Dipendenze
«Da nove anni non scopo, non ballo, non vado al mare. Il gioco d’azzardo s’è portato via tutto»
«Continuo a giocare perché non posso fare diversamente, non posso scegliere». I numeri del gioco in Italia continuano a crescere e anche l’impatto della ludopatia. Un potente romanzo-testimonianza getta uno sguardo su un fenomeno che non dà scampo
Secondo l’Agenzia delle Accise, Dogane e dei Monopoli (Adm) nel 2022 gli italiani hanno speso fino 140 miliardi di euro nel gioco d’azzardo. La ludopatia, riconosciuta come malattia dall’Oms, è entrata anche nei Lea, i Livelli Essenziali di Assistenza del Servizio sanitario nazionale. Secondo l’Istituto superiore di Sanità in Italia ci sono 1,5 milioni di giocatori “problematici”, 1,4 milioni “a rischio moderato” e 2 milioni “a basso rischio”. Chi sono? L’Osservatorio di Nomisma ha individuato due categorie: giovani fra i 14 e i 19 anni e over 65. La media nazionale di spesa pro capite è di oltre 1.400 euro.
Questi però sono solo numeri. Dati inquietanti? Niente in confronto al racconto in prima persona di una malattia. Basta leggere “Azzardo” (Einaudi), il magnifico libro di Alessandra Mureddu, che è molto più di una testimonianza: è letteratura, quindi fa più male.
Mureddu è una scrittrice vera, ha il dono e lo usa per parlare della sua maledizione. «Da nove anni non scopo, non ballo, non vado al mare. Il gioco s’è portato via tutto, nella primavera del 2015 mi sveglio e peso settantadue chili, ho i capelli bianchi e le unghie spezzate». Un giocatore compulsivo non si sente né femmina né maschio, ma «un soggetto neutro il cui sesso è del tutto irrilevante». Si veste con una tunica nera, non va più dal parrucchiere, i capelli sempre raccolti in un elastico. Porta un tutore perché il movimento compulsivo le ha provocato un’infiammazione al tunnel carpale, ma operarsi significherebbe smettere di giocare per qualche settimana e lei non può. Passa le vacanze in montagna a giocare al casinò. Non ha più amici, li ha allontanati tutti. È una «macchinettara». Nient’altro, perché a un certo punto nella sua vita esistono solo le slot.
Anche ai soldi non dà più valore, al vero giocatore non interessa vincere. «Nell’ultima fase della progressione della malattia, prevale la spinta autolesionistica e ti ritrovi a giocare per perdere. Di vincere non t’importa più: sei un errore e vuoi dimostrartelo». Vende i gioielli dei genitori, l’argenteria. Non c’è strazio, semmai l’ambiguo piacere dell’umiliazione nel negozio squallido di un Compro Oro.
Rinuncia al sole, alle stagioni, all’aria: l’ambiente in cui è imprigionata è buio, la moquette a disegni stilizzati ha un buon odore, riconoscibile, «a ogni sala giochi viene abbinata una profumazione in modo che il giocatore riconosca l’odore e si senta a casa: la stessa profumazione viene diffusa anche all’esterno per invogliarlo a entrare». Dei piccoli altoparlanti nascosti «riproducono il suono dei bonus, così il giocatore immagina che altre macchine stiano pagando e si sente spronato a continuare»: «Saperlo non mi serve a niente, continuo a giocare perché non posso fare diversamente, non posso scegliere». Anche il piacere di mangiare scompare: «Il mio corpo non mi appartiene, lo riempio di cibo così come in sala riempio la macchinetta di banconote». Fuori dalla sala giochi, a ricordarle che ha ancora un’anima, restano solo gli attacchi di panico e un cane.
La dipendenza comincia quando scopre che il padre è un giocatore. Lo segue per salvarlo ma succede il contrario, precipita lei: «I gesti di mio padre diventano i miei». La chiave di tutte le compulsioni è lì, nel suo essere figlia. Perché non si tratta solo del gioco. Malato è il rapporto con l’amore: «Io non conosco un sesso dolce, né le strade della gentilezza e del rispetto che lì conducono». Sceglie sempre relazioni sbagliate, maledette. Frequenta i Giocatori anonimi, esce dalla dipendenza dal gioco e subito cade in un’altra, da un uomo. «L’astinenza morde, sono una lumaca senza casa. Ho raffreddori nuovi e insolite allergie, gli occhi secchi e affaticati, dicono che succeda, dicono che la nostra droga è l’adrenalina, che giocando ne produciamo in quantità considerevole e che quando cala si abbassano le nostre difese». Ma «l’astinenza da Bruno è peggiore di quella dal gioco».
Del resto, è compulsiva in tutto. Anche nel comprare e accumulare. «Io ho sempre molte cose, mi si moltiplicano intorno, riempiono tutti gli spazi di cui dispongo». E il malessere ha tante forme, ben oltre la ludopatia: crisi psicotiche e paranoiche, ricoveri psichiatrici. Davanti alle stelle cadenti, Alessandra Mureddu esprime un desiderio: «Che l’angoscia che mi apre il petto in due come una lama mi abbandoni». Non so se si sia avverato. Ma sicuramente con la letteratura quella lama l’ha usata e non l’ha subita. La sua è una storia di dolore infinita, complessa fino alla vertigine. Eppure una luce c’è: abita nella sua scrittura, potente e lucida, e l’inferno si trasforma in bellezza.
In un altro potente romanzo si parla di gioco d’azzardo. È uno dei migliori di Marco Missiroli, “Avere tutto” (Einaudi), meritatissimo Premio Bagutta 2023. Il tema principale in realtà è il rapporto con il padre e con la malattia, ma quei tavoli da poker che tornano nel racconto, come un refrain, sono indimenticabili. Certo, la scena è rubata da Nando Pagliarani, dalle sue briscole, dalla sua cucina, dalle sue balere e dai suoi racconti («perito elettronico e delle telecomunicazioni, bigliettaio nei bus turistici sulla riviera, operaio ferroviere, barista, programmatore informatico in ferrovia. Sul documento d’identità non ha mai voluto scrivere: ballerino»). Usato quasi come un contrasto al calore della personalità di Nando, il poker è più che altro un’atmosfera, una solitudine. Una sottovita segreta del protagonista, Sandro, un ambiente rarefatto. E così diventa altro: l’azzardo in Missiroli sembra una metafora della scrittura, viene spostato in una sfera universale che non c’entra più nulla con la malattia, diventa il racconto del rischio, quello che si corre o non si corre in ogni vita.