insignificanza che corriamo quando ci rifugiamo sotto le insegne del moderatismo, quando non cogliamo il nesso imprescindibile tra diritti civili e diritti sociali, quando non capiamo che la precarietà corre veloce dal lavoro alla vita e viceversa.

 

Se perdiamo le parole del discernimento, di conseguenza perdiamo radici, relazioni, fascino, orizzonte: fino al paradosso di vedere la povera gente consegnarsi al carisma loffio e malandrino di una destra che è protezionista, indulgente e garantista con i ricchi, ma che è feroce, intollerante e giustizialista con i poveri. Quel paradosso chiede alla sinistra di rompere l’incantesimo, di dirsi tutte le verità, di uscire allo scoperto. Con il coraggio di chi non rinuncia a immaginare «un altro mondo possibile».