Economia
Gli scioperi e le proteste di mezza Europa segnano la fine dell’espansione economica
Lo stop al lavoro per aumenti salariali allontana il raffreddamento dell’inflazione in Germania, paese guida dell’Europa. Mentre le manifestazioni francesi per la riforma delle pensioni fanno crollare le previsioni di crescita nazionale. E la Gran Bretagna ancora non è in grado di gestire Brexit
Le fragorose proteste francesi compromettono le riforme istituzionali europee, tema cruciale per noi. Le richieste salariali tedesche a doppia cifra, sostenute con un rabbioso piano di scioperi, hanno conseguenze sulla Bce perché allontanano la sconfitta dell’inflazione nel Paese-guida dell’Europa. Gli strascichi della Brexit, esemplificati dalle file chilometriche a Dover nel weekend pasquale, hanno conseguenze sulla funzionalità di una piazza finanziaria indispensabile per le imprese. La rivoluzione parallela a colpi di manifestazioni, scioperi e picchetti nei tre maggiori Paesi del Vecchio continente - Francia, Germania e Gran Bretagna - avrà insomma ripercussioni sulla struttura economica dell’intero continente: è quanto si legge negli allarmati dossier di centri studi, banche d’investimento, osservatòri.
Scrive la Goldman Sachs nel report “Reform momentum decelerates”: «La via scelta da Macron per la riforma delle pensioni, il controverso comma 49.3 (simile alla nostra “fiducia”, ndr) non potrà essere usato per le altre riforme strutturali in programma: scuole specializzate, percorsi professionali, mercato del lavoro, immigrazione, sistema giudiziario, sicurezza idrica, investimenti in sanità».
Un memento non solo per la Francia ma per l’intera Ue, Italia in testa, perché tutti i Pnrr nazionali a queste riforme sono legati. Senza contare la perdita secca di Pil, in questo caso per la Francia: la Sncf (ferrovie) ha incassato tre miliardi in meno per gli scioperi, più i danni per i comuni: dai trasporti ai rifiuti.
La crescita della Francia nel 2023 è prevista dall’Ue nello 0,6%, cifra che sarà rivista. «La debolezza, con riflessi sull’Europa, significa anche carenza di leadership», osserva Lorenzo Codogno, capo del think-tank Lc Associates. «Macron aveva vinto le elezioni occupando il centro e allargandosi a sinistra e poi a destra. Ora è soffocato dai due estremi».
La rottura del patto sociale emerge anche in Germania, che si scopre vulnerabile alla crisi energetica, ai rapporti con la Cina (importanti per Berlino quanto lo erano quelli con la Russia), all’inflazione. Il risultato è una frenata del Pil a un +0,2% previsto per il 2023, la crescita più bassa dell’Ue. È l’inflazione, per motivi storici, a far tremare le vene ai polsi dei governanti tedeschi, che resistono alle pressioni sindacali per aumenti salariali a doppia cifra. «Negli ultimi 15 anni i lavoratori non hanno avuto alcun aumento perché impegnati nella costruzione della fortezza Germania - spiega Brunello Rosa, docente alla London School of Economics - ma ora le rivendicazioni sono inevitabili visto che l’inflazione è arrivata a livelli inusitati per il Paese (7,8% in gennaio, ndr)». La reazione al “no” governativo è una raffica di scioperi a partire da quello del 27 marzo con i trasporti fermi - bus, metro, aerei, ferrovie - e una partecipazione che non si vedeva da trent’anni. Il malessere si sta estendendo al settore privato. «Se si innesta la spirale prezzi-salari, come ricordiamo benissimo in Italia - dice l’economista Innocenzo Cipolletta - l’inflazione scenderà ancora più lentamente. Visto che la Germania è il Paese centrale per l’Europa, è difficile che la Bce possa fermare gli aumenti dei tassi d’interesse che riguardano tutta l’Eurozona». Anche a Berlino ci sono incertezze al vertice: «Il governo ha molte anime, dai verdi al ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner che deve fare il duro, modello Schäuble, per non deludere la sua base elettorale. Il cancelliere Olaf Scholz media ma non ha il dovuto carisma».
Anche dal terzo grande malato d’Europa, la Gran Bretagna, arrivano segnali inquietanti. La spinta che aveva portato nel 2016 alla Brexit si è trasformata «da crisi isolazionista in crisi da isolamento», scrive il Guardian, che pubblica un sondaggio: la nostalgia per l’Ue è salita dal 30 al 40%, e il 49% dei britannici esprime “delusione” per la Brexit contro il 24% che l’approva. Per Richard Hughes, presidente dell’Office for Budget Responsibility, l’uscita dalla Ue ha provocato una perdita del 4% per il Pil: «I danni sono stati pari a quelli del Covid o della crisi energetica». Su un giudizio così tranchant «pesa l’incapacità dei governi che si sono susseguiti negli otto anni dal referendum nel decidere i dettagli del distacco», dice Giampaolo Galli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici. «Questioni come il confine irlandese sono irrisolte. Nel canale fra le due isole britanniche, eletto a linea di frontiera, regna il caos». Gli inglesi rimpiangono Bruxelles che voleva «stabilire la curvatura delle banane», come diceva Boris Johnson, brexiter convinto. Era una bufala ma dava l’idea dei vincoli comunitari che in effetti a volte sono eccessivi. Se non bastasse, c’è stato il pasticcio dello scorso autunno, quando la premier Liz Truss varò una riforma fiscale piena di tagli di tasse per i più abbienti e le imprese, priva di copertura. «L’attuale premier Rishi Sunak, al numero 10 di Downing Street dal 25 ottobre, ha dovuto varare una politica di austerity per recuperare i 55 miliardi di buco, alzando le tasse e tagliando la spesa perfino in sanità», spiega Marco Vialli, capo economista globale di Unicredit. Di qui lo scontento popolare con scioperi, manifestazioni, boicottaggi.
«Fra i guai della Brexit - dice Vialli - c’è la carenza di personale dovuta alla draconiana revisione nelle norme sull’immigrazione (europei compresi), che Sunak sta cercando di ricucire». La City rischia di perdere lo status di centro finanziario globale: troppi guai attraversano il Paese di cui fa parte.