Gli islamisti rivendicano il consenso del popolo e la presa di Kabul contro il caos. Soffocano il dissenso con il sangue e la paura. E istituiscono un apartheid di genere chiudendo le scuole e impedendo a donne e ragazze di studiare o farsi vedere

«Il vecchio regime aveva il sostegno dell’America, ma non quello della gente. Per questo era debole. La nostra resistenza è stata forte grazie al sostegno della popolazione: rappresentiamo 40 milioni di afghani». La versione dei Talebani, tornati al potere il 15 agosto scorso dopo vent’anni di guerriglia, è nelle parole di Noor Ahmad Saeed. Barba lunga, profonde occhiaie e un abito bianco, è il responsabile del dipartimento per l’Informazione e la Cultura della provincia di Kandahar. Il suo ufficio non è lontano da Shaheedan chowk, la “rotonda dei martiri” e una delle vecchie porte di Kandahar, città-simbolo nella storia del Paese.

 

I martiri della rotonda sono i mujahedin che, nell’Ottocento, combatterono contro gli inglesi. Per i Talebani, non sono poi così diversi dai militanti del gruppo che quasi un anno fa hanno cacciato gli eserciti occupanti. Rendendo possibile la restaurazione dell’Emirato islamico, già proclamato nel 1996 proprio qui a Kandahar dallo storico leader mullah Omar e poi crollato sotto le bombe dei cacciabombardieri Usa, nell’inverno 2001.

 

Quella del mawlawi Noor Ahmad Saeed è una voce unica e tipica. Unica per l’adesione precoce al movimento: «Sono passati così tanti anni che non mi ricordo bene. Forse 25, forse 28 anni fa. Gli anni non contano: conta l’impegno, la militanza, l’obbedienza». Tipica perché nelle sue parole passano molti dei temi che, ci siamo accorti viaggiando da Mazar-e-Sharif a Ghazni, da Herat a Lashkargah, da Farah a Kabul, ricorrono tra i funzionari dell’Emirato, ora liberi di rivendicare, di gridare vittoria e spiegare le proprie ragioni. Noor Ahmad Saeed la prende larga. È un’altra pratica ricorrente: per spiegare quel che è venuto dopo - i 20 anni di guerriglia, i tremila morti civili ogni anno, gli 80 mila soldati afghani uccisi, le stragi nelle città - molti esponenti del movimento jihadista partono dal 2001, l’anno spartiacque. Offrendo ricostruzioni storiografiche contestabili, ma istruttive.

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Per Saeed nel 2001 tutto andava bene, «il Paese era unito dopo anni di conflitti interni, non c’erano divisioni tra Nord e Sud, la sicurezza garantita. Ma poi gli americani non hanno voluto negoziare su Osama bin Laden», il responsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 architettati in Afghanistan, «e hanno distrutto l’Emirato, portando guerra e distruzione contro il popolo: tutta colpa del presidente Bush e di Rumsfeld», il segretario alla Difesa Usa che l’1 maggio 2003, di fronte ai soldati statunitensi a Kabul, dichiara «conclusi i combattimenti maggiori», annunciando «un periodo di stabilizzazione e ricostruzione». Per Rumsfeld è stabilità e ricostruzione, per il religioso di Kandahar un’inutile farsa: «Gli americani hanno messo al potere i signori della guerra, hanno edificato un sistema che provocava uccisioni e stupri e l’hanno chiamato democrazia. Per capire che la resistenza dei Talebani è la resistenza del popolo afghano, ci hanno messo venti anni. Poi se ne sono andati».

 

L’ultimo soldato straniero ad abbandonare il Paese è il maggiore Chris Donahue, comandante della 82esima divisione aerea degli Stati Uniti. Nella notte tra il 30 e il 31 agosto 2021 il portellone del cargo militare Boeing C-17 si chiude dietro di lui, nel buio dell’aeroporto di Kabul, dove nei giorni precedenti era andato in scena lo spettacolo-simbolo della debacle ventennale: migliaia di afghani costretti a calpestarsi e a trascorrere giornate intere nei canali di scolo pur di lasciare un Paese dal futuro più incerto che mai. Due settimane prima, i Talebani erano entrati a Kabul. Anche in questo caso, la loro versione è pressoché unanime.

 

La si sente a Kandahar, culla del movimento, ma anche a Farah, a diverse ore di strada infuocata più a ovest, una delle province che i soldati italiani, per anni responsabili dell’area occidentale rivolta verso l’Iran, non sono mai riusciti a “stabilizzare”. Qui la voce ufficiale del movimento è del mawlawi Abdul Hai “Sabawoon”, un religioso di bassa statura e dallo sguardo sospettoso. Prima reticente, dopo ore di colloquio, tazze di tè e una gita in città tra strade in ricostruzione e resti archeologici da tutelare, diventa loquace. «Non volevamo entrare a Kabul, ma siamo stati costretti a farlo: l’alternativa era il caos», spiega Sabawoon con parole simili a quelle che avevamo sentito pochi giorni prima a Herat: «Lo abbiamo fatto per proteggere la popolazione, non c’era più ordine e controllo».

 

Una versione che combacia con quella di Zalmay Khalilzad, l’ex inviato speciale per la riconciliazione in Afghanistan del governo Usa. L’uomo che ha condotto i negoziati che hanno portato all’accordo di Doha tra americani e Talebani del febbraio 2020. Presentato come preludio alla pace, si limitava a garantire la sicurezza dei soldati americani nel ritiro. Tante concessioni ai Talebani, la garanzia più importante per gli americani, il governo di Kabul tagliato fuori: una vera manna per Haibatullah Akhundzada, l’Amir ul-mumineen, la guida dei fedeli e leader supremo dei Talebani. I quali, secondo Khalilzad, il 15 agosto 2021 si trovano spiazzati.

 

«Fino alla fine», ha sostenuto in un’intervista al Financial Times, «avevamo un accordo con i Talebani per non farli entrare a Kabul». Il presidente Ashraf Ghani sarebbe dovuto rimanere al suo posto fino a quando non si fosse raggiunto un accordo sul nuovo governo. Ghani, però, il 15 agosto fugge. E il mullah Abdul Ghani Baradar, artefice dell’accordo di Doha, chiama il generale statunitense Frank McKenzie, proponendogli di assumersi la responsabilità di tutta Kabul o del solo aeroporto. Il presidente Biden sceglie la seconda ipotesi. I Talebani conquistano Kabul. «Per volere del popolo afghano», ribadiscono ora i funzionari dell’Emirato da Herat a Kandahar.

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È su questo punto, e su quello che viene dopo, una volta inaugurato il governo provvisorio, che le versioni non combaciano. A divergere non sono soltanto le versioni di Kabul e di Washington, che ha congelato i fondi della Banca centrale afghana, di cui circa 7 miliardi custoditi alla Federal Reserve di New York, e portato all’isolamento del sistema bancario ed economico, finito sotto sanzioni. Ma quelle tra i Talebani e buona parte della società, soprattutto nelle aree urbane.

 

«Consenso? Ma quale consenso, quale rappresentanza del popolo! Il loro potere si regge sulla violenza, sulle armi, sulle intimidazioni». Così ci dice un’interlocutrice a Kandahar. Donna di mezza età, anni di attivismo tra associazioni della società civile e organizzazioni umanitarie, non vuole più metterci la faccia, preferendo l’anonimato. A dispetto dell’amnistia proclamata nel settembre 2021, nell’Emirato si rischia troppo. Gli spazi di libertà si sono ristretti, fin quasi all’asfissia. Venire rintracciati è molto più facile. I rischi sono enormi.

 

Non vale solo a Kandahar, dove risiede con grande segretezza la “guida dei fedeli” Haibatullah Akhundzada, che qualche giorno fa, in una grande assemblea a Kabul, ha rivendicato l’autarchia come via privilegiata per l’Emirato. Vale ovunque. Anche al Nord. A Mazar-e-Sharif, per esempio, nella provincia settentrionale di Balkh, abbiamo incontrato attiviste costrette a rimanere in casa per timore di ritorsioni; giornalisti divenuti elettricisti per evitare guai; giovani poeti sbattuti in carcere per aver manifestato per strada; genitori alla ricerca dei propri figli, prelevati da uomini del nuovo regime e spariti.

 

A Jalalabad, nella provincia orientale di Nangarhar, drenando un canale in cui era precipitato un ragazzo, i residenti hanno trovato cento corpi in decomposizione, qualcuno senza testa, altri legati a pesanti mattoni: secondo un recente rapporto di Human Rights Watch, sono le vittime della campagna dei Talebani contro i presunti membri dello Stato islamico. Tra le minoranze non pashtun, l’etnia maggioritaria del Paese e quella da cui provengono i Talebani, abbiamo registrato molti timori, oltre alle denunce su terreni e case sottratti con la forza e sulla distribuzione iniqua degli aiuti della comunità internazionale. Nelle aree rurali, per esempio nella provincia meridionale dell’Helmand, non mancano contadini che apprezzano la fine delle ostilità, delle incursioni aeree, del conflitto intorno e sui loro terreni. Ma la pretesa del mawlawi Noor Ahmad Saeed, responsabile del dipartimento dell’Informazione di Kandahar, non regge: «Rappresentiamo 40 milioni di afghani», ripete convinto.

 

Di fronte alle nostre obiezioni, corregge il tiro: «In un governo, non tutti possono essere rappresentanti. Funziona così anche in America, con i democratici e i repubblicani: è normale». A non essere rappresentate, però, qui in Afghanistan sono le donne, per le quali i Talebani hanno edificato un vero e proprio apartheid di genere. Ne sono un simbolo le scuole superiori, chiuse da circa 300 giorni. Da quasi un anno le studentesse dagli 11-12 anni in su non possono andare a scuola. È l’unico caso al mondo, ma al mawlawi Nawed non sembra così anormale: «Risolveremo presto anche questo problema», assicura.