La classifica
Poltrone d'oro: chi sono i più ricchi ai vertici delle società pubbliche
La graduatoria dei redditi vede tanti milionari, ma molti devono gran parte delle proprie fortune all’attività privata. Che però beneficia delle relazioni alimentate dalle nomine di Stato. Ecco i nomi
Lo Stato sono io. Non suona male. In francese per dirla con re Luigi XIV è ancora più suadente: «l’État c’est moi!». Va rimossa questa accezione negativa tipicamente italiana per lo Stato e in generale per il pubblico. Come se fossero luoghi sperduti di dispersioni morali. Macché. Allora conforta, a volte stupisce, spesso disorienta, scorrere il puntuale bollettino ufficiale che racchiude il reddito totale di presidenti, vicepresidenti, direttori generali, amministratori delegati di società a capitale pubblico oppure di organismi controllati dal pubblico sempre di nomina pubblica (governo, ministeri, Regioni, Province, Comuni). Insomma l’apoteosi del settore pubblico.
Il documento che L’Espresso ha esaminato è confezionato ogni anno con cura dal dipartimento per il Coordinamento Amministrativo di Palazzo Chigi: 148 pagine, oltre 390 nominativi, oltre 390 tabelle, cariche quasi sempre vincolate al tetto di 240.000 euro per i dirigenti pubblici (chiaramente i redditi da attività private non hanno limiti). Non abbiamo resistito alla tentazione di compilare una classifica e rispondere al solleticante quesito che suvvia, lo ammettiamo senza ipocrisia, pervade i giornalisti alle prese con questo bollettino e probabilmente voi lettori che ne apprendete i contenuti: chi è il più ricco? La risposta è valida da un paio di anni: il blasonato avvocato d’affari Michele Briamonte dell’altrettanto blasonato studio legale di Franzo Grande Stevens, cioè l’avvocato dell’avvocato per il suo profondo legame con Gianni Agnelli. Briamonte è presidente del Consorzio delle Residenze Reali Sabaude che – questa è l’etichetta corretta – gestisce giardini e Castello della Mandria e soprattutto la Venaria Reggia Reale: nel bollettino svetta con 5,639 milioni di euro percepiti. Neanche un euro, però, arriva da questa carica pubblica che richiede una procedura fra la Regione Piemonte e il ministero della Cultura e che fu assegnata ai tempi di Dario Franceschini. Briamonte, Grande Stevens, la reggia di Venaria: un contesto ad alto tasso di piemontesità e dunque sabaudo. La vil pecunia non serve. Le relazioni prestigiose sono inestimabili. Si suppone anche per Briamonte.
Al secondo posto, doppiato, resiste il salentino Angelo Sticchi Damiani con 2,199 milioni di euro. Sticchi Damiani, che è lo zio del patron del Lecce calcio, è presidente dell’Automobile Club d’Italia (Aci) da una dozzina di anni e l’ultimo rinnovo ha posposto la sua prossima scadenza al 2024. I guai sono più recenti. Ad agosto Sticchi Damiani ha ricevuto un avviso di chiusura di indagini preliminari con l’accusa di falso in atto pubblico proprio per alcune presunte irregolarità nelle autocertificazioni dei redditi fra il 2017 e il 2020. Il podio si chiude con Michaela Castelli che ha dichiarato compensi per 1,243 milioni di euro. Castelli siede e (pre)siede in molti consigli di amministrazione, nel bollettino viene menzionata perché presidente di gruppo Sea, l’azienda partecipata da Comune (maggioranza) e da Provincia che, tra le altre cose, ha in dote il sistema aeroportuale milanese. Il gettone per il gruppo Sea è di 120.000 euro.
Adesso una breve pausa per illustrare i dettagli tecnici del bollettino. La legge che lo istituisce è la 441 del 5 luglio del 1982 con il suo articolo 12. Riguarda i «titolari di cariche pubbliche». Prendete fiato. Ecco l’elenco: «Presidenti, vicepresidenti, amministratori delegati e direttori generali di istituti e di enti pubblici, anche economici, la cui nomina, proposta o designazione o approvazione di nomina sia demandata al presidente del Consiglio, al Consiglio dei ministri o a singoli ministri; presidenti, vicepresidenti, amministratori delegati e direttori generali delle società al cui capitale concorrano lo Stato o enti pubblici, nelle varie forme di intervento o di partecipazione, per un importo superiore al venti per cento; presidenti, vicepresidenti, amministratori delegati e direttori generali degli enti o istituti privati, al cui funzionamento concorrano lo Stato o enti pubblici in misura superiore al cinquanta per cento dell’ammontare complessivo delle spese di gestione esposte in bilancio e a condizione che queste superino la somma annua di lire cinquecento milioni; direttori generali delle aziende autonome dello Stato; direttori generali delle aziende speciali di cui al regio decreto 15 ottobre 1925, n. 2578».
Queste stratificazioni di norme che sono tramandate con poche correzioni – si cita addirittura un regio decreto che sta per fare un secolo di vita – portano a ritrovare negli elenchi pure gli imprenditori. Per esempio l’assai noto Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli, la sorella di Gianni e Umberto. Rattazzi figura nel bollettino per la qualifica di vicepresidente di Seam, la società di riferimento dell’aeroporto civile di Grosseto (Maremma), ma ne è anche azionista con il 20 per cento. La vicepresidenza è insignificante, nulla, per la formazione del suo reddito di 1,142 milioni di euro. Oltre alle quote nella cassaforte di famiglia Giovanni Agnelli e di altre società di altri settori, Rattazzi è proprietario di un aeromobile monomotore di fabbricazione svizzera.
Giovanni Malagò ha festeggiato appena un decennio alla guida del Coni e non intende smettere. Anzi è impegnato con la complessa organizzazione delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina, già orfane di genitori politici, e rafforza la sua presa nel Comitato olimpico internazionale. Auto di lusso (le vende) e bella gioventù (la raffigura), sempre a bordo di una Maserati, Malagò si è professato presidente del Coni «a gratis» a fronte di un reddito di circa un milione di euro. Dal primo giorno ha promesso che avrebbe devoluto il suo stipendio da 179.000 euro in beneficenza. Malagò è approdato al Coni sulla spinta delle sue relazioni e della sua indubbia abilità nel tesserle, tanto basta per soddisfarsi e perpetuarsi. Può sostenere che dallo sport non guadagni un euro o addirittura che ne perda qualcuno, ma se Malagò non fosse stato Malagò, per diritto di nascita, avrebbe faticato «a gratis»? E comunque soltanto al sesto posto, ormai da liberare, rintracciamo Ignazio Visco (745.000), il governatore uscente della Banca d’Italia e scendiamo sotto il milione.
Il tetto di 240.000 euro ai dirigenti pubblici, introdotto una decina di anni fa, ha subìto numerose variazioni e deroghe. Il tetto non si applica ai vertici di Bankitalia che, però, hanno varato un taglio. Il reddito di 745.000 di Visco non corrisponde alle retribuzioni di governatore di Bankitalia che sono inferiori, lo si apprende facilmente dal bilancio: «I compensi per organi collegiali centrali e periferici comprendono in particolare gli emolumenti attribuiti al Consiglio superiore, pari a 412.230 euro, ai membri effettivi del Collegio sindacale, pari a 137.430 euro, e al Direttorio. A partire dal 2014 le misure dei compensi spettanti ai membri del Direttorio ammontano a 450.000 euro per il governatore, a 400.000 euro per il Direttore generale e a 315.000 euro per ciascuno dei vicedirettori generali».
Appaiati in settima e ottava posizione, a distanza di poche centinaia di euro di differenza, ci sono Bernardo Mattarella (571.000) e Nicola Maccanico (569.000). Mattarella è il nipote del presidente della Repubblica, Nicola è il figlio di Antonio, raffinato politico irpino, repubblicano, che fu anche segretario generale del Quirinale. Mattarella è amministratore delegato di Invitalia, l’Agenzia nazionale per gli investimenti e lo sviluppo d’impresa, il reddito segnalato si riferiva al periodo al Mediocredito Centrale. Invece Maccanico era un dirigente Sky quando ha accettato, per spirito di servizio, la chiamata del governo di Mario Draghi a Cinecittà e l’inevitabile riduzione dei suoi introiti al tetto di 240.000 euro.
Sempre il ministro Franceschini, lo scorso anno, ha confermato l’architetto Stefano Boeri presidente della Triennale di Milano. Il ministero della Cultura precisava nel suo comunicato che i membri del consiglio non ricevono compensi, gettoni, rimborsi. Nonostante la Triennale non contribuisca al suo reddito, Boeri oltrepassa agevolmente la soglia di 500.000 euro, per l’esattezza 557.000. Il decimo, non più in concorso, è Primo Ceppellini con 542.000 euro, ex amministratore unico di Vicenza Fiera. Nota bene: tra le grosse aziende di Stato c’è soltanto Leonardo perché “dipende” dal ministero del Tesoro e di conseguenza ci sono i redditi del suo ex presidente Luciano Carta (753.000) e dell’ex amministratore delegato Alessandro Profumo (2 milioni), ma questi trattamenti economici andrebbero paragonati a quelli dei colleghi delle altre multinazionali di Stato.
Per questo motivo non li abbiamo considerati ai fini della classifica. La tendenza di affermati professionisti a farsi coinvolgere in uno spazio pubblico seppure poco (o per niente) remunerato e molto periglioso va apprezzata, ma non deve illudere: in una Repubblica democratica fondata sul lavoro mai il lavoro va reso senza corrispettivo. Altrimenti il guadagno può avere altre forme. Non sempre migliori. E meno costose.