La rappresentativa azzurra di Calcio a 5 composta da persone con disturbi psichiatrici a ottobre gioca con il Senegal la sfida secca per la Coppa. Un’esperienza pilota diventata un modello internazionale. E celebrata anche con un docufilm

«Quando un pallone gira nei cortili dei centri diurni o nelle zone di attesa degli ambulatori i pazienti, anche quelli devitalizzati con una grande sedentarietà dovuta alla malattia o ai farmaci, si riaccendono».

 

Nelle parole dello psichiatra Santo Rullo c’è tutto il senso di “Crazy for football”, la nazionale italiana di calcio a 5 di persone con disturbi psichiatrici provenienti soprattutto dai centri di salute mentale (Csm), il primo presidio per i cittadini con disagio psichico. In campo non scendono operatori o soggetti esterni, ma solo chi ha una diagnosi specifica.

 

Il progetto, nato ufficialmente nel 2016, affonda le sue radici nel documentario “Matti per il calcio” del 2004, realizzato da Francesco Trento e Volfango De Biasi, con la fondamentale collaborazione di Rullo. La storia è incentrata sulla squadra di calcio a 5 del “Gabbiano”, formata completamente da pazienti psichiatrici.

 

Fu proprio l’opera di Trento e De Biasi su questi insoliti calciatori ad attirare l’attenzione di una docente di Sociologia dello sport all’università di Yokohama. «Nobuko Tanaka, che in Giappone aveva fatto un grande lavoro per deistituzionalizzare un sistema di assistenza basato su istituzioni totali come i manicomi, dopo aver visto online il documentario mi contattò e nel 2011 arrivò a Roma con una delegazione di colleghi per studiare la nostra esperienza», racconta Rullo.

Al suo rientro in patria, Tanaka organizzò, con il patrocinio del Comitato olimpico e paralimpico internazionale di Tokyo 2020, il primo campionato del mondo di calcio a 5 per persone con disabilità mentale tenutosi a Osaka nel febbraio del 2016. La convocazione per le selezioni fu annunciata poche settimane prima del mondiale durante la storica trasmissione sportiva 90° Minuto. «Diversi pazienti che erano in trattamento presso comunità terapeutiche o in famiglia fecero fatica a convincere operatori o familiari che la proposta fosse vera», ricorda lo psichiatra.

 

La rocambolesca avventura del team italiano in Giappone è stata seguita e raccontata da De Biasi in un altro documentario intitolato “Crazy for football”, vincitore nel 2017 di un David di Donatello. L’anno successivo la Uefa foundation for children l’ha scelto come strumento per la diffusione dei valori del calcio e proiettato in decine di scuole di tutta Italia, raggiungendo circa ottomila studenti delle superiori.

 

La seconda edizione, ribattezzata “Dream world cup”, si è svolta a Roma il 13 maggio 2018, a quarant’anni dalla chiusura dei manicomi in Italia. Un omaggio al lavoro di Franco Basaglia, il più importante riformatore della disciplina psichiatrica in Italia e ispiratore della legge 180/1978 che aveva tra i suoi obiettivi principali il reinserimento sociale dei pazienti. Alla competizione hanno partecipato Italia, Giappone, Perù, Argentina, Cile, Ungheria, Francia, Spagna e Ucraina. Questa volta i nostri azzurri, dopo il terzo posto di Osaka, hanno conquistato la vittoria finale.

Al mondiale del 2018 avrebbe dovuto partecipare anche la nazionale del Senegal – in rappresentanza del continente africano – ma per problemi economici non riuscì a gareggiare con le altre squadre. Il prossimo 29 ottobre l’equipe senegalese sfiderà l’Italia. «È stata decisa una cosa un po’ folle, e cioè di rimettere in palio la Coppa del mondo in una partita secca che si terrà sempre a Roma», annuncia Rullo.

 

Secondo l’ideatore di “Crazy for football”, le principali difficoltà di un’iniziativa del genere sono quelle legate a chi normalmente nasconde questi disturbi. «Abbiamo dovuto aiutare i ragazzi a convincere le famiglie perché in questi casi servono le liberatorie per utilizzare l’immagine e sapevamo che non sarebbe stato facile chiedere loro di metterci la faccia».

 

Lo psichiatra cita un episodio avvenuto durante le recenti selezioni in Umbria: «Prima di iniziare, uno dei partecipanti mi ha detto: “Certo, è bello combattere lo stigma ma una volta che sono uscito sul giornale se poi vado a fare un colloquio di lavoro siamo sicuri che mi assumeranno sapendo che ho un disturbo bipolare?”. Ecco, quella è la grande sfida».

 

All’inizio la comunità medica ha accolto con diffidenza questo nuovo approccio. «C’era l’idea che fossimo gli operatori che volevano divertirsi giocando a pallone», dice Rullo. Uno scetticismo superato anche con la presentazione di due progetti per il Bando Erasmus+ (il programma dell’Ue per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport in Europa, ndr). Uno dei due, quello ancora attivo che crea un’alleanza tra operatori della salute mentale e dello sport, ha visto l’adesione dell’associazione europea psichiatrica.

E non va dimenticata la visibilità ottenuta attraverso prodotti di intrattenimento come “Crazy for Football – Matti per il calcio”, fiction trasmessa lo scorso autunno su Rai1 e diretta ancora una volta da De Biasi, con Sergio Castellitto nei panni del protagonista ispirato alla figura di Rullo.

 

Un aspetto interessante del film è la dicotomia creata dagli sceneggiatori tra il personaggio di Castellitto e quello di Massimo Ghini, che interpreta uno psichiatra dal profilo più istituzionale. «In realtà non si tratta di un combattimento tra persone», precisa Rullo: «Ma di un’ambivalenza che c’è nella testa di qualsiasi operatore che ha la sensazione di svuotare il mare con un secchiello, per citare una battuta del film, e ogni tanto si chiede se non sia meglio limitarsi a fare quello che faceva la psichiatria istituzionale, cioè non offrire risposte innovative e non battersi per i diritti dei pazienti, ma svolgere un ruolo di contenimento sociale».

 

A guidare i ragazzi di “Crazy for Football” è il commissario tecnico Enrico Zanchini. Ex giocatore di calcio a 5, nel 2004 ha preso in gestione insieme ad altri “Il faro”, un piccolo centro sportivo nel quartiere Monteverde di Roma. «La struttura è diventata la casa romana della nazionale», spiega l’allenatore.

 

«Prima del mondiale del 2018 abbiamo programmato raduni in giro per l’Italia e visto circa 170 calciatori preselezionati dalle loro strutture di riferimento. Da una parte lo scopo è quello di offrire una giornata di allenamento agonistico di calcio a 5, dall’altra siamo alla continua ricerca di atleti di alto livello. E per ottenere certi risultati bisogna girare tutto il Paese», sottolinea Zanchini.

 

La pandemia ha fatto saltare questo modello di reclutamento e la terza edizione della “Dream world cup” prevista per il 2020 in Perù. In quel periodo il team tecnico è rimasto accanto ai giocatori realizzando delle schede di lavoro da fare a casa o all’aperto, quando possibile.

 

Le selezioni sono ripartite l’anno scorso. Decine di persone si sono presentate a Roma, Bari, Napoli e a Gerenzano, in provincia di Varese. Ai vari raduni hanno preso parte anche ragazzi delle regioni limitrofe. «Siamo arrivati a una rosa di circa 25 calciatori che comprende sia alcuni veterani a cui non rinuncerei mai perché sono atleti fenomenali e di grande personalità, sia un gruppo di giovani molto promettenti».

 

La necessità di una rosa ampia è dettata dalla particolarità degli sportivi coinvolti. «Non è detto che siano tutti disponibili quando decidiamo di fissare una data per un raduno. C’è chi magari in quel momento ha delle fragilità che non gli permettono di uscire di casa o di viaggiare», fa notare Zanchini.

 

Per sostenere il progetto più vasto di promozione dello sport nei percorsi di cura e riabilitazione psichiatrica è stata ideata la #crazychallenge, una sfida speciale per aziende, enti pubblici e la società civile in generale, per una partita vera sul campo di calcio a 5 in nome della responsabilità e dell’inclusione sociale. Nell’ultima sfida, svoltasi lo scorso luglio in Umbria, la nazionale ha affrontato in un triangolare l’azienda di Brunello Cucinelli e il comune di Corciano.

 

“Crazy for Football” è l’unica nazionale non ufficiale ad avere borse, tute e maglie ufficiali della Federazione italiana gioco calcio (Figc). «Entrano in campo con la maglia e l’inno. È un messaggio molto forte visto che viviamo in una società che tende a escluderli. In questo modo l’appartenenza alla nazionale diventa uno stemma da rivendicare», dice il mister.

 

Per Zanchini quest’esperienza rappresenta un arricchimento umano e fa alcuni esempi. «Abbiamo organizzato un’amichevole con i detenuti del carcere di Rebibbia perché ritengo ci siano delle analogie tra l’esclusione sociale nei confronti dei carcerati e il trattamento riservato a chi ha problemi di salute mentale. Nella nostra formazione militano anche giocatori di origine straniera che in una normale nazionale non potrebbero giocare, ma la nostra non è una nazionale normale dei “presunti sani”, come li chiamiamo scherzosamente».