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Attualità
novembre, 2023

Il governo taglia sulla prevenzione della violenza sulle donne

25 novembre
25 novembre

L'esecutivo ha ridotto del 70 per cento la spesa per le attività utili ad arginare il fenomeno. «Ma così si continuerà a intervenire sempre e solo in risposta alle violenze già subite» denuncia ActionAid

Smettere di ammazzarle. Ma anche di discriminarle, di sottopagarle. Di pretendere di sapere chi sono, di parlare al loro posto. Bisogna decostruire un sistema che si fonda sul privilegio di maschi, congegnato per garantirgli benefici, mentre le donne le uccide.

 

Non solo quando finiscono come Rita Talamelli, Giulia Cecchettin e altre 104 quest’anno. Ma tutti i giorni. Quando percorrono di fretta una strada poco illuminata, con la paura che qualcuno le segua. Quando cercano nella metro un vagone affollato per sedersi. Quando fingono di stare al telefono. Quando si interrogano se sia il caso di mettere il rossetto. Quando qualcuno grida loro: «Ah bella». E magari sorridono, ma solo per non irritarlo. Quando vorrebbero uscire, ma non c’è tempo, perché ci sono i figli da accudire, i genitori di cui occuparsi, la casa da ordinare. Quando vorrebbero svagarsi ma non ci sono i soldi, perché «i conti li tiene mio marito». Quando non possono dire: «Non vengo al lavoro, ho il ciclo, sto male», perché i superiori sono uomini e non sanno di cosa si parla. Quando con voce flebile chiedono quasi fosse un favore di terminare il turno un po’ prima perché «mia figlia ha la febbre. Ma, prometto, domani recupero tutto». Quando devono scegliere tra carriera e famiglia, dire grazie al capo perché le assume, perché, invece, la metà delle donne in Italia non lavora. Quando si considerano fortunate perché lo stipendio non è troppo diverso da quello del collega accanto. Perché nel privato, secondo l’Inps, le donne, nel 2022, hanno guadagnato quasi 8 mila euro in meno degli uomini.

 

Eccola la normalità, quasi banale su cui si regge il patriarcato: limitazioni su limitazioni alla libertà della donna. La violenza prima della violenza. «Il preludio del femminicidio», ha detto Elena, la sorella di Giulia Cecchettin su Rete 4. Perché la prevaricazione, spinta fino all’estremo, è quotidianità diffusa. Che riguarda tutti: «Sì, tutti gli uomini», perché Filippo Turetta, l’assassino di Giulia, «non è un mostro. È un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro». Ed è contro l’incultura del possesso e del dominio che bisogna combattere per scongiurare che nessun’altra donna venga uccisa perché donna. Come? Attraverso l’educazione: a scuola, in famiglia, in palestra, in ufficio, al bar. Perché, sono ancora parole di Elena Cecchettin, «il femminicidio è un delitto di potere. Un omicidio di Stato perché lo Stato non ci tutela e non ci protegge». Non serve altro silenzio ma rumore. Raccomanda: «Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto».

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Come la laureanda veneta almeno altre 20 donne sono state ammazzate a coltellate da un uomo nel 2023. Poi ci sono quelle strangolate, picchiate, prese a martellate, soffocate, impiccate, uccise con un’arma da fuoco: il resoconto di una strage. Dal 2013, quando con la ratifica della Convezione di Istanbul del Consiglio d’Europa e la conseguente adozione della legge 119/2013, l’Italia si è dotata formalmente di un sistema contro la violenza di genere, le risorse economiche stanziate per eliminarla sono cresciute. Del 156 per cento, secondo il rapporto “Prevenzione sottocosto” di ActionAid. Tra il 2020 e il 2023 il maggiore incremento: 248 milioni di euro. Ma sono fondi destinati alla risposta per una violenza già avvenuta, meno a scongiurarla. La sproporzione è evidente: l’81 per cento delle risorse è stato riservato alla protezione e solo il 13 per cento alla prevenzione. Tanto che le statistiche rimangono stabili: il numero delle donne uccise da uomini in ambito familiare-affettivo è rimasto costante: un femminicidio ogni tre giorni. 

 

«A dimostrazione dell’inadeguatezza delle politiche antiviolenza adottate», spiega Katia Scannavini, vicesegretaria generale ActionAid Italia: «Senza fondi sufficienti e politiche mirate alla prevenzione si continuerà a intervenire sempre e solo in risposta alle violenze già subite». Sono 32.430 le chiamate ricevute nel 2022 dal 1522, il numero antiviolenza e stalking. Il 97,7 per cento arriva da donne. Il 66,9 riferisce di maltrattamenti, il 77,8 di violenze psicologiche, il 54,5 di minacce e il 52,3 di violenza fisica. E anche da questo osservatorio balza agli occhi un altro dato allarmante. Il 69,3 per cento non ha denunciato per paura. «Sembrano numeri altissimi ma si riferiscono solo alle donne che hanno sentito parlare del 1522, che hanno trovato il coraggio di fare la prima chiamata. Pensate a quante subiscono violenza maschile nel silenzio», sottolinea Valentina Melis, testimonial dell’associazione Differenza Donna che gestisce il numero, attivo 24 ore su 24.

 

Anche il disegno di legge che rafforza il Codice Rosso, su cui il governo Meloni ha posto gran parte dell’attenzione, si concentra sul potenziamento della punizione e della prevenzione terziaria, cioè sul garantire sicurezza alle donne che hanno già subito violenza e sul ridurre il tasso di recidiva degli autori. «Ignora la prevenzione primaria, cioè le azioni volte a scardinare le norme e i comportamenti sociali che producono violenza. E non prevede ulteriori costi a carico della finanza pubblica», si legge nel report di ActionAid che sottolinea come per gli interventi di educazione e sensibilizzazione sia stato stanziato solo il 5,6 per cento rispetto al totale dei fondi antiviolenza 2020-23. E come l’attuale governo stia risparmiando sulla prevenzione: «Meno 70 per cento. Dagli oltre 17 milioni del 2022 ai 5 per il 2023», secondo i dati aggiornati a ottobre. Sull’urgenza di intervenire per la prevenzione sul lungo periodo insiste anche la fotografia del Gender social norm index delle Nazioni Unite: in Italia il 61 per cento della popolazione ha pregiudizi contro le donne. E quasi la metà, il 45 per cento ha convinzioni che possono condurre a giustificare la violenza fisica, sessuale e psicologica da parte del partner.

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Ecco perché non serve altro silenzio. «Vogliamo alzare la voce ogni volta che assistiamo a comportamenti sessisti e misogini, vogliamo che le istituzioni rispondano e ci supportino ogni volta che chiediamo aiuto», hanno gridato migliaia di studenti a Padova, davanti all’università in cui studiava Giulia Cecchettin, seguiti dagli alunni degli istituti di tutto il Paese: «Serve educazione sessuale e affettiva nelle scuole», dice Tullia Nargiso, coordinatrice della Rete degli studenti medi del Lazio: «Quella del ministro Valditara non è una proposta di legge ma un progetto sperimentale. Educare alla relazioni attraverso dei traning group moderati da docenti, insegnare le conseguenze penali non vuol dire educazione sessuo-affettiva». Nell’idea del titolare dell’Istruzione c’è un progetto extracurricolare, che non parla delle persone Lgbt, che si basa su un decalogo di concetti come «un no è un no», «un vestito non è un invito», «le parole sono pietre».

 

Consulente della comunicazione è Alessandro Amadori che, come rivelato da il Domani, è autore della “La guerra dei sessi”, libro in cui derubrica la violenza di genere a «cattiveria». Non esattamente una buona premessa per l’educazione necessaria ad abbattere gli stereotipi che sorreggono la cultura patriarcale. Non nel modo in cui ne ha parlato la segretaria del Pd Elly Schlein che sul punto ha teso la mano alla premier. Affinché i partiti si muovano. A chiederlo sono le piazze del 25 novembre animate da Non una di meno, che a Roma ha indetto la manifestazione nazionale per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Spingono perché «la condizione femminile torni al centro dell’agenda politica e del dibattito». Perché la «rabbia pretende ascolto» e giustizia: «Solo diventando un problema, solleviamo il problema». Ma anche e soprattutto futuro: «Se domani sarò io, se domani non torno, sorella mia distruggi tutto. E poi ricostruiamo insieme».

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