Le procure lombarde si spaccano. Bergamo accusa, Milano è innocentista. E mentre Conte, Speranza, Fontana e Gallera sono indagati, al Don Gnocchi e al Trivulzio oltre 800 pazienti deceduti non hanno avuto giustizia. Eppure non tutte le strutture sono state travolte dalla valanga

Tre anni fa, di questi tempi, l’Italia finiva in lockdown con il dpcm del 9 marzo 2020 che chiudeva il Paese a partire dal giorno seguente. A tre anni di distanza e a due dall’inizio della campagna vaccinale che ha arginato la tragedia, i documenti terribili sulla pandemia dovranno aiutare il potere giudiziario a decidere se la strage dei fragili e degli operatori sanitari di prima linea sia stata un evento ineluttabile oppure un dramma aggravato dalle responsabilità della politica. Le inchieste stanno dando risultati contraddittori.

 

Solo cinquanta chilometri separano Milano e Bergamo, ma le Procure della Repubblica delle due città si sono pronunciate in modo opposto rispetto alla diffusione della Sars-Cov-2 in Lombardia all’inizio del 2020.

 

I magistrati bergamaschi hanno indagato l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’allora ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della giunta regionale Attilio Fontana, appena rieletto, il suo ex assessore al Welfare Giulio Gallera, più una quindicina di altri politici e tecnici.

A Milano, invece, i due procedimenti più importanti per le morti da Covid-19 nelle cliniche della Fondazione Don Gnocchi e nel Pio Albergo Trivulzio (Pat), con oltre ottocento decessi fra pazienti e operatori sanitari, sono andati in direzione opposta.

In entrambi i casi la pubblica accusa ha chiesto l’archiviazione degli indagati per i reati di epidemia colposa e omicidio colposo.

 

Pandemia
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Nel caso del Don Gnocchi, gruppo di sanità religiosa privata, i parenti delle vittime e i sopravvissuti hanno presentato opposizione. Per il Pat, ente a gestione pubblica, è stato l’ufficio del gip a rigettare la richiesta della Procura e a disporre un supplemento d’indagine.

 

Sia a Bergamo, dove si è partiti con notevole ritardo, sia a Milano passerà molto tempo prima di arrivare alla verità di una sentenza definitiva. Ma il sistema giudiziario è un unicum ed è inevitabile che le inchieste si influenzino a vicenda, non tanto sui fatti particolari, che vanno dalle zone rosse all’uso dei dispositivi di protezione individuale (Dpi), quanto sul tema di fondo.

 

La conclusione degli inquirenti milanesi nel procedimento Don Gnocchi esclude la colpa grave, indispensabile a confermare le accuse, a causa della «limitatezza delle cognizioni scientifiche».

 

Nella richiesta di archiviazione la Procura di Milano prosegue: «Attribuire la responsabilità della mala gestio di una pandemia agli odierni indagati significherebbe individuare un capro espiatorio. Condotte che adesso potrebbero apparire obiettivamente negligenti alla luce dell’esperienza di due anni di pandemia (come l’utilizzo costante delle mascherine) all’epoca non potevano essere pretese in un contesto dove, per esempio, le mascherine erano introvabili. Il sistema delle Rsa ha dunque retto fino al 2020 nella fisiologia del suo funzionamento, di fatto dimostrando i suoi limiti nell’imprevedibile situazione della pandemia che ha colpito il pianeta intero».

 

Sono conclusioni contraddittorie. Le mascherine erano introvabili proprio perché erano ritenute necessarie per ordine delle varie autorità sanitarie e perché c’era la caccia all’approvvigionamento. In quanto alla tenuta delle quattro strutture principali della Fondazione presieduta da don Vincenzo Barbante, uno sguardo ai dati toglie ogni dubbio. Fra il 31 gennaio e il 15 maggio, la clinica Santa Maria al Castello ha avuto 30 morti su 72 posti letto occupati (il 41 per cento). Il centro Girola ne ha avuti 60 su 125 posti letto, poco meno della metà. Al Palazzolo, l’istituto più grande con una capienza massima di 799 posti letto, si è vista una delle peggiori catastrofi dell’intera pandemia. Dei 580 ospiti ne sono morti 306, quasi il 53 per cento. Con i dieci decessi della Santa Maria Nascente, si arriva a 406 in totale, in maggior parte registrati prima del 21 aprile 2020, data delle perquisizioni da parte della polizia giudiziaria. La peste nera del Trecento, con un morto ogni tre europei, è stata meno letale.

 

«Con la svolta dell’inchiesta bergamasca si riapre tutto il fronte», dice Romolo Reboa, uno degli avvocati che hanno presentato opposizione a Milano in nome di 41 parti lese, in maggioranza eredi di vittime. «Può darsi che le responsabilità del livello politico-sanitario superiore riducano le colpe delle strutture, ma fino all’ultimo potremo portare nel nostro procedimento elementi nuovi in base a quello che accade negli uffici giudiziari di Bergamo».

 

La difficoltà di giudicare penalmente la pandemia è stata complicata da fattori tecnici sconcertanti. Nel ricorso di Reboa e dei colleghi si dichiara che dal procedimento sono state escluse «decine di persone offese che non hanno ricevuto notifica», che si sono persi 24 fra denunce-querele e atti di nomina e che il 10 agosto 2022 le parti offese si sono sentite chiedere 14 mila euro per copiare le carte dell’inchiesta.

 

Il livello superiore di cui si occupano i magistrati di Bergamo riguarda la politica sanitaria della Regione. E, per esempio, le zone rosse mai applicate in Val Seriana, mentre il prefetto di Lodi Marcello Cardona aveva deciso di chiudere dieci Comuni già il 22 febbraio 2020, nonostante le proteste di politici e imprenditori locali. I due procedimenti milanesi si muovono molto intorno a decisioni aziendali che hanno colpito prima i dipendenti e poi i ricoverati, massacrati da un virus che ha potuto superare con facilità sbarramenti fragili, fra visite parenti e servizio bar sospesi troppo tardi, bugie sullo stato dei malati, positività del personale sanitario occultate e persecuzioni disciplinari verso i lavoratori che intendevano proteggersi. Il malcontento di questi ultimi, si legge nei documenti, «li ha spinti a dotarsi autonomamente di mascherine». Ma ad alcuni coordinatori della cooperativa Ampast, «una società interposta per ridurre illegittimamente il costo del lavoro», l’eccesso di prudenza non andava bene. Quando «notavano che qualcuno degli operatori lavorava indossando una mascherina acquistata autonomamente gli ordinavano di toglierla perché poteva spaventare i pazienti». Inoltre bisognava «non allarmare il personale diffondendo la notizia secondo cui un’infermiera libera professionista era risultata positiva a tampone effettuato all’esterno».

 

In una riunione dell’unità di crisi del Don Gnocchi fra il 24 e il 26 febbraio si ribadiva che «l’uso delle mascherine non era utile, anzi si sarebbe trattato di «uno spreco di materiale» e si minacciavano «richiami e sanzioni disciplinari a coloro che sarebbero stati trovati con mascherina nello svolgimento delle proprie mansioni nelle strutture». Gli autori dei trasferimenti punitivi in altre strutture del gruppo sono stati già condannati dalla corte d’Appello di Milano.

 

Il capitolo dedicato ai parenti è particolarmente doloroso. Il 2 marzo 2020 si istruiva il personale in modo da evitare che i familiari sapessero la verità sui congiunti. «Le informazioni utili a tranquillizzarli possono essere anche di ridotto contenuto clinico: sta mangiando, sta bene, mantiene le sue normali abitudini». Non mancano riferimenti ai provvedimenti cervellotici della Regione che l’8 marzo 2020 definiva il concetto di contatto per gli operatori sanitari. Non era contatto se avveniva «quando l’attività assistenziale viene condotta con l’ausilio completo e corretto dei Dpi». Che mancavano quasi del tutto. In quanto allo screening, il 25 marzo Speranza ordinava tamponi a tutto il personale sanitario lombardo: 350 mila test in un momento in cui la Lombardia riusciva a eseguirne cinquemila al giorno.

 

Al Trivulzio, dove fra gennaio e aprile 2020 ci sono stati circa 400 morti, la vicenda processuale ha avuto un decorso in parte simile alla vicenda del Don Gnocchi. La Procura milanese ha chiesto l’archiviazione. Ma il gip Alessandra Cecchelli l’ha respinta il 22 giugno 2022. Una consulenza tecnica d’ufficio ha rilevato «al Pat un chiaro eccesso di mortalità con stime intorno a un raddoppiamento del rischio». Il giudice conferma che «il personale ha ricevuto disposizioni per i Dpi tardivamente adottate, quando non disincentivate». Una seconda perizia è stata ordinata alla fine del 2022. Lo scorso 6 marzo l’ufficio del gip ha concesso sei mesi di tempo per depositare la nuova relazione e ha fissato la prossima udienza al 18 dicembre 2023.

 

Poteva andare diversamente? In alcune strutture il disastro è stato evitato, come si sottolinea nell’opposizione all’archiviazione per il Don Gnocchi. In Lombardia, il bilancio è molto più accettabile alla Domus Patrizia, alla Casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi, alla San Remigio e alla Casa di cura ambrosiana, controllata dalla Fondazione Sacra Famiglia.

 

Paola Pessina, presidente dell’Ambrosiana ed ex numero due della Fondazione Cariplo, dimessasi ad agosto 2020 dopo una polemica con Giorgia Meloni, ha rivolto critiche motivate alla Regione e alla Protezione civile. «Alcuni gestori hanno scelto di mettersi in sicurezza velocemente, a volte bypassando le stesse indicazioni regionali. Altri hanno tentato di mantenere una normalità che salvaguardasse equilibri sempre più precari, compreso il caso dell’improvvido divieto dell’uso di mascherine. La meglio l’hanno avuta probabilmente quelli che hanno scelto di giocare da subito in trasparenza assumendosi il rischio delle scelte e comunicandole ad autorità, personale e famiglie». Ora si dovrà scegliere fra processi veri e quella che, di fatto, è un’amnistia generale.